lunedì 22 febbraio 2016
Here Comes Everybody. Ancora Umberto Eco: l'esorcismo postumo di Vittorio Messori, altri insulti e marchette postume
Impagabile soprattutto il ricordo di Belpietro. Con questa destra becera, la sinistra becera avrà vita lunga [SGA].
(ANSA) - TEL AVIV, 21 FEB - «Una classica figura rinascimentale»: così il romanziere israeliano A.B. Yehoshua ha definito Umberto Eco, all’indomani della sua scomparsa. Poi, citando il filosofo Friedrich Nietzsche, ha aggiunto: «È stato un uomo di `Gaia scienza´».
«La sua erudizione era straboccante, al punto che si trovò costretto a rivolgersi anche alla letteratura» ha detto ancora Yehoshua, citato dal sito Walla. «I suoi romanzi erano originali e sofisticati». «Ricordo in particolare due dialoghi da me avuti con lui all’Università di Bologna, dove insegnava, e alla Fiera del Libro di Gerusalemme. In entrambi abbondo’ di umorismo e di arguzia».
«Sia benedetta la sua memoria» ha concluso Yehoshua.
Povera Italia, senza Eco
Lo scrittore americano: “Ha abbracciato la cultura popolare senza snobbarla, conquistando i lettori di tutto il mondo Per il vostro Paese la sua scomparsa è un disastro culturale”
Paolo Mastrolilli Stampa 22 2 2016
Gay Talese ha costruito la sua carriera sulle provocazioni, perciò gli viene naturale farlo anche in morte di Umberto Eco: «È stato il più alto esponente della cultura popolare in Italia, e fra i più alti al mondo. Lascia un vuoto incolmabile, soprattutto nel vostro Paese, perché dietro di lui non c’è nessuno in grado di continuare il suo lavoro fondamentale».
Talese, inventore con Tom Wolfe del «New Journalism» letterario, aveva incontrato di recente Eco: «Ho tenuto il discorso per la consegna dell’ultimo premio che aveva ricevuto a New York. Parlare con lui era sempre un’esperienza molto stimolante. È stato l’autore italiano più influente negli Stati Uniti, dai tempi di Alberto Moravia».
Non dimentica Italo Calvino?
«No, assolutamente no. Calvino piaceva agli intellettuali raffinati e un po’ snob, alla New York Review of Books, all’Università di Harvard che lo ospitava per tenere conferenze di altissimo livello, ma non vendeva copie. Poco o niente. L’ultimo autore italiano che aveva avuto un vero grande successo di pubblico negli Stati Uniti era stato Moravia: dopo di lui, c’è stato solo Eco».
«Avere successo di pubblico significa avere successo, punto. Vuol dire essere stati capaci di comunicare e di interessare molte persone, che poi dovrebbe essere l’obiettivo di tutti gli scrittori. Se scrivi, lo fai perché pensi di avere qualcosa da dire, ed è importante che ci siano dei lettori interessati ad ascoltarti».
Perché Eco ha avuto questo successo in America?
«Perché ha abbracciato la cultura popolare, alzandone il livello, invece di snobbarla. Questa è stata la sua vera grandezza. Intendiamoci: Eco era intelligente, colto, erudito, un intellettuale molto profondo e raffinato. Però non rifiutava la cultura popolare. Anzi, la faceva sua e la rendeva migliore. Gli altri intellettuali italiani amano scrivere cose complicate, incomprensibili, spesso illeggibili. Più sono difficili da capire, e meglio è. Così non vendono una copia. Lui invece faceva opere di grande qualità in termini di contenuto, ma anche molto belle da leggere».
Questo ha conquistato i lettori americani?
«No, questo ha conquistato i lettori di tutto il mondo. C’è un aspetto fondamentale del lavoro di Eco, che bisogna sottolineare: amava raccontare, a differenza della maggior parte degli altri autori italiani, e anche europei. Questo fa una grossa differenza, quando sei uno scrittore».
Non è troppo severo?
«No, è la verità. Eco apparteneva a una grande tradizione della cultura italiana, che includeva la letteratura e la poesia, ma anche l’arte e il cinema, da Fellini a tutti gli altri straordinari registi della stessa epoca. Erano artisti che potevano anche avere obiettivi e progetti diversi, ma possedevano tutti una grande capacità di raccontare, e quindi di comunicare quello che avevano in testa. Se il pubblico non ti segue, forse dovresti chiederti se sei tu che stai sbagliando qualcosa, invece di lamentarti delle fortune degli altri».
Però lo hanno ignorato per il Nobel.
«Non è l’unico, purtroppo. Ma credo che il valore del suo lavoro si misuri meglio con le dimensioni innegabili del suo successo internazionale».
Perché la sua morte lascia un vuoto incolmabile?
«Il lavoro di Eco era fondamentale non solo per la sua qualità, ma anche per il messaggio che lanciava all’intera comunità intellettuale, sfidandola ad avere il coraggio di misurarsi con la cultura popolare, abbracciare generi diversi, cercare di comunicare con tutti. Il vuoto che lascia è incolmabile perché per svolgere un compito di questo genere servono qualità straordinarie, che non vedo in nessun altro autore dopo di lui. E questo vale soprattutto per l’Italia, dove la sua scomparsa rappresenta davvero una perdita enorme. Direi quasi un disastro culturale».
Perché?
«Cosa rimane, ora? L’Italia è stato il Paese dove ha avuto origine buona parte della cultura occidentale, e fino a mezzo secolo fa aveva ancora delle eccellenze internazionali, di cui Eco faceva parte. Mi riferisco alla letteratura, all’arte, alla grande e varia tradizione del cinema, dal neorealismo a Fellini, passando per tutti gli altri grandi registi che hanno lasciato un segno nell’immaginario del mondo intero. Ora cosa rimane? Avete ancora la moda, e poco altro. Eco non era importante solo per il valore della sua produzione letteraria, ma anche perché rappresentava uno stimolo, una sfida lanciata alla cultura italiana, affinché avesse il coraggio di aprirsi, sperimentare, cercare l’innovazione in tutti i settori. Per questo è una perdita enorme per il vostro Paese. La sua morte rappresenta la fine di un’era, e dietro non c’è molto altro per continuare quella tradizione di successo. L’unica speranza è che la sua scomparsa rappresenti uno stimolo, un elemento di riflessione, per spingere l’Italia rilanciare una vita culturale più intensa e coraggiosa».
A chi ha memoria resterà l’Eco di un cattivo maestro
Lo scrittore si era dichiarato vicino a chi voleva combattere lo Stato «con le armi in pugno»: dimenticare certe frasi è impossibile
22 feb 2016 Libero MAURIZIOBELPIETRO
L’hanno descritto in molti modi. Un maestrod’ironia, lo
studiosodivertente, un genio che sapeva cambiare, un lampo della cultura
contro gli scemi del villaggio, ildemolitore della cultura conformista.
Nessuno che abbia avuto il coraggio di scrivere che UmbertoEcoè stato
ancheuncattivomaestro. Certo, non fu il solo. Negli anni Settanta era in
buona compagnia, inquadrato nella cultura conformista dell’epoca.
Centinaia di intellettuali firmavano appelli contro lo Stato borghese e
contro la repressione, ossia controlapolizia. Edabuonconformista, Eco li
sottoscrisse tutti. A cominciare dal famoso manifesto contro il
commissario LuigiCalabresi, il padre del direttore di Repubblica,
giornale che ieri ha salutato l’autore de Il nome della rosa addirittura
con un supplemento. Un tripudio di luoghi comuni per ricordare quando
scoprì il computer e quando maledì il web, quando diede il nome alla
rosa e quandoscrissequestoequello. Neanche una riga per dire che
quarant'anni fa, quando già in Italia si allungava la scia di sangue del
terrorismo rosso, Eco sostenne una montagna di pericolose stupidaggini.
Sì, l’intellettuale pop, il garante della Costituzione, lo
scrittore che ha lasciato il segno dell’Italia nel mondo
(tuttedefinizioni lette ieri), fuun cattivo maestro, uno che dall'alto
della sua cultura scrisse cose terribili. Fausto Carioti ha già
ricordato sulle pagine di Libero il razzismo intellettuale con cui
accolse ladiscesa incampo di Silvio Berlusconi. Per lui chi votava ilCavaliere erameno di niente, uno scemo del villaggio appunto. Graziealcomplesso disuperiorità di cui si nutriva, trattò milioni di italianicomeunacompagnia dipoveri idioti, pronti solo a godersi le vacanze e i bisognimateriali, incapacidi godere del beneficio dell’intelletto.
Maquestoèniente. Bisogna rileggere le pagine passate per capire come Eco con i suoi scritti influenzò una generazione. Nel 1975, quando le Brigate rosse e iNuclei armatiproletari sparavano e uccidevano, il “lampo della cultura contro gli scemi del villaggi” vergavaparole illuminanti. Sotto il titolo “Il brigadiere rosso”, il semiologo Umberto Eco spiegava dalle pagine dell'Espresso che lostile è come la grafia e un buon expertise può dire se una lettera è autografa oppure no. E ovviamente, essendo lui un esperto, poteva assicurare ai lettoridel settimanaleche i volantinideiNapnon erano scritti da un vero rivoluzionario, ma dovevano per forza essere opera diun brigadiere, di un cancelliere (all’epoca i tribunali erano ancora contro il popolo), di unmilitare o di un americano. Ah già, dimenticavo. Nel1975 lo scrittore che ha lasciato il segno dell’Italianelmondo era visceralmente antiimperialista. Per lui, dietro ogni cosa c’era la Cia e dunque, pur non volendo fare illazioni (sì, scrisse proprio così, dopoaverargomentato perunapagina intera circa l’impossibilità che un comunista fosse l'autoredelle rivendicazioni dei Nap), sospettava che anche dietro i Nuclei armati proletari ci fosse lamano dei servizi segreti e degli apparatimilitari.
Ma il meglio Umberto Eco lo aveva prodotto nell’ottobre del 1971, quando insieme ad altri 49 intellettuali, inviòunalettera alProcuratore della Repubblica presso il tribunale di Torino, il quale aveva denunciato direttori e militanti di Lotta continua per istigazione a delinquere. Se di quelle frasi è rimasta traccia è grazie a Michele Brambilla, che le ripubblicò nel suo libro “l’Eskimo in redazione”, in cui si puòleggere: «Testimoniamopertanto che, quando i cittadini da lei imputati affermano che in questa società “l’esercito è strumento del capitalismo, mezzo di repressione della lotta di classe”, noi lo affermiamo con loro. Quando essi dicono “se è vero che i padroni sono dei ladri, è giusto andare a riprendere quello che hanno rubato”, lodiciamoconloro. Quandoessi gridano “lotta di classe, amiamo le masse”, noi lo gridiamo con loro». Ma è ilpassaggio finaledella lettera a essere stato occultato dalla melassa con cui inquestigiorni siè celebratol’autore de Il nome della rosa, un passaggio che vale la pena di rileggere: «Quando essi si impegnano a “combattere un giorno con le armi in pugno contro lo Stato fino alla liberazione dai padroni e dallo sfruttamento”, ci impegniamo conloro». Naturalmente eraunimpegno sottoscritto con una firma apposta mentre era seduto in un comodo salotto, magari sorseggiando il bicchiere di whiskey di cui Umberto Eco era tantoamante. Ma eraunimpegno preso da un professore universitario di quarant’anni, già collaboratore dei principali quotidiani italiani e autore di severi studi di semiotica e filosofia, uno che la lingua e la penna le sapeva maneggiare con cura e che conosceva il sensodelleparole. Eppure, dall’altodella sua cattedra - senzaunaprova ma semmai conunasentenza contraria - dava copertura a chi pensava che il commissario Luigi Calabresi fosse il torturatore di Pinelli, a chi riteneva che le Brigate rosse fossero sedicenti, a chi affermava che fosse giusto combattere con le armi in pugno lo Stato e i suoi servitori.
Certo, diEco resterannomolti scritti. Ma nessuno potrà mai cancellare quelli più imbarazzanti. Neanche nascondendoli sottounprofluviodi iperboli. È stato un grande scrittore? Non lo so. Secondo FrancoCordelli, critico letterario senzapeli sulla lingua (infatti in questi giorni nessuno lo ha interpellato), no. In un’intervista al nostro Giancarlo Perna lo ha liquidato come un caso patetico. È stato un bravo semiologo? Anche questo non lo so: vista l’expertise sui volantinideiNap direi di no. Una cosa però posso dire senza tema di essere smentito: è stato un cattivo maestro.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento