domenica 28 febbraio 2016

L'invenzione dell'identità italiana: un libro di Fabio Finotti

Per la patria Italia «nemo propheta in patria» 
VOGLIA DI STIVALE 
1 mar 2016  Libero RICCARDOPARADISI 
Se l’Italia è qualcosa di più dell’«espressione geografica» di cui con disprezzo parlava Metternich è tuttavia ancora qualcosa dimeno diuna nazione compiuta. Gli italiani restano i peggiori accusatori di se stessi: nei loro discorsi l’Italia è il paese dei localismi tribali e dei familismi amorali da cui bisognerebbe fuggire. Perandare altrove. E i luoghi comuni hanno sempre un loro perché. 


A sognare un’Italiadiversa, riformata e illuminata dalle virtù civiche e dalla sua tradizione culturale, sono sempre stati infatti glioutsider: da Dante a Giuseppe Mazzini, da Giuseppe Prezzolini dalle università americane a Adriano Olivetti che ideò la sua idea di comunità dalla Svizzera, italiani in esilio. L’Italia come patria in fondo è una loro invenzione letteraria. Fabio Finotti nel suo saggio Italia, l’invenzione della patria ( Bompiani, 576 pagine, 28 euro) racconta i motivi profondi di questa singolare condizione nazionale, ripercorrendo dai suoi albori la storia del nostro immaginario. Finotti muove dall’Odissea diOmeroe dalla vicenda eterna di Ulisse, del suo ritorno a Itaca, la patria perduta, rimpianta e ritrovata. Ma il simbolo più pregnante della condizione italiana è l’Odissea di Enea in fuga da Troia con il padre Anchise e il figlio Ascanio. «La patria per Enea è un qui che deve diventare unaltrove». La nazione latina, embrione di quella italiana, nasce da un approdo fortuito. 
La patria di Enea non è più un luogo noto, condizione attuale per i globalizzati di tutto il mondo, ma qualcosa da rifondare su un sentimento e un ricordo. Una condizione connaturata da sempre agli italiani, stranierinellapatria invasao costretti all’esilio fisico o mentale. «Svincolata dalla realtà fisica la patria si trasforma per loro in spazio interiore e può materializzarsi invariepartidella terra». Basti solopensare, riflette Finotti, a quante Venezie esistono fuori d’Italia. Ma per avere questa cognizione di cos’è una patria in esilio basterebbe anche visitare iquartieridi istrianodalmati disseminati nelle città italiane dopo l’esodo. È come se l’archetipo dello sbarco di Enea sulle coste laziali, fosse destinato a ripetersi sempre. Enea fonda la patria italiana solo dopo essersi rivolto agli dei: la consacra Sopra Prezzolini visto da Guarneri. A sinistra, Dante Alughieri; il libro di Finotti; Adriano Olivetti come dato di cultura più che dinatura. Sarà sempre così. Noi siamo «quei ch’un muro e una fossa serra» diceva Dante, pensando l’Italia unita solo dalla koiné, una linguaeuna cultura comune. 
Federico II che sognava di unificare lapenisola potevaparlare e governare da re in Sicilia matrovònel restod’Italia le stesse strenue resistenze che inflisseroalBarbarossa, suoavo, idolori di Legnano. I successori di Federicononhannosortepoliticamigliore della sua. Nella corte siciliana di Federico avevano però intanto trovato la loro sintesi idialettidella penisola in un nuovo volgare che acquistava dignità di lingua letteraria: l’italiano per come finora l’abbiamoconosciuto. Ascrivere leprime poesie in questa lingua è lo stesso Federico adattandovi i metri trobadorici e provenzali. E con lui sono Percivalle Doria, Pier delle Vigne, Rinaldo d’Aquino, Cielo d’Alcamo, Jacopo da Lentini. Finisce il ciclo svevo, sidissolvono isuoi istituti giuridici, ma la lingua e la poesia forgiata al sole della corte di Sicilia come una fiamma trasportata dal vento si riaccende neicuorienellementidiGuinizzelli, diDante, dei fedeli d’amore. Per seicento anni solo per questa lingua gli italiani saranno uniti. E il Risorgimento il cui esito sarà l’unità politica risospingeavantiquestapatria ideale. La patria diMazzini non nasce dall’unità degli italiani come un effetto della storia ma è l’idea culturale che unifica. Una patria mitica, disincarnata. Immaginazione in atto che ha attraversato ilmedioevo animandol’idea romantica diFoscolo e poidelRisorgimento, persino la retorica del fascismo che cercò di rievocare i fasti dell’impero. La stessa energia in fondo che ha dato forza all’Italianegli anni della ricostruzione e del boom. Lastessa forza insufflatanell’ondata della primamigrazionenegli Stati Uniti, quella degli espatriati di Little Italy, del poliziotto JoePetrosinoedelsindacoFiorello La Guardia. Della patria nessun profeta in patria, giusto per citare i grandi esulipatriotticidella scienza, daFabiolaGianotti a Federico Faggin inventore delmicroprocessore e residente negli States col complesso della patria perduta. Una patria così, aerea e inclusiva potrebbe essere una risorsa, sembra dire Finotti, nella società del nuovomillennio. Apatto che gli italiani abbiano ancoramemoria di se stessi. Altrimenti l’esilio dalla patria si tradurrebbe solo nell’esilio dalla storia.


La Patria è mobile 
Un concetto mutevole nel tempo e nello spazio Come spiega Fabio Finotti in un saggio che attraversa la storia della cultura italiana, da quella alta alla pop 

Mirella Serri Busiarda 14 3 2016
Carissimo, mi trovo «prigioniero in quela Signora bruta Italia» in «barache, già lo sai anche tu, che sono barache di Italiani internati». Chi scrive, con lessico a dir poco zoppicante, è il signor G., un italiano fedele suddito degli Asburgo durante la Prima guerra mondiale: è finito prigioniero di altri italiani da sempre disprezzati e considerati così fastidiosi che «non lasciano in pace nemmeno le mosche». L’ostilità del detenuto si rafforza dal momento che in quella coabitazione coatta con i connazionali finisce con l’avvertire di essere anche lui un «italiano» ovvero di far parte di quella mala genìa con cui non ha mai voluto aver niente da spartire.
Una percezione analoga (ma di segno opposto, dove il sentirsi italiano assume una valenza positiva) la proverà più di 25 anni dopo un altro internato, nel Lager di Auschwitz: «Lo jiddish era di fatto la seconda lingua del campo (sostituita più tardi dall’ungherese). Non solo non la capivo», spiega Primo Levi, «ma sapevo solo vagamente della sua esistenza… Gli ebrei polacchi, russi, ungheresi erano stupiti che noi italiani non lo parlassimo: eravamo degli ebrei sospetti, da non fidarsene». Non c’è dubbio: gli ebrei provenienti dalla Penisola riescono a comunicare molto di più con gli aguzzini nazisti (è il caso di Levi) che con i correligionari non italiani, proprio perché sono profondamente assimilati e radicati in Italia.
In principio c’è Enea
Nonostante dunque i due reclusi, il signor G. e Primo Levi, provengano da culture e abitudini assai diverse da quelle del resto dello Stivale, entrambi hanno dentro di sé la consapevolezza di un’appartenenza comune. Da dove viene questa certezza quasi subliminale, la scoperta di questo spazio interiore circoscritto dalla parola «patria», uno spazio che quasi non si sa di possedere, che stupisce e coglie di sorpresa tanto l’incolto filo-asburgico quanto il dotto futuro scrittore? 
Se lo vogliamo capire, buttiamo a mare le nostre più tradizionali convinzioni: il termine patria non coincide interamente con l’etimo «terra dei padri»: è qualcosa di molto diverso e muta nel tempo e nello spazio. A spiegarci tutte le accezioni di questo singolare e a volte inafferrabile concetto è il bellissimo excursus di Fabio Finotti, che in Italia. L’invenzione della patria (Bompiani, pp. 569, € 28) attraversa tutta la cultura italiana, da quella alta a quella pop, da Dante a Petrarca, da Machiavelli a Manzoni, da Pasolini a Rossellini, dall’iconografia del Vittoriano a quella di miss Italia, da Altiero Spinelli all’avvento dell’era tv.
Docente presso la Pennsylvania University di Philadelphia, dove dirige il Center for Italian Studies, Finotti ci spiega che alle radici dell’immaginario che nutre e definisce la parola «patria» c’è l’avventura di Enea, l’eroe classico che, diversamente da Ulisse, non rientra a casa, non torna a Troia ma porta la casa originaria con sé cercando di ritrovarla e rifondarla altrove. Lo fa proprio approdando sulle coste italiane: la dimora per eccellenza, l’abitazione del cuore e dell’anima per Enea non è dunque un luogo certo, ma è qualcosa che si muove con lui. Scrittori e artisti italiani hanno poi dato forma e concretezza alla nostra mutevole identità, plasmandola e riplasmandola più volte, passando, per esempio, attraverso la nozione di Impero come insieme di diversità propria di Carlo Magno, oppure l’idea romantica di nazione di Foscolo e di Manzoni per arrivare alla «patria viaggiante» delle novecentesche migrazioni cantate da Pascoli. 
Le radici in viaggio
I contadini e gli operai che agli inizi del secolo superavano confini e oceani in cerca di fortuna erano pronti a radicarsi nelle nuove terre alla maniera di Enea, portando la patria con sé. Monumenti, architettura, riti e ricette: i nostri emigranti hanno dato vita a tante Little Italy sparse per il mondo. E proprio per la varietà e la molteplicità delle loro esperienze, paradossalmente, hanno sempre coltivato un forte senso delle radici. 
La storia della Penisola come patria ha così molto da insegnare all’Europa: in Italia, per esempio, gli ebrei, per secoli, non furono costretti a rinunciare alla loro peculiarità etnico-religiosa ma si sentirono - lo ricordava il poeta Umberto Saba - «figli». Oggi questo senso di appartenenza contraddistingue spesso anche coloro che approdano nel nostro paese: come documentano anche libri e testimonianze, l’Italia è percepita come una «casa» accogliente e composita, un’etnia fatta da stirpi diverse, «un tappeto dai mille colori», tutti racchiusi entro un’unica cornice. In un momento come questo, in cui tutta l’Europa è assediata da imponenti flussi migratori, il libro di Finotti si pone come un fondamentale vademecum: ci incoraggia a rimodellare senza drammi il nostro ruolo e lo stesso concetto di accoglienza e di convivenza proprio ricordandoci la nostra identità multicolore, non stabile ma «mobile» e mutevole nei secoli.
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