martedì 9 febbraio 2016
Durrell e il Mediterraneo
Lawrence Durrell: Balthazar, Einaudi
Risvolto
Il lettore odierno non si libera
dalla sensazione che il Quartetto sia
anche un gioco col grande romanzo
modernista, e se non la sua
(involontaria?) parodia, certo la sua
archiviazione. Il «messaggio» che
Durrell inscrive nelle pagine finali
di Clea - la rinuncia alla hybris
intellettualistica del sapere come
forma di fagocitazione della realtà -
non equivale forse a una presa
di distanza, anzi a un vero e proprio
congedo da quella che era stata
l'eroica e nobile utopia della
letteratura modernista: riuscire a dare,
malgrado tutto, un ordine e quindi
un senso al mondo e alla storia?
A Lawrence, che pure ammirava,
Pursewarden una volta scrisse
che non gli sembrava proprio il caso
di costruire un Taj Mahal intorno
a una cosa semplice come una bella
scopata. Ciò che il lettore si chiede
è se l'intero Quartetto non sia per caso
una deflation del Taj Mahal costruito
dalle archistar della narrativa
novecentesca intorno ai Massimi
Problemi dell'Arte e della Vita,
dell'Io-dello-Scrittore e della Forma-del-Romanzo... Deflation ovvero
gioco e pastiche che, nel momento
stesso in cui rifanno il verso ai loro
modelli, li decostruiscono
umoristicamente prima di riporli
nel magazzino dei ferrivecchi.
Nella città delle passioni proibite
Una comunità gaudente e cosmopolita, una folla di personaggi, un intreccio di amori , gelosie e tradimenti Superbe le scene corali come la festa popolare di Sitna Mariam o il ballo di carnevale Il narratore rievoca gli avvenimenti dal promontorio di una sperduta isoletta greca
9 feb 2016 Corriere della Sera Di Giorgio Montefoschi
Come in Justine, così anche all’inizio di Balthazar, il secondo dei quattro romanzi che compongono il meraviglioso Quartetto di Alessandria di Lawrence Durrell, Darley, il narratore, dal promontorio della sperduta isoletta greca nella quale si è ritirato ormai da tre anni, scruta l’orizzonte. Laggiù, a sud, lontana quanto serve alla memoria, la città bianca stretta fra la purezza del deserto e la riva del Mediterraneo, che talvolta ai naviganti appare come un miraggio — con i suoi cieli perlacei, i minareti, le palme, il quartiere ebraico, le rovine del Faro, il porto metafisico nel quale incrociano le navi da guerra e gli yacht, le facciate scrostate dei palazzi in cui da secoli dimorano gli inglesi e i francesi, i greci e gli italiani, gli arabi, gli ebrei, e gli egiziani — continua a distribuire a coloro che la amano e non riescono a distaccarsene, la gioia e il dolore in pari misura.
Un giorno, nella isoletta deserta con le spiagge sassose e gli ulivi piegati dal meltemi, grazie all’imprevisto scalo del battello diretto a Smirne, approda Balthazar: il medico omosessuale, colto, appassionato della Cabala, affettuoso, che già abbiamo conosciuto in Justine. Con sé, ha il manoscritto del primo romanzo( Justine, appunto), che Darley gli ha dato da leggere, e, sapendo di averne la licenza, un Commentario a quello stesso romanzo che per molti aspetti ne smentisce la verità. Justine, l’ebrea sensuale e bella, con i grandi occhi neri «dipinti come la prua di una nave egea», violentata da ragazzina, privata di una figlia piccola che le è stata misteriosamente rapita, implacabile nella ricerca del piacere e tuttavia incapace di provarlo, amante di Darley, moglie di Nessim Hosnani; Nessim Hosnani, il ricco banchiere copto che ha voluto a ogni costo sposarla, pur sapendo di non essere amato, per proteggerla dalla sua fragilità; Narouz, il fratello di Nessim, col labbro leporino, acceso nel suo amore per il fratello e violento, volontariamente segregato nella grande tenuta di campagna sul Delta, nella quale, insieme al suo cobra, vive la madre di entrambi, coperta da un velo nero per nascondere i segni del vaiolo; Clea, la pittrice; Pursewarden, lo scrittore inglese sprezzante; Melissa, l’esile ballerina del cabaret malata di tisi: tutto quello che finora sapevamo di loro dovremo leggerlo in un’altra luce.
La verità, infatti, come bene puntualizza nella sua prefazione Giuseppe Sertoli, l’elegante traduttore di Balthazar, non è mai una, dipende dal «punto di vista». E i punti di vista possono essere tanti, infiniti: celati nei volti di persone che neppure sospettiamo; sepolti in luoghi per noi inaccessibili; racchiusi nei momenti cangianti del tempo; suggeriti da una frase o una parola; svelati da un intero Commentario. Sapevamo alcune cose. Altre non le sapevamo affatto. Non sapevamo, per esempio, che la storia fra Darley e Justine era in realtà un paravento del quale lei si serviva per nascondere la sua vera storia d’amore: quella con Pursewarden, lo scrittore inglese, con quel suo «ardore freddo», sempre pronto a negarsi. Non sapevamo che nel salone dell’Hotel Cecil in cui «trattavano» per il loro matrimonio, a un bel momento Nessim aveva esibito un assegno pazzesco di tremila sterline, Justine lo aveva rifiutato, e invece gli aveva detto: accetto solo se stasera stessa andiamo a letto, e stavolta aveva rifiutato lui; non sapevamo dell’ambiguo rapporto fra Clea e Justine. Così, dal fondo del mare, Alessandria risorge, grazie a questo Commentario. E nella fresca bottega del barbiere Mnemjain, «coi suoi specchi e le sue palme, le tende di perline e la deliziosa mimica di limpida acqua calda e panni caldi», luogo ideale per riprendersi da una sbornia notturna e sapere i pettegolezzi della città mondana, comincia il secondo romanzo: Balthazar.
Ecco, allora, la gran folla dei suoi personaggi: il diplomatico francese Pombal, con il quale Darley divide un appartamento, inesausto consumatore di avventure femminili; ecco Scobie, l’ex marinaio che di nascosto si traveste da donna, ora assunto nella polizia egiziana con lo scopo di vigilare su quel gruppetto di europei sovversivi che certamente, attraverso la Cabala, chissà quali messaggi politici si stanno scambiando; ecco il piccolo Toto de Brunel, «col suo faccino vizzo di strega, gli occhini scuri da bambino, il pizzetto e lo strano sorriso liberty» favorito delle vecchie signore che non osano pagarsi un gigolo; ecco il losco Capodistria, chiuso nella sua immensa biblioteca, obnubilato dagli anni, dimentico delle sue nefandezze… Ecco il parziale elenco dei nomi che compongono la società gaudente e cosmopolita e la descrivono meglio di ogni racconto: Pia dei Tolomei, colonnello Neguib, Pozzo di Borgo, Ahmed Hassan Pascià, Delphine de Francueil, Athena Trasha, Pierre Balbz, conte Banubula, Dimitri Randidi, Claude Amaril, Tony Umbada, Gilda Ambron…
Ed ecco la città sospinta indietro dalla nostalgia e dalla memoria; la città dalla quale è sparita ogni traccia del tempo, ma custode dei versi di Kavafis, il poeta che, conoscenvisto done ogni pietra rimasta, ogni bassorilievo, pareva contemplarla come da un angolo del mondo; la città nella quale ancora risuonano quei misteriosi canti notturni che sempre si allontanano o sono inghiottiti dalle sirene delle navi, dalle litanie dei venditori d’acqua, dalle urla delle donne nubiane, dal rumore degli zoccoli dei cavalli che trascinano le carrozzelle, dallo sferragliare dei tram che avanzano lungo le rotaie intasate di sabbia, dal «morbido spolverio dei venti primaverili»…
Il piacere e la felicità, i nodi che non riescono a sciogliersi nel cuore e nella carne, la gelosia e il tradimento, la perversione e la follia — allo stesso modo che in Justine — serrano le pagine di Balthazar, sofferte e aggrovigliate come lo sono i pensieri e i sentimenti dei protagonisti, e di tutti gli alessandrini, incapaci di liberarsi dal destino di possessione oscuro che sembra incatenarli. Momenti di tensione insostenibile segnano quasi tutti i rapporti umani (ma il culmine è nella visita che Nessim fa alla madre e al fratello Narouz per comunicare il suo prossimo matrimonio, con Narouz che sbianca e balbetta: «Non è Clea, vero Nessim… Non è Clea…» perché Clea è la donna che lui ha solo una volta nella vita e ama pazzamente, e in segreto a causa del labbro leporino).
Scene corali superbe — come la festa popolare di Sitna Mariam, la santa copta alla quale partecipa però tutta la città, o il tradizionale ballo di carnevale nel lussuoso palazzo dei Cervoni — raggiungono il delirio.
Nella festa della Santa — in quello strepito di canti, di tamburelli e di suoni, in mezzo ai saltimbanchi e ai venditori di cose da mangiare, agli uomini sudati ed ebbri, alle circasse dai capelli biondi e dagli occhi azzurri, alle egiziane ceree, alle sudanesi dalle gengive violette e dalla lingua turchina — è Narouz che sprofonda, per cercare un famoso mago che possa dirgli la verità sulla bambina rapita a Justine (e il mago gliela dice, prima di crollare abbattuto da una spossatezza mortale). Al ballo dei Cervoni, avviluppati nel domino — l’abito che consente di osare l’inosabile — vanno tutti i bei nomi. Lì, mentre l’orchestrina suona il jazz, i domino si avvinghiano o scivolano sui divani o per terra, e i camerieri servono lo champagne — per un tragico errore, viene compiuto un delitto. La vittima è il povero Toto de Brunel, al quale Justine — per garantirsi tre ore di fuga — aveva affidato il suo anello. Ora lei è ricomparsa, imperturbabile, tranquilla. E raggiunge Nessim che l’aspetta nella grande macchina guidata dall’autista. Il ballo è agli sgoccioli. Nel cielo, «una luna azzurrastra si arrampica su per i minareti fra i ciuffi cigolanti delle palme». Al di là delle case, si sente il mare.
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