domenica 21 febbraio 2016

Loriano Macchiavelli in Sicilia








Un eccidio avvolto nel mistero 

Narrativa. «Noi che gridammo al vento» di Loriano Macchiavelli, edito da Einaudi. Un romanzo che, tra realtà e fantasia, riconduce i personaggi alla strage di Portella della Ginestra
Niccolò Nisivoccia Manifesto 12.4.2016, 0:05 
Primo maggio 1947, festa dei lavoratori, Portella della Ginestra (provincia di Palermo). Da quel giorno, Portella è il luogo di una strage: undici morti e ventisette feriti. Ma in realtà le vittime furono anche di più, perché a quelle cadute a terra ne andrebbe aggiunta almeno un’altra, il padre di Cristina La Rocca, la cui storia venne raccontata, molti anni più tardi, da Corrado Stajano.
Cristina aveva nove anni ed era rimasta ferita; suo padre se la caricò sulle spalle e fece sedici chilometri a piedi per portarla all’ospedale; la bambina si salvò, il padre morì – «per la fatica, lo strazio, il crepacuore» – un mese dopo. La giustizia ordinaria avrebbe poi attribuito la responsabilità della strage a Salvatore Giuliano (che nel frattempo era morto a sua volta, ma questa è un’altra storia) e alla sua banda, che aveva fatto irruzione nella festa, sparando colpi di mitra e di fucili mitragliatori. 
Ma nel corpo di Cristina, dietro il cuore, era ancora presente una scheggia di granata, che nulla aveva a che fare con le pallottole di quei fucili: erano state dunque lanciate delle bombe, prima che venissero sparati i colpi? Giuliano aveva agito da solo e per sua iniziativa? E perché? Oppure, più o meno consapevolmente, agiva per conto di altri? E di chi? Del resto il luogotenente di Giuliano, Gaspare Pisciotta, aveva parlato nel corso del processo di mandanti democristiani e monarchici; ed è un fatto che, dopo l’eccidio di Portella, il Blocco del Popolo che aveva appena vinto le elezioni regionali si fosse sfaldato e i comunisti fossero stati esclusi dal governo locale.
A distanza di quasi settant’anni, Portella della Ginestra rimane un mistero oltre che un eccidio, nonostante le indagini parlamentari e le commissioni d’inchiesta che nel tempo si sono succedute. Forse il primo enigma della storia dell’Italia del dopoguerra, simile a molti altri: un intreccio tra mafia, Stato e politica. Qualcuno ha detto: quasi una prova generale della strategia della tensione, una specie di esperimento. E lo dice e lo fa capire adesso anche Loriano Macchiavelli, che su questo mistero ha costruito un romanzo appena pubblicato da Einaudi, Noi che gridammo al vento (pp. 372, euro 19,50).
Macchiavelli racconta la storia immaginaria di Stella, detta Nina, che nel 1980 torna in Sicilia dopo essersene andata bambina, a sei anni. Viveva a Piana degli Albanesi, a pochi chilometri da Portella, e qui ritorna. Ora ha trentanove anni e vive a Basilea, dove non è chiaro che lavoro svolga; né è chiaro cosa debba fare a Piana. Della sua infanzia siciliana le rimangono solo incubi notturni, che non sa spiegarsi. A Piana, Nina incontra Eva, Ditria e Vito: persone che conosceva già ma solo poco alla volta comincerà a ricordarsene. 
Anche loro sono avvolti in un’ombra di mistero, come tutto il racconto e come i personaggi che, come in un dramma teatrale, uno per uno entrano in scena: George ’u miricanu, Antonino Bontà, Zombi, Stefano Degiorgi, Dalla Vita, Francesca detta Ceschina, e tanti altri. È un romanzo, Noi che gridammo al vento, ma potrebbe non esserlo, e non solo perché l’eccidio del primo maggio 1947 ne costituisce lo sfondo costante ma anche perché ciascun personaggio rappresenta, in carne e ossa, ciascuno dei nodi dai quali l’intreccio di Portella è o potrebbe essere formato: la mafia, italiana e americana, lo Stato con un suo ministro e con le correnti di partito che a tale ministro fanno capo, i servizi segreti, deviati o non deviati («tutti i servizi segreti sono deviati», afferma Nina verso la fine, «e lo sono per definizione. Tutto ciò che è segreto è deviato e deviante»), le vittime. Due personaggi estranei agli eventi, Omero e il Professore, fanno invece da tramite fra realtà e fantasia.
Poco a poco il mistero si fa meno fitto, all’interno del racconto, e capiamo che gli incubi di Nina arrivano proprio da Portella, da quel primo maggio del 1947 in cui ogni cosa, in questa storia (e, da un certo punto di vista, nella storia dell’Italia repubblicana), ha avuto inizio. Gli incubi notturni spariranno e, giunto il momento di ripartire, Nina non li avrà più, starà dormendo sonni tranquilli. Anche Ceschina, sempre dura nei confronti di tutto e di tutti, si sarà finalmente sciolta; e ci sarà spazio perfino per l’amore e la dolcezza. 
Ma il lieto fine è solo apparente e provvisorio, ed era forse inevitabile che fosse così: i misteri personali di ciascun protagonista del romanzo, appartenenti ai loro destini individuali, si sono ormai quasi del tutto chiariti, ma permane quello di Portella, nel quale i primi sono inscritti. Nel destino di Nina è addirittura inscritto un mistero ulteriore, che già l’attende: quello della strage del 2 agosto a Bologna. Qui si chiude Noi che gridammo al vento, che è un libro bello e necessario. È un romanzo che mancava, il primo su Portella della Ginestra. «Ascolta anche tu», dice Omero a un certo punto rivolgendosi idealmente al lettore, «e porta in giro la memoria. Che diventi ricordo, attività creativa e perciò sempre attuale e in movimento».

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