domenica 28 febbraio 2016

Enigmi, oracoli e sogni nella cultura antica

Il labirinto della parolaSimone Beta: Il labirinto della parola. Enigmi, oracoli e sogni nella cultura antica, Einaudi «Saggi», pp. 347, euro 32,00

Risvolto
Enigmi, vaticini, oracoli, sfingi: l'epica, la tragedia, la commedia, la lirica dell'antichità classica sono ricche di allusioni enigmatiche o di giochi che si fondano sulle difficoltà interpretative imposte al destinatario.
Un uomo cammina lungo una strada scavata nei fianchi di una montagna. Il suo nome è Edipo. Forse ancora non lo sa, ma sta per affrontare un mostro, la Sfinge, che pone a tutti un enigma. Chi non lo risolve, morirà; chi lo risolve, diventerà re di Tebe. Comincia cosí una delle storie piú famose della mitologia antica, la contesa fra Edipo e la Sfinge, destinata a concludersi con la sconfitta - e con la morte - di quest'ultima. L'enigma della Sfinge è molto famoso, ma non è certo l'unico nella storia della cultura antica, perché i Greci e i Romani amavano molto gli enigmi, e non sono pochi i personaggi che hanno a che fare con un quesito da risolvere, a partire dal poeta Omero, che proprio a causa di un enigma non risolto trovò la morte sulle spiagge dell'isola di Ios. In questo libro vengono messi in luce i complessi meccanismi dell'enigma, vera e propria metafora dell'esistenza umana, a partire dai suoi rapporti sotterranei, quasi subliminali, con la vita e la morte. Ma queste misteriose modalità espressive, comuni tanto agli enigmi «seri» quanto agli indovinelli «scherzosi» che venivano proposti durante i banchetti e che potevano assumere le forme piú svariate (compresi i giochi di parole della moderna enigmistica), erano anche tipiche del modo oscuro col quale le divinità comunicavano con gli uomini. I messaggi criptati degli dèi ne riproducevano infatti le medesime strutture linguistiche e logiche: come erano enigmatici gli oracoli che venivano pronunciati nei santuari piú famosi del mondo antico, a cominciare da Delfi, cosí erano enigmatici i sogni, che potevano essere decifrati solo grazie ad alcune tecniche interpretative ben precise che non tutti conoscevano.                    

La Sfinge e le parole che fanno sudare: un libro labirintico 

Simone Beta indaga enigmi, oracoli e sogni nel mondo antico: un libro Einaudi. I sogni terapeutici di Asclepio, Saffo che fa gli indovinelli, Ippia e Deucalione che li risolvono... Per lettori esperti o solo curiosi
Andrea Capra Alias Manifesto 28.2.2016, 1:25 
Il labirinto della parola: questo il libro bello e importante di Simone Beta, dedicato a Enigmi, oracoli e sogni nella cultura antica (Einaudi «Saggi», pp. 347, euro 32,00). Il sottotitolo segnala i tre campi di indagine seguiti dall’autore in un’opera – sia detto senza blasfemia – che appare una e trina. Un punto forte del libro sta proprio nel portare alla luce le intersezioni e le convergenze fra ambiti che noi moderni, di primo acchito, saremmo portati a ritenere nettamente separati, ma che per la mente degli antichi rispondono invece a schemi affini. Sogni e oracoli si presentano in forme enigmatiche e assolvono a funzioni simili in diversi campi: rivelano entrambi ai mortali ansiosi il volere degli dèi, per esempio, e nelle mani di un narratore sapiente, a partire da Erodoto, si prestano in egual misura a diventare formidabili chiavi di volta del racconto.
Il rimando al labirinto è appropriato non solo perché gli enigmi sono progettati per confondere e depistare l’ingegno del solutore, ma anche perché il libro stesso di Beta è a suo modo labirintico, senza una mappa che, in forma di introduzione, spieghi al lettore quali saranno i percorsi e i risultati di una ricerca estesa ad ambiti in apparenza diversissimi: per citarne alcuni alla rinfusa, si passa dagli indovinelli assurdi studiati da Roman Jacobson ai ‘segni’ enigmatici del discorso eracliteo, dalla ‘isopsefia’ (equivalenza fra parole diverse legata al valore numerico attribuito alle lettere greche) ai sogni terapeutici inviati – naturalmente in forma enigmatica – da Asclepio nel santuario di Pergamo. È forte la tentazione di inseguire a piacere, deviando dalla sequenza proposta, gli argomenti in apparenza disparati dei sedici capitoli, ma questo porterebbe in effetti a perdersi nel labirinto senza trovare il tesoro. In un lavoro la cui logica emerge un poco alla volta, il filo di Arianna non può che essere la lettura lineare, da cima a fondo, apertamente caldeggiata del resto dall’autore, che in più occasioni ricorre ad anticipazioni o rimandi retrospettivi.
Beta gioca con il lettore, muovendosi agilmente fra lo stile dimostrativo proprio di un saggio ‘scientifico’ (non manca un utile apparato di note) e forme più accattivanti di affabulazione, come avviene ad esempio quando nel ripercorrere un indovinello antico ne ritarda la soluzione interpellando direttamente il lettore («difficile?» … «Non basta?» «La soluzione dovrebbe essere ormai chiara»). La lettura risulta divertente e istruttiva, e senza dubbio si consiglia sia a un pubblico di classicisti – molti dei testi battuti sono poco noti, oppure ricevono nuova luce dall’analisi dell’autore – sia al lettore curioso, che potrà contare su una scrittura sempre limpida e scorrevole. Semmai si potrebbe obiettare – se proprio si vuol muovere una critica – che serio e faceto non sono distinti e ripartiti in modo immediatamente chiaro: il lettore curioso rischia di perdersi nei molti ambiti spazio-temporali in cui viene condotto e di perdere in prospettiva storica, mentre l’esperto in cerca di novità ‘scientifiche’ può forse provare impazienza nel seguire un percorso divertente sì, ma certo non breve e spesso apertamente digressivo. Si tratta, per fortuna, di inezie, che nulla tolgono ai pregi e alle grazie di un libro pieno di continue e gradite sorprese. Così griphos, termine greco per ‘enigma’, reca anche il significato più concreto di ‘rete’, un elemento che riemerge nello Stico di Plauto, quando il parassita Gelasimo propone iunctiones Graecas sudatorias, cioè intrecci greci che fanno sudare, ardui indovinelli per l’appunto. Ancora: in una commedia del IV secolo a.C., la poetessa Saffo si presenta nella veste inedita di enigmista, quando propone un indovinello che ruota attorno a «un essere femminile che protegge nel grembo i suoi piccoli», i quali a loro volta sono privi di voce ma «lanciano un grido che raggiunge gli uomini in terre lontane», e questi ultimi possono «sentire anche se non sono presenti». L’essere misterioso è l’epistola, e i piccoli sono le singole lettere, a un tempo mute e parlanti.
Molti altri esempi si potrebbero fare, ma quel che preme qui notare sono le implicazioni profonde che si celano dietro una facies lieve e giocosa: il griphos-rete prelude ai nodi della dialettica confutatoria praticata dai sofisti, che non lascia scampo all’avversario e ricorre a tecniche simili oltre che a simili immagini venatorie. A sua volta – ed è questo un punto che nel libro riveste una particolare importanza – l’indovinello di Saffo segnala una tensione fra cultura orale e scritta, in un momento in cui la seconda prendeva il sopravvento sulla prima: molti indovinelli legati alle lettere dell’alfabeto riflettono bene la nuova percezione della composizione poetica come opera scritta, fino al punto che, nella tarda antichità, «gli indovinelli sono diventati un gioco che parte dalla letteratura e rimane confinato al suo interno». Lo studio degli enigmi, insomma, contribuisce fra l’altro a gettare luce nuova su questioni di ampia portata.
Ci si può almeno chiedere se e in che misura gli enigmi antichi, fondati su meccanismi costanti ben lumeggiati dall’autore, siano specifici della cultura greco-romana. Con opportuni rimandi ad Aristotele, Beta mostra bene come rapporti metaforici fra termini lontani sono alla base di molti indovinelli, fra gli altri di quello – attribuito al celebre ‘enigmista’ Cleobulo di Rodi – che allude all’anno solare per mezzo di espressioni come «uno è il padre, i figli dodici» e così via. In proposito, Beta osserva che «questa struttura tutto sommato semplice fa comprendere facilmente come mai indovinelli simili si trovino anche in altre culture distanti nel tempo e nello spazio: c’è chi ha citato alcuni paralleli tedeschi, mentre altri hanno ricordato un indovinello indiano. Ma l’indovinello di Cleobulo non è l’unica attestazione di un simile enigma nel mondo greco». Il saggio procede quindi per analogie che poggiano su strutture apparentemente invarianti nel tempo, e così più avanti leggiamo che «con Petronio abbiamo fatto un salto non solo geografico, dalla Grecia a Roma, ma anche cronologico, passando dal teatro ateniese alla Roma imperiale. Ma anche se torniamo in Grecia, in periodi probabilmente ancora diversi, le cose non cambiano».
Dovremmo allora concludere che lo studio degli enigmi non ci dice nulla di specifico sulla civiltà greca o romana? Certo che no, e lo vedrà bene chi leggerà dalla prima all’ultima pagina: la stessa ricchezza della ricerca dimostra la pervasività, nel mondo greco-romano, dell’enigma, che struttura e permea di sé quasi ogni aspetto del pensiero e del quotidiano. Soprattutto, emergono con evidenza crescente le sovrapposizioni. Il capitolo «Gli oracoli del mito» si sofferma sulla vicenda di Deucalione e Pirra nel racconto ovidiano: l’oracolo della dea Temi li esorta a «gettare dietro le spalle le ossa della grande madre». Di che si tratta? Deucalione intuirà la soluzione: l’oracolo è in effetti un enigma, e le ossa delle grande madre sono pietre, che i due, soli sopravvissuti al diluvio universale, estraggono dalla madre-terra per lanciarsele alle spalle e creare così una nuova generazione di uomini. Molto prima di Ovidio, Erodoto aveva raccontato l’inquietante visione notturna di Ippia, il figlio del tiranno ateniese Pisistrato: prima di tentare il ritorno ad Atene dall’esilio, aveva sognato di unirsi con la madre. Ma Ippia non è un novello Edipo: da esperto interprete di oracoli, intuisce subito che la madre è la terra, la sua terra. Enigmi, oracoli e sogni formano un insieme solidale, e verso la fine del libro la sovrapposizione si fa del tutto esplicita proprio con Erodoto: nelle Storie Beta scopre una «stretta parentela tra sogno e oracoli», naturalmente nel segno dell’enigma. In forme avvincenti e mai banali, il libro assolve così a una promessa formulata fin dal secondo capitolo: «la letteratura cela … nelle sue pieghe enigmi che aspettano ancora di essere risolti».

Tutti pazzi per Delfi il ritorno degli oracoli 
Da Eleusi a Dioniso, da Orfeo alla Sfinge in libreria è boom di saggi che indagano religioni e culti iniziatici dell’antica Grecia. E che parlano soprattutto di noi
SILVIA RONCHEY Repubblica 2 3 2015
Quando san Paolo, nel tredicesimo capitolo della prima lettera ai Corinzi, parla dell’iniziazione ai misteri cristiani, descrive così la condizione umana: «Ora vediamo attraverso lo specchio di un enigma», “per speculum in aenigmate”. «Poi, vedremo faccia a faccia». Lewis Carroll usò l’espressione «attraverso lo specchio» (Through the Looking Glass) come titolo
del secondo volume di Alice nel paese delle meraviglie, che è un trattato sui misteri dell’antichità (quelli eleusini per esempio: pensiamo al neonato che si trasforma in maiale nella cucina della Duchessa), anche se viene considerato un libro “per piccoli”. Come del resto altri libri simili della seconda metà dell’Ottocento, tra cui il Pinocchio di Collodi, a sua volta ispirato da una precedente narrazione dall’apparenza fiabesca, in realtà iniziatica, le Metamorfosi di Apuleio.
Non è un caso. “Piccolo” era nel mondo ellenico il nome in codice del “non iniziato”, di chi attendeva l’iniziazione: «Quando ero piccolo ( parvulus) parlavo da piccolo, conoscevo da piccolo, ragionavo da piccolo. Ma ora che sono adulto ( vir), ciò che era da piccoli l’ho eliminato ». Anche la parola “enigma”, che compare subito dopo, è una parola spia. Era “per enigmi” che la parte più profonda e più mistica, “misterica” appunto, della religione greca veniva comunicata a chi attendeva l’iniziazione.
Per enigmi parlava la Pizia a Delfi. Il santuario di Apollo, attivo almeno fin dall’VIII secolo a.C., come spiega Michael Scott ( Delfi. Il centro del mondo antico, Laterza, pagg. 368, euro 25), era l’omphalos, il cordone ombelicale attraverso cui il profondo viaggio mistico della religione ellenica teneva collegato il solare mondo greco all’oscuro grembo della tradizione misterica ancestrale.
Physis kryptesthai philei, «la natura ama nascondersi», ammoniva Eraclito; e aggiungeva: «L’oracolo non dice né nasconde: dà segni» ( semainei), come riferisce nel De Pythiae oraculis Plutarco.
«Guarda, ritornano, uno per uno, / con passo incerto, solo a metà svegli», scriveva Ezra Pound in quella magnifica poesia intitolata Ritorno. Oggi gli dèi della Grecia ritornano in un corteo di libri sui culti e i misteri del loro antico regno. Oggi, nel revival della storia delle religioni, ritorna l’interesse per il paganesimo mistico e profondo, come nel vecchio Rinascimento, ora anche nel nuovo.
Se il solare Apollo suggeriva la sua conoscenza attraverso un tenebroso intreccio di parole, da districare a costo della stessa vita, anche Gesù nel Vangelo — spiega Maurizio Bettini ( Il grande racconto dei miti classici, Il Mulino, pagg. 503, euro 48) — formula enigmi quando recita le sue parabole. Come quella del seminatore, che i discepoli non comprendono: «Se non capite il significato di questa parabola, come farete a capire tutte le altre?», li rimprovera Gesù. «Il seminatore semina la parola»: solo una piccola parte del seme non muore. Lo sapeva André Gide.
È la risoluzione dell’enigma per eccellenza, quello della Sfinge, creato da un uomo, rivolto a un altro uomo, che ha per soluzione l’uomo — Simone Beta, Il labirinto della parola. Enigmi, oracoli e sogni nella cultura antica (Einaudi, pagg. 347, euro 32) — a gettare Edipo nella condizione esistenziale ancora più fittamente misterica che lo rende il protagonista del mito greco più famoso al giorno d’oggi, l’alias di ciascuno di noi, la maschera primaria del gran teatro del mito su cui si proietta il mistero universale dell’inconscio.
«Conosci te stesso», recitava la scritta sul frontone del tempio di Delfi, e per quante interpretazioni ne siano state date, da Platone all’Oracolo di Matrix, quasi nessuno ha in seguito dubitato che il mistero del mondo giaccia nel profondo dell’io, in sotterranei della coscienza simili all’adyton dov’era conservata, sotto la pavimentazione marmorea del tempio, la sacra pietra che indicava il centro del mondo.
Plutarco, sacerdote delfico, forse il più grande conoscitore della religione ellenica, in un altro dei suoi dialoghi pitici fa discutere gli interlocutori sul significato dell’altrettanto famosa e di Delfi, «offerta sacra al dio» inscritta tra le colonne frontali del tempio. Le interpretazioni dei dialoganti sono ancora più misteriose, forse, della scritta. La più amabile è quella di Nicandro, secondo cui sta per
ei, la particella interrogativa “se”.
Come testimoniato da Petronio e ricordato da Eliot in exergo alla Terra desolata, la Sibilla cumana, alla domanda «Cosa vuoi?», rispondeva: «Voglio morire ». La “morte al mondo”, stato di trance per la sacerdotessa, era anche condizione perché il fedele potesse fruire dell’insegnamento segreto dell’oracolo: «L’anima è nell’ignoranza tranne quando si trova nel processo di morte. Perciò anche il verbo “morire” e il verbo “essere iniziato” si somigliano», recita un frammento di Plutarco sui Grandi Misteri eleusini.
Morte e vita unite insieme in una sola esperienza iniziatica, l’epopteia, in cui l’immortalità coincide con l’espansione della coscienza che muore al principio d’individuazione: è il segreto, o almeno uno dei segreti, dell’iniziazione più impenetrabile del mondo antico, quella di Eleusi, dove la morte non è peraltro solo condizione metaforica di uscita dall’io, ma è anche attuata materialmente nel sacrificio umano che occhieggia dalla sterminata profusione di inquietanti quanto reticenti testimonianze pagane e cristiane (ora integralmente raccolte nell’antologia Eleusis e Orfismo. I Misteri e la tradizione iniziatica greca, a cura di Angelo Tonelli, Feltrinelli, pagg. 639, euro 14) su «quelle peripezie terribili, brividi, tremori, sudore e sbigottimento » che nell’immenso telesterion di Demetra, non lontano dalla Pietra Senzasorriso, il 20 del mese di Boedromione, al termine di un’interminabile processione orgiastica, metteva in scena la discesa agli inferi di Persefone e la sua rinascita nel ciclo primaverile della terra.
L’immagine della Madre e della Figlia, la spiga mietuta dallo ierofante, la melograna rosso sangue, il sacro accoppiamento, le altre “cose indicibili”, la Grande Luce che tutti descrivono lampeggiare “in alternanza” dal sottomondo di tenebra: il dramma sacro eleusino, residuo di riti dell’antica religione femminile — meno quella di Iside, di cui ci parlano Apuleio e Collodi, che quella dell’antica Dea Bianca di Graves — non dava al miste “un insegnamento”, ma, come spiega Aristotele, “un’impronta”, un marchio: «L’iniziato non deve apprendere qualcosa ma raggiungere una certa condizione psichica», disporsi a uno stato di coscienza alternativo, altrimenti irraggiungibile e da allora irreversibile, cui non necessariamente concorreva il kykeon, la bevanda sacra dei misteri, forse dotata di proprietà psicotrope, ma che certamente, come esplicitato anche nelle lamine orfiche, abbatteva la strutturazione dell’io in una promessa di immortalità “felice e beatissima” e tanto più dolce in quanto già attuata nella morte- in-vita.

«Nella religione degli antichi greci si manifesta la facoltà di vedere il mondo nella luce del divino. E le forme nelle quali questo mondo si è manifestato divinamente ai greci non dimostrano forse la loro verità nel fatto che vivono ancora oggi? », scriveva nel 1929 Walter Otto ( Gli dèi della Grecia, ripubblicato da Adelphi, pagg. 343, euro 42). Anche dopo la fine del paganesimo, anche se, come denunciò Plutarco, «il grande Dio Pan è morto», il mito greco è rimasto vivo. Se qualcosa è cambiata, non è stata certo la psiche umana, ma la la sua capacità di collegarsi a quel “tutto” con cui secondo san Clemente di Alessandria i Grandi Misteri di Eleusi avevano a che fare; a quella che i neoplatonici avrebbero chiamato l’anima del mondo: la sua “religione”, da “religo”, legare. Gli dèi dell’antichità sono scomparsi solo in apparenza. Si sono inabissati nel profondo dell’inconscio collettivo, per riaffiorarne continuamente: come sintomi, ha intuito Jung, perché il mito e il sintomo sono la stessa cosa, perché «se vogliamo studiare la sofferenza umana», come ha detto James Hillman, «dobbiamo studiare il mito».

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