domenica 14 febbraio 2016

Giornalisti: Balzac e il mestiere più antico del mondo

Balzac: I giornalisti. Monografia della stampa parigina, Medusa

Risvolto
Scritto tredici anni dopo l'avvento della Monarchia di Luglio (1830), fra richiami all'ordine imposti ai giornali d'opinione e l'affacciarsi di una nuova stampa industriale che si rivolge a un pubblico più largo di quello dei notabili e delle classi borghesi, il pamphlet di Balzac - che vede qui la luce in una edizione che presenta per la prima volta anche due testi satirici di Gerard de Nerval e Marcel Schwob - mantiene intatta la sua vena corrosiva verso quella che oggi, secondo alcuni, dovrebbe essere il "cane da guardia della democrazia". Balzac sentenzia senza mezze parole: "Se la stampa non esistesse, non bisognerebbe inventarla". Caustica affermazione cui segue questo assioma: "Si ucciderà la stampa come si uccide un popolo, donandogli la libertà". Balzac individua due tipi di giornalista: il pubblicista e il critico, e scompone entrambi in varietà e sottogeneri. Lo si potrebbe anche definire un trattatello di sociologia dell'informazione, scritto con una verve satirica che si nutre dei veleni che Balzac si è inoculato accumulando sconfitte nella sua febbrile attività di pubblicista e fondatore di riviste dalla vita breve. Eppure questo pamphlet è una delle cose più durature di Balzac, una sorta di antropologia del complicato intreccio fra politica e quarto potere nella società borghese, dove arrampicatori e corrotti, cinici uomini di Stato e vanitosi tromboni usano la stampa per le loro scalate sociali. Prefazione di Edoardo Castagna.



Balzac grillino ante litteram contro i giornalisti “nientologi” 
In un feroce pamphlet di due secoli fa fustigava vizi e tic oggi ancora diffusi nella stampa e in tv 

Mario Baudino Stampa 14 2 2016
I giornali erano in pieno boom, nuove figure intellettuali dominavano la scena durante la monarchia di Luigi Filippo, ed erano strani personaggi come il «nientologo» o lo scrittore «monobiblico». Così almeno li vide Balzac, che dette alle stampe, correva il 1843, un pamphlet feroce e scintillante, I giornalisti. Monografia della stampa parigina, tradotto da Medusa con saggi di Gérard de Nerval e Marcel Schwob.
A distanza di circa due secoli conserva non poca attualità. E al di là del tono un tantino populista (Balzac spara su tutti con foga grillina) propone una galleria di tipi umani - e professionali - praticamente immortali. C’è il «direttore-caporedattore-proprietario-gerente», severo, noioso, solenne e attento al portafogli, quasi sempre sfortunato ma a volte di grande successo; ci sono i «tenori», rigorosamente pro o antigovernativi, che scrivono gli articoli di apertura (ma allora non li firmavano) con testarda retorica, o per dare sempre contro o per essere sempre a favore dell’amministrazione, talché alla lunga «si vive su un certo numero di frasi».
C’è l’immancabile politico protettore, considerato che «più un uomo politico è una nullità, più è pronto per diventare il Dalai Lama di un giornale». Ci sono, numerosi come formiche, i «camarillisti», giovani e cinici, sempre pronti a consigliare beffardamente e blandire questo e quel politicante. E non manca, tocco patetico, lo sventurato «fabbricatore di articoli di fondo» - che all’epoca erano interventi colti di varia umanità -, l’unico con una competenza vera. A lui vanno le simpatie dello scrittore, anche perché «questo redattore guadagna poco», visto che «nessun foglio è abbastanza ricco per retribuire il talento coscienzioso e gli studi seri».
Il protagonista assoluto non è tuttavia una persona: è il canard, entità quasi metafisica. Mentre i tenori si esibiscono nel do di petto, gli estensori delle note politiche ripetono e si ripetono, i politici pasticciano e il vasto mondo dei giornali celebra il suo teatrino, ecco che arriva periodicamente «la notizia di un fatto straordinario, mostruoso, incredibile e vero, possibile e falso, che serviva da richiamo per le «anitre», nei giornali ha preso il nome di canard, e con ragione, dato che non si fa senza penne e si mette in tutte le salse». La prosa è un po’ ingarbugliata, ma il senso è evidente.
Il canard (la «bufala») è visto come il carburante di tutta l’industria dell’informazione. Arriva da lontano «dai dipartimenti», o nel periodo in cui scrive Balzac soprattutto dalla Russia; come notizia non è controllabile e comunque non viene controllata, scatena gli entusiasmi e infiamma gli animi. Per Balzac non c’è tenore senza canard, non c’è politico, non c’è giornale. Esagerato? Negli anni della Monarchia di Luglio non del tutto, basti pensare che più o meno nello stesso periodo Dumas scriveva Il conte di Montecristo, e l’avventura del romanzo culmina proprio durante il corrotto regno di Luigi Filippo.
Attuale? Lo scrittore, che nel costruire la sua Commedia umana aveva un’idea zoologica della società, con l’ambizione di raccontare in modo scientifico le «specie sociali», qui sembra calcare deliberatamente la mano, passando dalla zoologia allo zoo. Coglie i caratteri più vistosamente emblematici, maschere di una commedia dell’arte, ben prima del Maupassant di Bel ami - o di Henry James, altro critico amarissimo. Balzac è unilaterale e spietato, ma i tic e i vizi anche gravi che mette a fuoco non sono certo scomparsi, nella carta stampata e (soprattutto) nella televisione. Non resta che immaginare le sue possibili reazioni a un talk-show.

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