venerdì 5 febbraio 2016
Plasmare la psiche per la produzione postmoderna: Benasayag
Risvolto
Miguel Benasayag riprende la celebre diagnosi formulata dodici anni fa con L’epoca delle passioni tristi.
La approfondisce, la radicalizza, ma ne fa anche un osservatorio da cui
guardare al futuro con forza e speranze inedite. Benasayag descrive un
paesaggio sociale devastato dal neoliberismo, dominato
dall’individualismo sfrenato, dal mito della prestazione illimitata,
dalla competizione senza quartiere. Tutto questo, ci spiega, si traduce
in un profondo dolore individuale e in una radicale impotenza
collettiva. Siamo vittime di questo malessere, e allo stesso tempo non
ce ne rendiamo conto. Un intero mondo costruisce sistematicamente la
nostra solitudine, e noi scambiamo questa violenta espropriazione per
una perenne inadeguatezza individuale. Di fronte a questo panorama, da
un lato Benasayag denuncia la collusione di tutti quei saperi che
dovrebbero aiutarci ad affrontare questo oceano di sofferenza
individuale e collettiva. Denuncia per esempio la psicologia
cognitivista, che rinuncia a interrogare il senso del nostro dolore per
promuovere il semplice riadattamento all’economia della prestazione. Ma
denuncia anche la psicoanalisi più blasonata, che riconduce la
sofferenza umana a una matrice soggettiva e abbandona così il terreno
della critica sociale e della proposta politica. Dall’altro lato,
Benasayag ci insegna a leggere in filigrana questo scenario di
distruzione per valorizzarne le potenzialità inespresse. E, soprattutto,
per mostrarci che quelle potenzialità sono alla portata di chiunque di
noi. Se le catene del neoliberismo inchiodano ciascuno al proprio posto,
Benasayag ci spiega come trasformare quelle catene in legami
interpersonali. Se l’individualismo ci divide, Benasayag ci spiega come
fare di quella separazione ciò che ci rende prossimi e necessari gli uni
agli altri. I vecchi rapporti di potere diventano così il terreno di
una nuova comunità di esperienze. E l’epoca delle passioni tristi si
rivela come il tempo della creazione condivisa.
“La postmodernità chiama intelligenza la capacità di disintegrarsi
quanto basta per potersi conformare all’esoscheletro di un’impresa.
Risulta intelligente chi è capace di giocare a nascondino con se stesso
fino al punto di perdersi.”
Miguel Benasayag e il cervello colonizzato dal silicio
Intervista. Parla il filosofo e psicoanalista argentino, ospite a «Next», il salone europeo della ricerca
Riccardo Mazzeo Manifesto 24.9.2016, 0:06
La psicoanalisi deve rinunciare alle sue pretese di scientificità se vuol cogliere le tendenze profonde nella realtà sociale e quanto esse si riflettano sulla dimensione individuale. Miguel Benasayag sostiene questo cambiamento di prospettiva da molti anni. Non nega cioè che la psicoanalisi possa aiutare uomini e donne in forte sofferenza psichica. Più realisticamente, invita a mettere in relazione una tecnica di intervento psicoanalitico a quanto si muove nella società. Usa un lessico mutuato dalla filosofia francese – l’«essere in situazione» di Jean-Paul Sartre, ma anche il Michel Foucault di Storia della follia – da molti anni. È questo il filo rosso che unisce saggi molti diversi tra loro, da L’epoca delle passioni tristi a Oltre le passioni tristi a La salute a ogni costo (i primi libri due pubblicati da Feltrinelli, il terzo da Vita e Pensiero).
È un punto di vista maturato all’interno del suo lavoro di «operatore sociale e psicoanalitico» che svolge in Francia seguendo giovani «a rischio», «ammalati di lavoro», «depressi sociali», ma che assume un «sapore» diverso se applicato al ruolo delle tecnologie digitali nella percezione della realtà, come testimonia il dialogo su Il cervello aumentato, l’uomo diminuito (Erickson). Nel confronto vis-à-vis con la rete, Benasayag sostiene che l’uso immersivo del computer sta amplificando alcune funzioni cognitive del cervello, a scapito tuttavia di quella caratteristica specifica dell’animale umano che è la socialità e la «naturale» attitudine a costruire relazioni con i suoi simili attraverso il linguaggio. Sono questi i temi del suo intervento all’iniziativa «Next. Umano post-umano» in corso a Trieste da ieri (Miguel Bensayag parlerà oggi). L’intervista è avvenuta prima dell’inizio della manifestazione triestina.
Nella prefazione al libro «Il cervello aumentato, l’uomo diminuito», si legge: «Forse la nostra capacità di accettare i limiti umani si è andata a nascondere in una piega della Storia e riaffiorerà in un momento più propizio, forse bisogna solo aspettare che il pendolo temerariamente sospinto in una corsa folle verso l’attuale estremo di egocentrismo assetato di trasparenza e di immortalità, giunto al suo approdo, rioscillerà tornando a una dimensione che abbandoni il farnetico del trans e del post (transumanismo, postumanismo…) per rientrare nell’alveo dell’umano».
Siamo uomini e le donne della crisi, della fine di un mondo, ma dipende da noi fare in modo che ciò non accada. Il mondo che finisce, quello che Foucault chiamava l’epoca dell’uomo, è stato segnato dall’esilio dell’uomo dal mondo e dal suo ecosistema. Si è costruita questa finzione in cui noi eravamo il soggetto di un luogo disincantato che costituiva il nostro oggetto. Era stata dichiarata guerra alla natura, e si doveva vincerla. Ogni costrizione sarebbe dovuta sparire con la promessa che l’uomo, divenuto il proprio profeta e il proprio messia, aveva fatto a se stesso.
La «guerra», come in fondo ciascuna guerra, non ha avuto che vinti, e siamo qui per dire che forse è il momento di finirla con l’esilio, che è il momento di ritornare a essere vivi fra i vivi, come scriveva Prigogine, che è tempo di creare una «nuova alleanza». L’umanesimo, che sembra così bello visto dall’Occidente, è stato il nome del colonialismo. Bartolomeo de Las Casas spiegava che anche gli indiani erano umani, di un’umanità però ancora non realizzata. Realizzare l’umanità è stato il compito del colonialismo, dell’addestramento delle vite dal razzismo fino all’epoca del capitalismo.
La crisi di quel mondo ci lascia la constatazione dura e amara del fatto che ogni guerra contro la natura è né più né meno che un suicidio. In quel momento si sarebbe creduto, un po’ ingenuamente, che la piccola umanità si fermasse un momento per riflettere, per valutare, per fare amicizia con il suo mondo della vita, vivi tra vivi. Contrariamente a quanto credeva Platone, l’uomo è un essere che affonda le sue radici nella terra, fra le altre creature a loro volta territorializzate.
E invece no: nel momento della crisi del modello della dominazione, le cose sono andate diversamente, alla crisi dell’impotenza e alla minaccia ha fatto eco un incontro davvero catastrofico, alla nostra umanità che affondava nella disperazione è giunta una nuova promessa, una nuova tentazione di vincere la natura, di schiacciare qualunque costrizione. Come la colomba di cui parlava Kant, la quale credeva di poter volare molto meglio se avesse eliminato la resistenza dell’aria.
Nell’«Epoca delle passioni tristi» ha reso evidente il fatto che il dilagare di malattie psichiche non riguardi tanto le singole persone quanto piuttosto la società per la deriva in cui è incorsa. Una posizione vicina a quella espressa di Zygmunt Bauman ne «Retrotopia», un volume in uscita Polity Retrotopia. Che cosa suggerisce come via, magari molteplice, d’uscita da questo cul de sac?
I nostri contemporanei sono lanciati in questa nuova avventura di eliminazione di qualunque limite, di qualunque costrizione, di qualunque regolazione organica, e credono che senza regolazioni, senza limiti, la libertà totale ci sia, più che promessa, dovuta.
Ma nella loro fascinazione e nella loro stupidità i nostri contemporanei ignorano appunto la differenza che faceva Kant fra limiti e confini: se i confini possono essere aboliti, i limiti, che possono cambiare, sono la condizione stessa della vita; senza limiti non c’è vita.
Viaggio intorno a una clinica pratica e «situazionale»
Se tutto è possibile, se il mondo post-organico su cui delirano ricercatori e banchieri è possibile, lo sarà sotto il segno della morte e della tristezza. SCAFFALI. «Oltre le passioni tristi» del filosofo e psicoanalista Miguel Benasayag edito da feltrinelli
Niccolò Nisivoccia Manifesto 5.2.2016, 0:03
In un certo senso, il nuovo libro del filosofo e psicoanalista argentino, ma da anni residente in Francia, Miguel Benasayag – Oltre le passioni tristi, appena pubblicato da Feltrinelli (pp. 155, euro 18) – inizia dove finiva, dello stesso Benasayag insieme a Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi (pubblicato sempre da Feltrinelli nel 2004); e non soltanto per l’evocazione contenuta nel titolo (peraltro assente nel titolo originale, Clinique du mal-être). Ne costituisce una prosecuzione, un approfondimento, a partire dal medesimo paesaggio psicosociale di riferimento: vivevamo allora e continuiamo a vivere oggi, secondo Benasayag, in un’epoca nella quale uomini e donne, e soprattutto i giovani, sembrano essere divenuti incapaci di affrontare la complessità del mondo, di accettarne le implicazioni e le conseguenze, e le crisi sociali ed economiche esplose negli ultimi anni hanno perfino aggravato, ed è comprensibile, i disagi e le sofferenze. La vita fa sempre più paura, il futuro è sempre più una minaccia anziché una promessa; e questa paura, questa incombenza hanno generato sempre più solitudine.
Dal suo osservatorio di clinico pratico oltre che teorico, Benasayag vede dunque persone sempre più isolate non solo dagli altri ma anche da sé stesse, e sempre più votate a coltivare ideali individualistici e materialistici, come se solo questo potesse offrire rimedio o almeno conforto: «nella crisi attuale, che è crisi dei fondamenti della cultura – scriveva già dieci anni fa Benasayag – l’homo oeconomicus supplisce alla mancanza di senso con l’economia, che diventa per lui il senso della vita e per la vita». L’epoca delle passioni tristi individuava una soluzione possibile – vale a dire una possibile direzione di cura, dal punto di vista della psicoterapia, ma anche una possibile forma di resistenza personale, rimessa a ciascuno – nell’immaginazione di orizzonti diversi, nei quali all’utilitarismo si sostituisse la gratuità dell’essere e del fare: dovremmo imparare, suggeriva Benasayag, a seguire il nostro destino quale che sia, non nel senso di accettarlo come fatalità bensì nel senso di impegnarci a diventare ciò che siamo davvero. E la ricostruzione dei legami con noi stessi, concludeva L’epoca delle passioni tristi, è l’unica possibile strada verso la creazione di nuovi legami con gli altri e con l’esterno.
Esattamente da qui ricomincia Oltre le passioni tristi: dalla constatazione che, dieci anni dopo, siamo invece ancora più rinchiusi dentro le nostre individualità, al punto che le nuove sofferenze psichiche sono diventate ormai ontologiche a tutti gli effetti. Distrutta ogni interiorità, venuto meno ogni legame con le parti più profonde di noi stessi e con il mondo che abitiamo, oggi non sappiamo quasi più chi siamo e cosa vogliamo, e nulla più ci tocca e ci riguarda. L’epoca postmoderna (attraverso i suoi mille dispositivi, fra i quali in primo luogo i social network e l’uso distorto della rete) ha ridotto gli individui, infine, a puri «profili», «processori d’informazione», «falsi sé»: ciascuno è, o cerca di essere, ciò che deve secondo il senso comune e dominante, e niente di più. Ci illudiamo di diventare ciò che siamo, ma che sia solo un’illusione lo dimostrano proprio le sofferenze di cui lo stesso Benasayag è testimone come psicoanalista e di cui ci offre molti esempi: storie di persone giovani o adulte etichettate come «brillanti – secondo certi parametri di successo», secondo la «cultura della performance», ma nella realtà incapaci, perché impreparate, a gestire le proprie fragilità e debolezze. «La postmodernità – scrive Benasayag – chiama intelligenza la capacità di disintegrarsi quanto basta per potersi conformare all’esoscheletro di un’impresa», indipendentemente dal fatto di provare «affinità o interesse» verso quello che l’impresa produce; ma la vita non si esaurisce mai nella conformazione a modelli imposti dall’esterno, e ciò che trabocca si trasforma appunto in sofferenza.
Fondato su queste basi, Oltre le passioni tristi rappresenta un atto d’accusa ferocissimo contro le terapie psichiche più in voga, del tutto inadeguate – secondo Benasayag – ad affrontare le nuove sofferenze. Benasayag imputa in particolare alla psicoanalisi di aver addirittura tradito se stessa, perché il suo compito sarebbe stato quello di contrastare, e non di assecondare, l’ideologia dominante, di cui invece sarebbe divenuta complice nella misura in cui dimostra a sua volta di «credere che esista solo l’individuo, che conti solo la vita personale, nello stesso momento in cui tale individuo esiste sempre meno come persona dotata di un’interiorità e sempre più come un insieme di moduli senza unità». Ma sarebbe tutto il «campo psi», più in generale, ad aver abdicato a qualunque funzione oppositiva, accontentandosi di ridursi a «uno degli spazi più evidenti di sperimentazione per questo genere di diagnosi, di trattamenti e di terapie che funzionano grazie all’allestimento di griglie normalizzate».
A tale dogmatismo Benasayag contrappone una terapia che definisce «situazionale», dichiarandone apertamente la derivazione dalla psichiatria fenomenologica (i cui più illustri esponenti sono stati, nel passato, Binswanger e Minkowski, e cui oggi appartiene fra gli altri Eugenio Borgna). Si tratta, dice Benasayag, di far uscire l’individuo dal suo «io» e di ricollocarlo nel posto che gli spetta, e cioè nel mondo – nella «situazione» – che abita; ma a questo fine è necessario, prima di tutto, accogliere le persone, ascoltarle, essere disposti a riconoscerne l’unicità e l’irripetibilità. Per la terapia situazionale non esistono diagnosi o cure uguali per tutti, pur a fronte di dati catalogabili in astratto nello stesso modo, perché il giusto per l’uno potrebbe non esserlo per l’altro; e non esiste differenza fra realtà psichica interna ed esterna, perché siamo quel che siamo in virtù di tutto ciò che è dentro e fuori di noi. Per questo non esiste mai neppure una «fobia» o un «ricordo doloroso» da cancellare, perché si tratta piuttosto di «inscriverli in una molteplicità che favorisca la potenza».
Oltre le passioni tristi è un grande libro, come lo era L’epoca delle passioni tristi, e chiunque, non solo chi operi nel «campo psi», dovrebbe leggerlo: Benasayag parla a tutti, e a tutti rivolge un invito – che similmente, in un bellissimo saggio di tre anni fa, Oltre la paura, Adolfo Ceretti e Roberto Cornelli avevano declinato, a livello politico, in termini di «fraternità» – ad aver maggior cura gli uni degli altri. Sarebbe questa la vera rivoluzione.
Le dolenti miserie dell’uomo modulare
PERCORSI. La tecnoscienza ha ridotto gli umani a un ammasso di dati. Hanno cioè funzionato come un laboratorio ideologico dove poter dare forma al sogno neoliberale dell’«individuo proprietario». Un percorso di lettura
Benedetto Vecchi Manifesto 5.2.2016, 0:02
Miguel Benasayag è una figura intellettuale atipica per il panorama intellettuale, anche se i suoi scritti hanno conosciuto un’attenta e partecipata ricezione. Militante argentino, finito nella morsa dei militari dopo il golpe del 1976 è riuscito per un soffio a non entrare, da morto, nella lunga lista dei desaparecidos. Filosofo di formazione, psicoanalista per passione ha scelto la strada dell’esilio in Francia, dove ha iniziato una professione nei servizi sociali di assistenza psichiatrica, dove ha visto scorrere sotto i suoi occhi uomini e donne variamente sofferenti.
Da questa esperienza ha tratto materiali che hanno costituito i pilastri dei suoi libri variamente dedicati a criticare quel processo politico e sociale teso a produrre «l’uomo nuovo» del capitalismo liberista trionfante. Dal Mito dell’individuo a Elogio del conflitto, Miguel Benasayag ha tentato di definire una storia di un presente che vedeva triturate nella macchina dell’individuo proprietario le forme di vita, politiche e sociali della modernità capitalista. Un lavoro quasi archivistico condotto attraverso la filosofia di Jean-Paul Sartre, Gilles Deleuze e Baruch Spinoza, dal quale ha mutuato anche il titolo del saggio L’epoca delle passioni tristi.
Organi assemblati
Ma nella storia in tempo reale della quale i suoi libri volevano tessere la trama, Benasayag ha intuito che l’«uomo nuovo» del neoliberismo era un soggetto sofferente, fragile, pronto a rompersi in mille pezzi al minimo urto con la realtà. E questo proprio quando una nutrita schiera di neuropsichiatri, biologi, fisici dichiaravano ai quattro venti che i computer erano riusciti a potenziare le facoltà cognitive degli umani e a riuscire nel realizzare il sogno, o l’incubo, di un cervello senza organi o corpo di intralcio.
È questo il filo rosso che unisce i due volumi pubblicati a pochi giorni l’uno dall’altro. Si tratta di Il cervello aumentato l’uomo diminuito (Erickson, pp. 200, euro 16,50) e Oltre le passioni tristi (Feltrinelli, pp. 151, euro 18. Ne scrive in queste pagine Niccolò Nisivoccia). La messa in evidenzia di come la quotidiana sofferenza sia l’altra faccia di una «artificializzazione del vivente» veicolata dalle macchine informatiche non sfocia mai in una deriva tecnofoba o nostalgica per un passato incontaminato dalla tecniche. Più realisticamente, le macchine digitali sono considerate come modello e riflesso di una concezione modulare delle soggettività. Detto più prosaicamente, l’animale umano viene smontato e rappresentato come un assemblaggio di organi che possono essere rimossi e sostituiti. L’unico organo esente da questa opera di assemblaggio è il cervello: le macchine, tuttavia, possono funzionare come dispositivi che potenziano le facoltà intellettuali.
Maggie Taylor – Garden
L’«uomo postmoderno» – espressione che torna frequentemente in entrambi i libri – certifica così la «verità» del dualismo tra mente e corpo, dove il primo termine sovrasta e rende potenzialmente marginale, se non inutile il secondo. Poco importa se altri neuroscienziati hanno considerato tale dualismo un limite nella comprensione di come funzioni questo insieme di corpo e cervello.
L’uomo è così un organismo diminuito, tuttavia, non solo perché il cervello, e la sua appendice tecnologica artificiale, hanno il sopravvento, ma anche perché la soggettività, il suo stare al mondo sono ridotti a un insieme di dati che compongono un profilo, cioè una enumerazione di «caratteristiche» che possono essere modificate a piacimento.
L’irruzione dell’aleatorio
Benasayag con pazienza ricostruisce la genealogia di questa concezione dell’umano, mettendone in evidenza il presunto strato empirico – la centralità della comunicazione mediata dai computer nelle società capitalistiche – al fine di evidenziare l’egemonia di una scuola delle neuroscienze, definita riduzionista, dove il cervello è rappresentato come una rete neurale che scandisce sentimenti, riflessioni, passioni, conoscenza logica-formale. E di come quella stessa «scuola» cancelli definitivamente il fatto che il singolo sia immerso in una rete, più o meno fitta, di relazioni sociali che plasticamente ne costituiscono l’habitat senza il quale non può esserci nessun animale umano, ma solo un organo destinato a perire. È questo habitat a costituire l’«aleatorio» che irrompe nella vita della mente e che viene restituito, assunto e modificato, alla rete di relazioni sociali.
Anche in questo caso l’analisi affronta le ricerche sulla «neuroplasticità», ricordando la teoria dei «compossibili» di Leibiniz; ma nella sua storia dell’«uomo modulare» entrano in campo le tesi neoliberali sulla governabilità algoritmica come fuoriuscita da una modernità che non sa gestire la complessità della realtà sociale, la trasposizione del pensiero logico-formale all’interno di una dimensione geografica-topografica dove ogni parte del cervello svolge una funzione che le macchine possono sostituire perché più efficienti.
L’«uomo modulare» è dunque pronto ad entrare in scena. È cioè una monade che entra in relazioni con altre monadi – ancora un riferimento a Leibiniz – attraverso la messa in campo di quelle caratteristiche che compongono il suo profilo. Gli echi delle contemporanee teorie neoliberali dell’individuo proprietario sono evidenti. Soltanto che tale uomo o donna soffre. È interessante il fatto che Benasayag definisca, nel suo Oltre le passioni tristi, la crisi della piscoanalisi non come crisi di una disciplina che ha tradito la sua «missione», bensì come manifestazione di una inadeguatezza nel rispondere alla richiesta di «aggiustare» un modulo che non fornisce l’adeguata performance rispetto un mondo che chiede di adeguarsi agli imperativi di efficienza.
Nel regno dei possibili
L’uomo e la donna postmoderni devono quindi aderire pienamente agli imperativi della governabilità algoritmica, sia che si tratti del lavoro in una impresa che di relazioni affettive. Ma questa adesione produce contrasti, conflitti, che vengono violentemente relegati nella sfera dell’interiorità. E se questo non si traduce, ancora, in una messa in discussione dell’ordine neoliberale, produce «patologie psichiche» vecchie e nuove che la pratica «psi» non sempre è capace di fronteggiare.
Ma se l’insorgenza di tali patologie sembra inarrestabile, come sviluppare pratiche di resistenza che consentano la fuorisucita dall’epoca della passioni tristi è una matassa difficile da sbrogliare. Benasayag indica il primo passaggio – riconoscere di essere un animale sociale e di incamminarsi sul sentiero dei possibili. Per gli altri, occorre però abbandonare la cucina del terapeuta e avventurarsi in un mondo dove si può agire il conflitto affinché i «possibili» non siano preclusi. E così dare nuove forme al Politico.
Istruzioni per non crogiolarsi nella dolce certezza del peggio
Psicoanalisi. "Oltre le passioni tristi": una sfida alle forme della sofferenza mentale, non più centrate sul conflitto e sulla colpa
Francesca Borrelli Alias Manifesto 13.3.2016, 6:00
Una diagnosi dello stato attuale della crisi cui è approdata la nostra civiltà aveva portato lo psicoanalista argentino Miguel Benasayag a titolare L’epoca della passioni tristi il suo libro scritto nel 2003 insieme a Gérard Schmit, dove la locuzione presa a prestito da Spinoza rimandava ai sempre più diffusi stati d’animo dominati «dall’impotenza e dalla disgregazione». In quel contesto Benasayag prendeva atto della ormai evidente «rottura dello storicismo teleologico», ossia del tramonto di quella credenza in un futuro migliore che aveva orientato le società affacciate sulla modernità, causando un capovolgimento di prospettiva tale per cui all’orizzonte si profilerebbero, ormai, solo minacce.
Di fronte a questi cambiamenti, che lo psicoanalista argentino non esita a definire «antropologici» benché non riguardino affatto i requisiti trascendentali della natura umana, e che dipendono in larga misura dalla nostra ibridazione con la tecnologia, anche la sofferenza psichica ha da tempo mutato le sue forme espressive.
Nel nuovo saggio sulla «clinica del malessere», che Feltrinelli pubblica con il titolo Oltre le passioni tristi Dalla solitudine contemporanea alla creazione condivisa (con la collaborazione di Angélique del Rey, pp. 155, euro 18,00) Benasayag aggiorna i conti con la psicoanalisi, a volte mettendone a fuoco le indiscutibili inadeguatezze, altre volte caricaturalizzandole, e più spesso riconoscendo alle teorie freudiane il loro insuperato contributo conoscitivo al dolore mentale.
Ciò che oggi spesso si nasconde dietro gli attacchi alla psicoanalisi non è tanto motivato, in realtà, dalle sue lacune – scrive Benasayag – quanto dalle sue virtù: a venire in special modo rifiutata è, infatti, la «dimensione tragica» della cura analitica, quel contatto del singolo con il mondo in cui risuona l’eco hegeliana di una teoria della storia secondo la quale gli individui, pur dedicandosi alle loro attività e perseguendo fini egoistici servono, sebbene inconsciamente, un comune disegno di emancipazione.
I contemporanei, invece, sembra non siano riguardati se non da ciò che li tocca direttamente, tanto che – scrive Benasayag – «il loro universo si ferma ai limiti del loro corpo». A fronte di questi cambiamenti, la psicoanalisi sembrerebbe «avere fallito la sua partecipazione all’impresa di decostruzione» dei fondamenti epistemologici avviata intorno agli inizi del ’900: dopo avere visto progressivamente opacizzarsi l’orizzonte rivoluzionario delle loro teorie, gli eredi di Freud hanno mancato l’appuntamento con la biologia e più recentemente con la neurofisiologia, permettendo il successo delle terapie cognitivo-comportamentali, verso le quali Benasayag ha giudizi condivisibilmente severi, e definitivi.
In gioco, infatti, c’è la negazione del senso che si nasconde dietro i sintomi, il senso che è prerogativa dell’animale umano in quanto dotato di linguaggio, e che stando al riduzionismo biologico cui si rifanno le teorie cognitivistiche, sarebbe trascurabile a favore di una concezione dell’uomo come congegno performante, nonché ben adattabile alle richieste sociali del nostro tempo: un aggregato il cui eventuale malfunzionamento va riparato ricorrendo a terapie «modulari». Discende da questa visione della mente anche la progressiva medicalizzazione dei nostri disagi contingenti, ben testimoniata dall’ultima edizione del Dsm, la bibbia della psichiatria, dove si arriva persino a misurare la distanza che separa una normale tristezza da una vera e propria depressione: se procrastinato per più di sei giorni, per esempio, un lutto sfocerebbe già nella patologia (!).
Non meno metafisiche della psicoanalisi alla quale si oppongono, le terapie che si vogliono oggettive e materialiste, hanno come referenti uomini e donne deprivati della loro singolarità e appiattiti sulla risposta, o sul mancato adeguamento, alle richieste di prestazioni che la società postmoderna esige, generando quella fatica di essere stessi cui si riferiva Alain Ehrenberg in un suo celebre saggio (Einaudi, 1998). Altra rimozione dell’era postmoderna, il corpo (per la verità anche molto spesso esaltato) avrebbe subito – secondo Benasayag – una doppia negazione: quella datata anni cinquanta, che ha coinciso con la «svolta linguistica» dei filosofi analitici, seguaci del «tutto simbolico», e una seconda dovuta paradossalmente al fisicalismo, che nega il corpo in quanto «istanza auto-organizzata». Di fronte all’uomo nuovo che la postmodernità propone sulla scena, dotato di forme della sofferenza mentale non più centrate sul conflitto e sulla colpa, Benasayag propone «la sfida» della terapia situazionale, un orientamento della cura che per un verso egli fa discendere dalla corrente fenomenologica e per l’altro dalla psichiatria «alternativa».
La vocazione di questo metodo terapeutico sta nell’aiutare chi soffre di disagi psichici a sfuggire «alla trappola della sua individualità» per aderire il più possibile alle situazioni in cui è coinvolto. L’obiettivo è raggiungere quella che Spinoza chiamava una conoscenza «di secondo genere», ovvero «una contestualizzazione delle differenti dimensioni della vita», ciò che comporta la depersonalizzazione del soggetto a vantaggio della sua apertura alle diverse situazioni in cui si ritrova coinvolto. L’accoglienza riservata al paziente dovrà prescindere dalla pretesa di neutralità dell’analista – uno dei fondamenti del metodo freudiano – e assumere, invece, la singolarità dell’incontro con il terapeuta di turno: la depersonalizzazione auspicata per il paziente non vale, evidentemente, per l’analista, né Benasayag sembra, per fortuna, applicargli il compito di emanciparsi dal proprio Io.
Molte delle considerazioni seminate dallo psicoanalista argentino nel suo illustrare la terapia situazionale sono difficilmente accettabili per chi ritenga ancora valida la lezione di Freud, e anche il lessico parzialmente sedotto dalla filosofia di Spinoza – per esempio quando indica al paziente «l’assunzione di sé come unica strada verso la potenza e la gioia» – lasciano un po’ interdetti; altri obiettivi sono invece più condivisibili, e fra questi il fatto di aiutare «a liberarsi dalla tirannia della norma», almeno se la si intende come una negazione di quegli imperativi alla performatività che generano sensazioni di inadeguatezza, e dunque nuove forme di depressione. E anche l’incoraggiamento a raggiungere una stabilità «il più lontano possibile dall’equilibrio» ha una sua ragion d’essere, perché è vero che a volte l’aggrapparsi ai traumi del proprio passato come fossero «scolpiti nel marmo» e dunque insorpassabili, o alla propria fobia come fosse un marchio identitario, coincide con lo sposare la «dolce certezza del peggio».
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