sabato 27 febbraio 2016

Derrida: gli scritti sull'arte

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Jacques Derrida: Pensare al non vedere, Jaca Book euro 30

Risvolto

Il privilegio della voce ci fa dimenticare che nel disegno si manifestano altri elementi visibili e non udibili. Questo vale anche per la scrittura geroglifica. Derrida, filosofo della scrittura, manifesta in questa opera il suo grande riconoscimento nei confronti di una scrittura non udibile, in cui la visione è il solo vettore di percezione. Discute quindi con pittori, partecipa a esposizioni di fotografia, interviene sul cinema, sul teatro e sulla televisione. L’opera d’arte, secondo Derrida, si definisce in quanto non la si può consumare. “La bellezza è qualche cosa che sveglia il mio desiderio dicendo ‘Tu non mi consumerai’. E’ un gioioso lavoro di lutto, benché non sia né lavoro né lutto. D’altra parte se la posso consumare non è bella. Ecco perché avrei più difficoltà a dire che una pittura o un’architettura sia bella. Potrei dirlo, ma non sarei preso da lei, non sarei emozionato dallo stesso sentimento di bellezza. Potrei invece essere commosso da un discorso compiuto dove ci sono degli esseri che parlano, o anche da dei testi, un poema ad esempio, dove ci sono degli effetti di voce che chiamano e si danno rifiutandosi”.


MAURIZIO CECCHETTI Avvenire 12 marzo 2016

In anteprima del volume con i suoi scritti sull'arte, un'intervista inedita al grande pensatore francese. Che parla di visione e cecità, di pittura e autobiografia. E di come una paralisi temporanea al volto abbia influenzato la sua visione della pittura 
di Jérôme Coignard l'Espresso

Scritti sull’arte
Saggi. Pubblichiamo due estratti dal libro "Pensare al non vedere", sull'idea di tratto e a proposito del lavoro dell'artista Jean-Michel Atlan
di Jacques Derrida Il manifesto Alias 27.2.16
Esce in questi giorni per Jaca Book Pensare al non vedere (euro 30), un volume che raccoglie gli scritti sulle arti del visibile di Jacques Derrida, nell’edizione stabilita da Ginette Michaud, Joana Masó e Javier Bassas (2013). L’edizione italiana e la traduzione sono a cura di Alfonso Cariolato. Il libro propone un’ampia selezione dei testi dedicati alle arti nell’arco di venticinque anni (dal 1979 al 2004). Difficilmente reperibili perché disseminati in cataloghi, riviste, volumi collettanei o addirittura inediti, i testi sono stati rivisti e ricontestualizzati dai curatori e ripartiti in tre sezioni: la prima affronta il primato filosofico del visibile nell’arte; la seconda raggruppa testi realizzati nell’ambito di collaborazioni con diversi artisti e riguarda specificamente il disegno e la pittura; la terza raccoglie scritti dedicati alla fotografia, al video, al cinema e al teatro. Chiude il volume un intenso intervento in cui Derrida, a due mesi dalla morte, parla del suo complesso rapporto con la propria immagine. Un’utilissima bibliografia e filmografia, infine, permettono al lettore di orientarsi nella vasta produzione del filosofo riguardante le arti. Qui pubblichiamo due estratti dal libro, sull’idea di tratto e a proposito del lavoro dell’artista Jean-Michel Atlan – con, annessa, la questione del nome nell’arte. «A lato» c’è poi una riflessione del filosofo francese Jean-Luc Nancy su Derrida e l’arte.


Non dovrei solamente fare come se il nome di Atlan fosse scomparso, dimenticato, inghiottito, annegato sotto Atlantide. Ma come se le opere del suddetto Atlan avessero perduto il loro titolo. Il loro nome proprio e il nome del loro creatore. Come se, alla lettera, non mi dicessero niente. Come se, piuttosto, non mi autorizzassero a nulla, come se non mi concedessero in ogni caso l’autorità di non dirne nulla. D’altronde, come descriverle? Mi si permetta qui di risparmiarmi una lunga dissertazione teorica, ma ironica, sulla descrizione di un quadro. Quando penso che alcuni osano o pretendono di farlo, descrivere, abbozzare la minima descrizione di un quadro! Èsempre impossibile, dovrebbe essere vietato descrivere un quadro, «constatarlo», se non ordinando: andate ad ascoltare questo quadro che non è più un quadro, che non ha più la stabilità placata di un quadro, sentite il suo incantesimo, la sua preghiera, le sue ingiunzioni o i suoi comandamenti (tale quadro imperioso somiglia talvolta a una tavola dei comandamenti), vibrate alla vibrazione del suo grido, e poi andate a vedere, se potete, quelle linee, quei tratti, quelle bande, quei nodi, quei passi di danza. Inoltre, come descrivere, e come nominare, un colore? Come farlo senza figura, senza svolta tropica, ma alla lettera, letteralmente? Per esempio il suo «nero» che non è nero, che è nero al di là di ogni nero conosciuto? Da un individuo all’altro, da una cultura all’altra, come intendersi per identificare e soprattutto per chiamare i colori, per stabilizzare e codificare i nomi dei colori, in particolare nella Bibbia? Come insegnare i nomi dei colori a un cieco dalla nascita dopo l’operazione che gli rende la vista? Mi trovo qui, con Atlan, mutatis mutandis, io, come un cieco operato, di fronte alla stessa impossibilità di dire nel momento di recuperare la vista davanti a uno spettacolo inaudito. Come se, dunque, le opere del suddetto Atlan non portassero mai un titolo. Alcune tele di «grande formato» si concedono, certo, il «senza titolo» come titolo. Da qui mi è venuta probabilmente l’idea. Non più parole, mai più. Senza fiato. Afasia. Anche se già il nome Asie , il fonema Asie, le lettere dell’Asie, dall’altro lato del Medio Oriente biblico, venivano a stagliarsi per risuonare, riecheggiare e riflettersi in uno dei titoli (Les Miroirs de l’Asie [Gli specchi dell’Asia] (1954), il più chiaro e il più blu di tutti questi «grande formato»: come se, quasi al centro, tra vaghi serpenti eretti in modo quasi simmetrico, per rinviarsi la loro immagine faccia a faccia, una specie di pesce in immersione forse cristica, una di quelle numerose figure animali o zooteomorfiche della raccolta, tendesse ancora uno specchio al sole – a meno che non sia alla luna. Ma ecco che mi ritrovo ancora a descrivere, malgrado la promessa o il divieto).
(…)
Ogni pittura, ogni pittura in quanto tale, e anche se in apparenza porta e sopporta, come suo «soggetto», un titolo, cioè un nome (e i titoli senza sostantivo sono rari, che i nomi siano comuni o, come capita spesso qui, che siano propri, o ancora che esitino tra il proprio e il comune, includendo sempre in ogni caso qualche nome proprio nel nome comune: Le Grand Roi Atlante [Il Grande Re Atlante], Tanit, Calypso III, Baal Guerrier [Baal Guerriero], Pentateuque, Le Tao , La Redoutable, Les Miroirs de l’Asie, Jéricho, Sodome, La Kahena), ogni pittura degna di questo nome, dunque, in quanto tale, ha la vocazione di fare a meno del nome, voglio dire del titolo. Qui si esporrebbero la sua essenza e il suo spazio, la spaziatura stessa della sua spazialità – e letteralmente il suo colore. Da qui l’energia della sua danza e del suo canto. Là dove, facendo a meno del nome, de-nominandosi, essa chiama ancora e dà il suo luogo al nome. Irresistibilmente. Essa non si chiama con questo o quel nome, essa chiama un nome.
Pag. 245–246, 248
In fondo partirò, se vuole, dal «niente da vedere» – dal «niente da vedere» nel senso, al tempo stesso, dell’accecamento e della mancanza di rapporto. Quando si dice: «Non c’èniente da vedere», ciòsignifica: «questo non ha rapporto con quello» – ed èanche un modo per disegnare il campo dell’incompetenza. Nel corso di questi, diciamo, ultimi quindici anni, mi ècapitato di essere provocato in qualche modo dall’esterno – infatti, non lo avrei mai fatto spontaneamente – a scrivere sul disegno. L’ho fatto (…) nel contempo esponendomi e proteggendomi, vale a dire: ho l’impressione che tutte le volte che ho parlato del disegno fosse un modo per evitare di parlare della pittura. In uno dei testi raccolti in un’opera intitolata La verità in pittura, ci si accorge assai presto che, appunto, non parlo mai della pittura, cioèdel colore, della macchia di colore, ma di ciòche sta intorno: il disegno, ma anche i margini, la cornice; cio che, trovandosi all’esterno del disegno, viene in qualche modo a riempire o determinare l’interno; ciòche inscrive il disegno su una superficie, che lo eccede o, sul mercato della pittura, del disegno, ciòche lo inscrive in speculazioni che sono tanto quelle del mercato del disegno quanto quelle delle speculazioni teoriche, dei discorsi. Bene, io sto nel campo del discorso, vale a dire che quando vado verso le parole per parlare del disegno o della pittura, questa èanche una maniera di sfuggire a ciòche so di non poter dire a proposito del disegno stesso. Perchéin fondo – poichéla questione che qui viene posta a tutti i partecipanti e: «Che cos’èil disegno?» – la mia risposta e: «Non so cosa sia il disegno». E, continuamente, sono tentato di ricondurre il disegno verso l’insignificante, cioèverso il tratto. Ed èin questo modo che, incessantemente, sono stato portato a ricondurre la mia preoccupazione del disegno verso la mia preoccupazione piùantica e piùgenerale del tratto di scrittura, della linea della scrittura nella misura in cui essa consiste in un reticolo o sistema di tratti differenziali.
Il tratto differenziale (…) è, naturalmente, il tratto apparentemente visibile che separa due pieni, o due superfici, o due colori, ma che, in quanto tratto differenziale, èciò che permette ogni identificazione e ogni percezione. Allora, il tratto differenziale, metaforicamente, può designare allo stesso modo ciòche all’interno di qualsiasi sistema, grafico o meno, grafico in senso comune o meno, istituisce delle differenze, per esempio in una parola, in una frase – e la linguistica saussuriana –, il tratto differenziale, il tratto diacritico, è ciòche permette di opporre lo stesso e l’altro, l’altro e l’altro, e di distinguere. Ma il tratto in quanto tale, esso stesso in quanto tratto differenziale, non esiste, non ha pieno. Se volete, tutto il pensiero o la teoria della traccia che avevo cercato di elaborare senza un riferimento essenziale al disegno – sebbene in Della grammatologia sia stata posta anche la questione del disegno in Rousseau –, nondimeno, al di là del disegno propriamente detto, la traccia o il tratto, designerebbe – in ogni caso, èciò che ho cercato di mostrare – la differenza pura, la diacriticità, ciòche fa sìche qualcosa si possa determinare per contrasto rispetto a un’altra cosa: l’intervallo, la spaziatura, cio che separa. E allora ciòche separa – l’intervallo, la spaziatura – non èniente in sé, non èné intelligibile ne sensibile, e in quanto non èniente non èpresente, rimanda sempre ad altro e, di conseguenza, non essendo presente, non si da a vedere. In fondo la più grande generalità della definizione del tratto, cosìcome mi ha interessato da molto tempo, e che dàtutto a vedere in fondo, ma non si vede. Dàa vedere senza darsi a vedere. E dunque il rapporto con il tratto stesso – con il tratto senza spessore, con il tratto assolutamente puro –, il rapporto con il tratto stesso e un rapporto, un’esperienza di accecamento. (pag. 160–162) 

Jacques Derrida, l’arte di un pensiero invisibile
Filosofia. Il problema della scrittura, a cominciare dalla firma, alla retorica del «tratto», fino alla presenza dell’arte nel pensiero del filosofodi Gianluca Pulsoni il manifesto Alias 27.2.16
Alcune note di lettura per Pensare al non vedere
Derrida: nel mondo intellettuale contemporaneo, chi non si è mai imbattuto nel suo nome, chi almeno una volta non ne ha parlato, scritto, o discusso? Tutti – ma se non tutti, tanti – l’hanno interpretato e utilizzato e persino ne hanno stravolto a piacimento le teorie e lui, in quanto pensatore, è certamente stato uno degli ultimi a esercitare questo fascino e questa efficacia. Tutto questo è sicuramente avvenuto fino alla morte, cioè al 2004, perché negli ultimi anni, quantomeno in Italia, sembra che il lavoro e la voce del francese siano passati pressoché sotto silenzio. O meglio: la sparizione della sua immagine pubblica ha lasciato il posto al vuoto, a noi, al nostro rapporto diretto con le sue tracce, i suoi libri, la sua ricerca, rivelando in pieno una complessità immane che distanzia, una complessità che però fa rima con necessità e novità, perché si tratta di un’opera che sembra ancora anticipare i tempi e si mostra ancora tutta da scoprire – e qui, ora, viene forse fuori una voce a suggerire: torniamo a leggere Derrida, ma a leggerlo con l’attenzione che merita, come un classico.
In merito, una occasione propizia può sicuramente essere l’ultima pubblicazione in ordine di tempo del lavoro del nostro da parte di Jaca Book, la casa editrice di Milano che da tempo si occupa di diffondere da noi il pensiero dell’autore francese: Pensare al non vedere. Scritti sulle arti del visibile. A cura del filosofo e traduttore Alfonso Cariolato (suo, inoltre, l’importante saggio introduttivo), questa edizione italiana della raccolta di interventi di diversa forma e per diverse occasioni che il pensatore ha scritto e detto nel corso di molti anni può senza dubbio funzionare come una sorta di ideale introduzione o preparazione al Derrida più teorico sulle questioni intorno all’immagine e dentro le trame del visibile – e qui il riferimento va soprattutto a La verità in pittura, dove sono articolate e presentate le nozioni fondamentali e continue del suo pensiero sull’arte.
Per questo, anche, val la pena presentare alcune possibili note per meglio avvicinarsi alla lettura di questa raccolta.
La scrittura, la firma
Nell’affrontare Derrida il primo problema è senza dubbio quello della sua scrittura, così spesso densa e a tratti oscura. La questione si ripresenta anche in questi interventi sulle arti del visibile, dove però si offre, forse, una possibile soluzione.
Nel suo saggio introduttivo, Cariolato scrive: «Non si tratta di pensare il non vedere nel senso di darlo a vedere, di rendere infine visibile l’invisibile – soprattutto non questo. Piuttosto: che pensiero sarà un pensiero meno obbligato dalla classica analogia con la vista, dalla metafora della luce di contro all’oscurità, del far luce, del rendere chiaro, del far vedere ciò che comunque è già nell’orizzonte della vista? Non un pensiero che scelga l’oscurità in luogo della luce, operando così una semplice inversione, ma un pensiero che tenti – con uno scarto rispetto a ciò che è dato vedere, al visto – di pensare il non vedere.»
Da qui si potrebbe suggerire che quella di Derrida scrittore sia un’etica della scrittura in relazione a tale sforzo, e cioè un esercizio teso a tradurre l’illeggibilità di determinate questioni attraverso una certa scientificità. Come a dire: se cerco o teorizzo x, non posso che di conseguenza piegare il mio linguaggio alle condizioni poste da una tale esigenza.
Ora, premesso questo – qualcosa che ovviamente esclude gli scritti nel libro che per determinate ragioni sono più scorrevoli (ce ne sono molti) – si può arrivare a focalizzare l’attenzione sulla importanza della firma come nozione, qualcosa che è alla base di molte riflessioni presenti in questo volume. E qui è Derrida a parlare: «Non basta semplicemente scrivere il proprio nome per firmare. Su un modulo di immigrazione si scrive il proprio nome e poi si firma. La firma è dunque altra cosa rispetto a un nome semplicemente scritto. È un atto, un performativo mediante il quale ci si impegna in qualcosa, con il quale si conferma in maniera performativa che si è fatto qualcosa – che è stato fatto e che sono io che l’ho fatto. Una simile performatività è assolutamente eterogenea; è un resto esterno a tutto ciò che nell’opera significa qualcosa. Qui vi è un’opera – lo affermo, lo controfirmo. Vi è un esserci [être-là] dell’opera che è più o meno l’insieme degli elementi semantici analizzabili. Un evento ha avuto luogo.»
Come un metodo sperimentale
Ora, data la firma come inizio, l’impressione è che si possa poi risalire a tutte le nozioni e suggestioni potenzialmente collegabili che Derrida espone o articola – come, per esempio, quella assai particolare di tratto. Ma a questo punto, come logico, occorre fornire indicazioni sul lavoro del pensiero del nostro. E cioè: qual è il movimento che lega il tutto, quale la sua qualità prima?
Sia che si tratti di considerazioni di carattere più generale sulle tracce del visibile – la prima parte del libro – sia che si tratti di tutti gli interventi intorno alla «retorica del tratto» in relazione alla pittura e al disegno – la seconda e più corposa parte del libro (qui leggiamo Derrida su questioni estetiche e teoriche ma anche su numerosi artisti, per esempio Colette Deblé, Salvatore Puglia, Valerio Adami, Jean-Michel Atlan) – sia ancora che si tratti di quanto scritto e detto dal francese su fotografia, video, cinema e teatro – la terza parte del libro (qui si trovano molte riflessioni teoriche relative alla «spettralità dell’immagine» e testi sui fotografi Shinoyama Kishin, Frédéric Brenner, il videoartista Gary Hill, ma anche sul teatro come per esempio su Daniel Mesguich) – ciò che sembra rimanere una costante è come il pensiero all’opera di Derrida abbia la forza e la forma di uno scavo continuo e sistematico che separa gli elementi di una trama di segni e significati, approfondisce le loro relazioni, ne individua i punti critici. Uno scavo il cui nome è forse quello – celebre – di decostruzione, e che non può che configurare lo stesso pensiero come azione invisibile e suggerire, alla fine, una analogia tra la comprensione filosofica di un Derrida e la metodologia sperimentale di un Galileo. Forzatura? Forse. Ma se si presta ascolto al pensatore francese, se si leggono le pagine di questo libro, quanto si percepisce dal montaggio di osservazioni, ipotesi, verifiche, formulazioni – sempre incessante, sempre mancante – non sembra molto lontano da certo cimento.
Come se Derrida fosse una sorta di fisico del pensiero.
Perché l’arte
In ultimo, vale la pena entrare in merito alla presenza dell’arte nel pensiero di Derrida – o meglio: porre una considerazione, delineare una traccia.
Ipotizziamo: a differenza di altri campi del sapere e dell’agire umano, è forse qui che si muove meglio la decostruzione derridiana – perché meno vincolata da strutture e sovrastrutture, perché in relazione potenziale più diretta con quanto dell’immagine si sottrae alla rappresentazione, perché più in grado di rivelare la soggettività di chi vede e di chi parla.
Di tutto questo è forse rivelatore l’ultimo scritto presente nella raccolta. Uno scritto, se si vuole, autobiografico. Uno scritto bellissimo, del 2004.
Invitato da La Quinzaine littéraire a dire la sua in merito a un’indagine rivolta a un centinaio di autori – tema: «Pour qui vous prenez-vous? [Per chi vi prendete? / Per chi si prende?]» – Derrida riesce in poche righe a far capire come l’elaborazione di una immagine di sé, esempio limite della creazione di qualsiasi immagine (aggiungiamo noi), non possa che finire in una sorta di non-finito, e quindi l’arte – in questo caso – non possa che essere intesa come azione tesa a questa sospensione, al di qua e al di là di ogni estetica: «Non come il sintomo di una “verità”, la mia, quanto piuttosto come una preghiera, quella di cui Aristotele diceva così giustamente che non è “né vera né falsa”». 

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