lunedì 8 febbraio 2016

Tolstoj a Torino

Quando il conte Tolstoj passeggiava in via Po
Uno studioso ricostruisce la visita a Torino dello scrittore in cerca di modelli politici da applicare alla Russia in declino
Ernesto Ferrero Stampa 7 2 2016
“Dovunque si può vivere, e bene». Queste le conclusioni del giovane conte russo Lev Tolstoj, al termine del suo soggiorno in Piemonte, breve ma intenso, nel giugno 1857.
Il tour europeo che comincia da Parigi (a Berlino non scende nemmeno dal treno), lo ripaga degli orrori della guerra di Crimea, che ha vissuto sulla sua pelle. Difendeva il bastione di Sebastopoli attaccato proprio dai piemontesi. Lì aveva sperimentato il coraggio e la gentilezza dei suoi soldati contadini, male equipaggiati e peggio armati, l’incompetenza dei comandi, le assurdità di una disciplina imposta con stupida ferocia. Lì, sotto centinaia di granate fiorirà la sua vocazione pacifista, e il primo germe di Guerra e pace come celebrazione dell’anima russa più vera e profonda, quella popolare.
Sulle Alpi
Parigi è entusiasmante, addirittura «folle» nella sua gioia di vivere, ma lo sconcertano le violenze del potere, la miseria diffusa, una condanna alla ghigliottina eseguita davanti a migliaia di voyeurs. Va a Ginevra a rendere omaggio ai luoghi dell’amato Rousseau, si arrampica per dodici giorni tra le Alpi svizzere, finalmente arriva a Torino alternando carrozze, dorso di mulo, e lunghi tratti a piedi. Il soggiorno torinese non compare nelle edizioni dei diari pubblicate in Italia, ed è noto solo a pochi studiosi. Adesso ce lo racconta lo storico Roberto Coaloa in uno svelto profilo biografico centrato prevalentemente sul Tolstoj pensatore impegnato e profeta del pacifismo (Lev Tolstoj. Il coraggio della verità, Edizioni della Sera, pp. 198, Euro 17,00).
Il turista russo sa dove andare. Si sveglia presto, fa un bagno, corre all’Università, che lui chiama Athenaeum. Lo colpisce l’allegria degli studenti, la loro «vita giovane, forte, libera». Sotto i portici di via Po passeggiano esuli e patrioti di mezza Italia, lui è piacevolmente colpito dalla frizzante aria intellettuale che avverte in giro. Poi passa al «Museo delle Armi», cioè l’Armeria Reale, che Carlo Alberto aveva aperto al pubblico vent’anni prima. Infine il «Museo delle Statue», cioè l’Egizio, inaugurato da re Carlo Felice dopo l’acquisizione delle cospicue collezioni di Bernardino Drovetti. Lo impressiona l’imponenza dello statuario.
I veri interessi vanno però alla politica. Cerca di cogliere le idee e i programmi che agitano gli schieramenti, in vista di un loro utilizzo in Russia, per le riforme che non sembrano ulteriormente rimandabili, dopo il disastro della Crimea e le crescenti tensioni sociali. Per questo partecipa a una sessione del Parlamento piemontese, l’unico allora attivo e legiferante in Italia. Ci sono i conservatori-legittimisti, i liberali-costituzionalisti, i democratici-radicali. Il «caso italiano», anzi piemontese, presenta un notevole interesse per chi cerca modelli praticabili.
In parlamento
Tolstoj assiste con gli amici alla seduta del 16 giugno, in cui Angelo Brofferio chiede lumi al governo sulla missione bolognese affidata a Carlo Boncompagni. Perché quella visita al Papa in visita alle Legazioni? Cavour risponde abilmente, lasciando intendere che la missione non è affatto un segno di debolezza o acquiescenza, ma vuol dimostrare all’Europa che lo stato sabaudo è in grado di conciliare il rispetto dovuto al capo del cattolicesimo con il mantenimento dell’indipendenza del potere civile. Come a dire: libera Chiesa e libero Stato. Noi siamo maturi, aperti, affidabili. Cavour stava attraversando la sua stagione più creativa: attivissimo nel provocare l’Austria sino a rompere le relazioni diplomatiche, nel deliberare la fortificazioni di Alessandria e la costruzione di un porto militare a La Spezia. In quella stessa estate 1857 inizieranno i ciclopici lavori di scavo del Fréjus.
Usciti tonificati da Palazzo Carignano, i russi pranzano «magnificamente», non è azzardato ipotizzare nel vicino ristorante del Cambio. Poi tutti a passeggio. Tolstoj sembra liberarsi degli amici scaricandoli in un bordello, e riprende le sue passeggiate solitarie. A sera, ascolta un concerto delle sorelle Ferni, compiacendosi di essere in compagnia della «miglior società del regno sardo». Delle sue attitudini sportive è anche un’escursione a Gressoney sulla via del ritorno in Svizzera. Annota compiaciuto nei diari: «Aria pura e rarefatta, suoni chiari sui monti, ragazzo canta, discesa. Aromi, odori di segala e melissa, canto di cuculo sui monti».
Cavour in Guerra e pace?
Coaloa ipotizza che Cavour abbia offerto i suoi tratti al personaggio di Pierre Bezuchov, centrale in Guerra e pace. Come lo descrive Tolstoj, «un solido, grosso giovanotto dai capelli tagliati corti, con quei pantaloni chiari che andavano di moda allora, jabot ben alto e frac color cannella». Monsieur Pierre potrebbe essere nato a Torino dalla massiccia complessione del primo ministro: i tratti incorniciati dalla sottile barbetta, gli occhi mobilissimi dietro i piccoli occhiali, le mani inquiete, i sorrisi misurati del politico di razza. «Il piccolo Camillo ha fatto il giacobino e l’ho messo alla porta» aveva detto Carlo Alberto. Anche Pierre aveva imbarazzato i salotti di Pietroburgo dichiarando la sua ammirazione per «il grande uomo», per Bonaparte. Di certo Tolstoj e Cavour avevano in comune la passione di coltivare la terra, l’uno a Jasnaja Poliana, l’altro a Leri e a Grinzane.
Peccato che i due conti contadini non si siano incontrati al Cambio, scambiati consigli su concimi, sementi, macchine agricole e promesso visite reciproche. Sarebbe stato un’apparizione monumentale, Tolstoj, nelle risaie vercellesi, con i suoi stivaloni, il largo cappello di paglia, la barba ispirata, quell’aria da burbero benefico, da dio corrucciato e generoso. Quanto a Cavour, così massiccio e così agile, così mefistofelico dietro i suoi occhialini, i mugiki di Jasnaja Poljana ci avrebbero fantasticato per un bel po’.

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