Una sinistra in quattro mosse
Cosmopolitica.
Il comitatone, i referendum, le comunali. E dal 3 al 5 dicembre il
congresso. Il gruppo centrale e i 60 delle regioni per decidere come
eleggere il leader. E le regole delle assise
di Daniela Preziosi il manifesto 23.2.16
La
«sinistra massimalista» non vince «neanche le elezioni di condominio»;
quelli che hanno vinto, come Alexis Tsipras in Grecia, «poi hanno
assunto una posizione sanamente e pragmaticamente riformista».
Davanti
ai cronisti della stampa estera in Italia il presidente Renzi la prende
larga per dire quello che pensa di chi sta alla sua sinistra. Quelli
fuori dal Pd sono «massimalisti», quelli dentro o si adeguano oppure
«ciao», come ha spiegato domenica scorsa all’indirizzo della minoranza
Pd.
Basterebbe questo per spiegare la mutazione che si è
formalmente compiuta lo scorso week end al Palazzo dei Congressi di Roma
in tre giorni fantasiosamente denominati «Cosmopolitica» che di fatto
hanno consumato lo shakeraggio fra Sel, un gruppo di ex Pd con un
tesoretto di militanti al seguito, alcune associazioni (Tilt, Act,
Sinistra e lavoro), singole personalità, fra intellettuali ed ex social
forum.
La giornata di domenica ha sancito il passaggio di
testimone di Nichi Vendola, consegnato ad un video: «È tempo che una
nuova generazione avanzi sulla prima linea». E il testimone sarebbe
evidentemente destinato a Nicola Fratoianni, che ha fatto l’ultimo
intervento (formalmente in quanto coordinatore della segreteria). Ma il
leader in pectore della nuova formazione si è attenuto ai tempi stretti,
come tutti gli altri, per dare l’idea che ancora niente è deciso.
E
comunque nella tre giorni è affiorata una trama di giovani leader già
in prima linea, e infatti molto applauditi: da Marco Furfaro di Sel
(«Che bello vedere due sindaci come Zedda e Pisapia venire in un
laboratorio tematico, ascoltare e poi portare il proprio contributo. La
sinistra torna a vincere se va per aggregazione, non per sottrazione»),
Claudio Riccio, Act («Vogliamo costruire una grande forza popolare,
saremo impegnati per non fare la solita cosa, la solita sinistra», Mapi
Pizzolante di Tilt («Non mi abituo alla sinistra del rancore, delle
formule, degli uomini che se lo misurano, voglio costruire
un’intelligenza collettiva in cui governa la solidarietà, la
condivisione, il mutualismo»). Per non parlare dell’esplosiva sindaca di
Molfetta Paola Natalicchio, un vero fenomeno dal palco.
Ma
l’assemblea è finita tutta in piedi per Luciana Castellina, fondatrice
del manifesto e ormai un’icona di quest’area, che con ironia allegra
elogiava i ragazzi e proponeva «una federazione dei vecchi». Prima aveva
tributato applausi allo «zapatismo partenopeo» di Luigi De Magistris e a
Leoluca Orlando. Più fredda l’accoglienza per un coraggioso Gianni
Cuperlo venuto a offrire la sua mano per «continuare a costruire ponti».
Il nuovo soggetto nasce dalla rottura del centrosinistra.
Le
comunali, il referendum sulle trivelle del 17 aprile e quello
costituzionale — i primi tre appuntamenti del nuovo partito — non
accorceranno le distanze.
Si vedrà al congresso che si terrà dal 3 al 5 dicembre.
Da qui a quei giorni la platea di Cosmopolitica ha deciso un percorso, con inevitabili dosi di riunioni di backstage.
La
proposta accettata è quella di Peppe De Cristoforo, responsabile
organizzazione di Sel, e discussa in due lunghe sessioni venerdì e
sabato. A breve nascerà un comitatone promotore di 150 persone ripartito
in tre «gambe».
La prima è quella dei parlamentari di Sinistra
italiana. Una quarantina ormai: oltre a quelli di Sel e agli ex pd fin
qui già confluiti, hanno annunciato la loro adesione gli ex dem Giovanna
Martelli e Corradino Mineo, gli ex 5 stelle Campanella e Bocchino (un
altro ex grillino, Zaccagnini, aveva già aderito). Resta di sapere cosa
decideranno i senatori Uras e Stefano, vendoliani ma contrari al nuovo
corso.
La seconda gamba sarà una delegazione ’centrale’ composta
dalla segreteria nazionale di Sel e dai rappresentanti delle
organizzazioni e associazioni fondatrici, insieme a singole personalità,
in tutto una cinquantina di persone.
La terza gamba verrà dai
famosi «territori»: entro due mesi saranno saranno sce lti tre
rappresentanti per ciascuna regione «su base consensuale». Tradotto:
dovranno mettersi d’accordo evitando i litigi. Cosa non semplice
soprattutto in alcune città, leggasi Roma e Milano, dove la scelta
arriverà in piena campagna per le amministrative e costringerà alla
conta le componenti favorevoli alla ricostruzione del centrosinistra.
Non sarà un pranzo di gala, lo si è visto già nel corso della tre giorni
del Palacongressi in cui non sono mancate le polemiche anche ruvide:
Cofferati e Fassina da una parte, Pisapia, Zedda e Smeriglio dall’altra.
I
150 del comitatone (a occhio solo il 50 per cento proverrà da Sel)
dovranno decidere le regole per il congresso e per il tesseramento (sia
online, sulla piattaforma «Commo», che nei circoli).
Ma è una
partita tutta ancora aperta. Così come quella delicatissima della
modalità dell’elezione del o dei leader, della scelta di un congresso
per mozioni o per tesi, quella del nome.
«Sinistra italiana», nome
provvisorio deciso prima dell’assemblea romana non ha riscosso
l’entusiasmo dei più giovani né del coté ambientalista di Sel,
preoccupato per questioni anche di impianto culturale del nuovo
soggetto. Il simbolo è piaciuto ancora meno.
Resta anche il nodo di chi non c’è.
Non
solo l’elettore della sinistra inseguito dal nuovo soggetto ma anche i
«compagni di strada» che per ora restano su un’altra strada. Ferrero del
Prc, presente a Cosmopolitica, ha ripetuto la sua proposta di
coalizione di sinistra. Marco Revelli, dell’Altra Europa, quella di una
«vera costituente di un soggetto plurale, unitario, inclusivo, aperto».
Pippo Civati invece non c’era. Una risposta più possibilista è arrivata
dai candidati unitari (Fassina e Airaudo) ma per Nicola Fratoianni la
condizione resta l’ingresso nel nuovo partito: «Con oggi chiudiamo la
stagione degli accrocchi a sinistra».
Due anni dopo Renzi, nel Pd si apre il cantiere dei candidati alternativi
di Lina Palmerini Il Sole 23.2.16
Non
è ancora chiaro come verrà costruita la candidatura alla segreteria Pd
di Enrico Rossi ma un merito – intanto – ce l’ha. Ed è che ieri, con il
suo annuncio, ha rotto il ghiaccio e ha ufficialmente messo nel partito
una alternativa alla leadership di Matteo Renzi. Perché in questi giorni
di bilancio sui due anni del premier - e delle alterne vicende del suo
Governo - va fatto pure un bilancio di chi gli ha fatto opposizione e di
come l’ha organizzata, soprattutto dentro il Pd.
La storia
comincia con la minoranza che – dopo una direzione di partito - gli apre
la strada per Palazzo Chigi ma da quel giorno molte cose gli sono state
messe nel conto: Italicum, Jobs act, riforma della scuola, ultima legge
di stabilità con il taglio alla tassa sulla casa, riforma del Senato.
Tanti posizionamenti, sconfitte e mediazioni, ma dopo due anni
dovrebbero essere mature le condizioni per far scendere in campo chi lo
sfiderà alle primarie. E in effetti sembra che nel meeting di tre giorni
organizzato a Perugia, dall’11 al 13 marzo, la minoranza del partito
potrebbe lanciare Roberto Speranza verso la corsa congressuale. E
cominciare a giocare una partita politica non solo in Parlamento ma nel
Paese e tra le altre forze. Che è esattamente il passaggio che manca.
Nel senso che non basta far mancare i numeri alla Camera o al Senato,
come è accaduto su alcuni provvedimenti in questi due anni, ma la sfida è
di trovarli - i numeri - nella società e nel partito delineando in modo
chiaro quello che oggi non si capisce.
Perché tra i vantaggi del
premier nel non avere avuto un anti-Renzi, è che questo gli ha
consentito un margine di ambiguità o volubilità su alcune posizioni.
Sull’Europa, per esempio. Il fatto di non avere nel partito una
posizione netta e strutturata su quali proposte fare, a chi farle, quali
alleanze costruire, a chi dire no e a chi dire sì, ha permesso che in
questi due anni oscillasse da un’inclinazione tedesca a una
anti-tedesca. Il punto, insomma, è che le politiche si definiscono anche
in relazione a quelle dell’avversario o del competitor ma Renzi, su
alcuni dossier, si è trovato davanti a un mare aperto. Con una minoranza
che l’ha incalzato a strappi, su alcune leggi, ma che non ha costruito
una posizione politica organica.
E quindi l’annuncio di ieri di
Enrico Rossi di candidarsi – anche se alcuni nel partito maliziosamente
dicono che è almeno il terzo – è forse l’avvio di una nuova fase in un
partito che comunque tra un anno farà le primarie. Se non sarà prima.
Resta, infatti, l’ipotesi di voto anticipato o di un congresso
anticipato dopo il referendum costituzionale di ottobre. In sostanza,
tutto comincia ad allinearsi verso una scadenza di 12 mesi - o forse
meno - e per questo è più che attesa la convention della minoranza
dell’11 marzo.
Che Roberto Speranza lanci o meno la sua personale
candidatura, l’obiettivo è che si veda meglio il profilo politico
dell’alternativa a Renzi. Che, per esempio, non sarà sul “no” al
referendum sulla riforma costituzionale – votata anche dalla minoranza –
ma che sarà un “sì” a quello sulle trivelle. E soprattutto si dovrà
vedere meglio il menù su economia ed Europa visto che la piattaforma
sociale della sinistra non sposa il rigore di scuola tedesca. Nel mirino
ci sarà – verosimilmente – il Jobs act, si parlerà di redistribuzione e
di reddito minimo: temi cruciali in un Pd che si sta trasformando e
potrebbe trasformarsi ancora ma non si capisce bene come. Dopo due anni
di Governo, anche per gli avversari è tempo di bilanci. E di proporre un
anti-Renzi che non sia solo in grado di condizionare il premier ma che
lo costringa a precisare i contorni della sua proposta di partito e al
partito.
Nessun commento:
Posta un commento