giovedì 4 febbraio 2016
La Lista di Piero non convince
Intellettuali antiliberisti. Quando l’impegno era una religione laica e essere di sinistra una cosa naturale. Per ricomporre una comunità di pensiero contro la mercificazione c’è bisogno di un’Altraeconomia
Tonino Perna Manifesto 04.02.2016
La proposta di Piero Bevilacqua (il manifesto, 28 gennaio) pone non pochi interrogativi e dubbi, sia sulle modalità di costruzione di una mappa degli intellettuali antiliberisti, sia sul valore stesso della categoria (per esempio si può essere antiliberisti e di estrema destra !). Ma, la proposta nasce da un’analisi che non possiamo non condividere e che ci spinge a ragionare in questa direzione.
Scrive infatti Bevilacqua che «la sconfitta della sinistra in Occidente ha origini in un tracollo culturale e dunque di egemonia, nell’incapacità dei partiti operai e popolari di fornire soluzioni ai problemi del capitalismo nel secondo ‘900». In altre parole: al di là della crisi dei partiti, dei sindacati operai, degli errori commessi, si è registrata una perdita di «egemonia culturale» della sinistra a partire dagli anni ’80 del secolo scorso e oggi dobbiamo chiederci: possiamo ricostruirla e come ? E come corollario: quale ruolo possono e debbono giocare gli intellettuali di sinistra?
Prima di tentare di rispondere a questi interrogativi vorrei provare a storicizzare, da profano, la questione dell’egemonia culturale così come l’ha vissuta la mia generazione, quella del ’68. E’ indubbio che negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso , in Europa, per un intellettuale essere engagé e di sinistra era quasi naturale. Dal cinema alla letteratura, alla musica, alla pittura, la cultura di sinistra che contestava il capitalismo e si richiamava a Marx, nella lettura e visione della società, era prevalente. Per non parlare della scuola, dove un esercito di insegnanti/missionari impartivano lezioni di socialismo e trasmettevano agli studenti, con grande pathos, il bisogno di giustizia sociale, eguaglianza e libertà.
Era una religione laica, con i suoi riti e le sue fedi, che penetrava nelle coscienze e dava un senso ed un orizzonte alla vita di milioni di persone. Ma, a livello di intellettuali, non ho paura a dirlo, era anche una moda culturale. Molti di questi intellettuali, sia del Pci che della cosiddetta sinistra extraparlamentare, sono passati negli anni su altri fronti culturali e politici (ne abbiamo incontrati nel tempo persino in Forza Italia) e soprattutto si sono dedicati al business e al successo personale. E’ indubbio che ha giocato un ruolo importante, su cui non si è mai riflettuto abbastanza, la vergognosa uscita di scena dell’Unione Sovietica e dei paesi dell’est che dal socialismo reale (di Stato o burocratico o come lo si vuole definire) sono passati in pochi anni a una forma estrema di capitalismo selvaggio e criminale. Ma, è altrettanto vero che in Italia questo fenomeno ha una sua peculiarità.
In una ricerca comparativa su «La moda e le scienze sociali» , condotta in Italia e Germania da Ivana Parisi, giovane dottoressa di ricerca dell’Università di Messina, sulle principali riviste di sociologia dal 1970 al 2010, emergeva chiaramente come il fattore “moda” avesse giocato un ruolo rilevante in Italia e molto meno in Germania. Va ricordato che in una società a capitalismo avanzato scienza e cultura entrano a pieno titolo nel circuito delle merci, subiscono le leggi del mercato capitalistico e quindi devono fare i conti con un ciclo vitale delle merci sempre più breve. Più la cultura è mercificata, più una società è priva di anticorpi alla penetrazione del mercato capitalistico, più è preda delle mode. Per esempio, gli articoli su Marx ed il marxismo sono pressoché scomparsi in Italia mentre sono ancora presenti in diverse e prestigiose riviste tedesche, così come nei corsi di laurea in scienze sociali si continuano a studiare i testi di Marx, mentre nel nostro paese sono ormai quasi introvabili. Lo stesso accade per gli studi di sociologia ed economia dell’ambiente che in Italia non sono più tanto di “moda”, mentre continua l’attenzione in Germania e negli altri paesi nord Europei. Insomma, siamo il paese della moda per eccellenza e quindi più “liquido” di altri, in cui sono poche le idee e le visioni del mondo che resistono al ciclo della moda, e forse è anche per questo che non abbiamo in Italia una forza politica di sinistra come Syriza o Podemos.
Al di là dello specifico caso italiano, resta il problema dell’egemonia culturale della sinistra che attraversa tutto il Vecchio Continente. Per la verità , la difficoltà nasce anche dal fatto che «l’essere di sinistra» non è più una categoria chiara e discriminante. Soprattutto, siamo da alcuni decenni di fronte ad un fenomeno inedito che gli storici e sociologi della religione chiamano il “bricolage culturale”. Si può essere al contempo una persona un po’ cristiana, ma anche buddista, e per certi versi anche atea e piuttosto edonista. Ugualmente avviene nel campo della politica come lo definiva Bourdieu. Milioni di persone sono vagamente di sinistra per alcune questioni che le riguardano- come salari, occupazione, ecc.- ma fortemente di destra per quanto concerne la visione del fenomeno migratorio, oppure l’ideologia della famiglia.
Non esiste più da tempo una visione coerente ed ideologicamente strutturata della società come del senso della vita, ma frammenti di ideologia e verità tenuti insieme dal mercato capitalistico che attraverso la mitologia della crescita economica, come fonte di benessere e felicità per tutti, alla fine dice la parola finale.
Pertanto, ritornando alla domanda iniziale: ha senso costruire un fronte culturale antiliberista ? Certamente sì, ma sapendo che si tratta di una condizione necessaria ma assolutamente insufficiente. Intanto mi sembra che rimettere in moto un dialogo tra i saperi, superare l’attuale frammentazione, come propone Piero Bevilacqua, abbia un grande valore se vogliamo che rinasca un pensiero critico che non sia appannaggio solo di una elite. Ma, allo stesso tempo, dobbiamo aver chiaro che non si tratta solo di metterci un po’ di buona volontà. Tutte le strutture di produzione e distribuzione della cultura sono oggi dentro la macchina capitalistica e chi ne è fuori soffre per la sua emarginazione. Anche l’Università, che fino agli anni ’80 del secolo scorso godeva di una rilevante autonomia, è stata progressivamente inglobata nel sistema della concorrenza capitalistica, inquadrando docenti e studenti dentro una ferrea logica di crediti e debiti, di valutazioni quantitative e tagli alla ricerca non finalizzata ai bisogni del mercato.
La questione centrale è diventata quella di conquistarsi uno spazio di libertà di pensiero facendo i conti con il mercato capitalistico, ma senza farsi catturare dal processo di mercificazione e dalla subalternità al padrone di turno. Senza andare troppo lontano è quello che è successo proprio qui sul giornale che state leggendo: una cooperativa che con grandi sacrifici è riuscita a salvare una testata storica della sinistra italiana senza cedere a facili lusinghe e, pur dovendo fare i conti con il mercato editoriale e un sistema creditizio iniquo , ha mantenuto un’ampia autonomia e libertà di pensiero. Così come hanno fatto migliaia di lavoratori, anche in Italia, che hanno recuperato imprese fallite e intrapreso nuove strade come è documentato dal bel volume di Angelo Mastrandrea «Lavoro senza padroni».
Se vogliamo ricostruire un pensiero critico che graffi, morda, incida sulla realtà non possiamo non porci il tema della saldatura tra il pensiero e l’azione, tra le produzioni culturali alternative e la prassi sociale che recupera spazi di democrazia reale. La comunità di pensiero e di ricerca, che propone Ignazio Masulli (il manifesto 29 gennaio) è un obiettivo affascinante, ma impotente se non si coniuga con una prassi che costruisce un’Altreconomia.
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