Paul Klee:
Diari 1898-1918, traduzione di A. Foelkel, il Saggiatore, pagg. 418, euro 29
Risvolto
«Ciò che in questo diario è confuso e imperfetto non fa un
effetto così strano e ridicolo come i primi tentativi di tradurre in
arte i miei stati d’animo. Un diario non è, appunto, un’opera d’arte, ma
un’opera del tempo.»
I diari di Paul Klee, raccolti e ordinati dal figlio Felix,
ripercorrono le tappe più importanti della vita dell’artista. I ricordi
dell’infanzia in Svizzera, i rapporti con la famiglia, l’amicizia con
Kandinskij e Macke, l’osservazione della natura, i viaggi in Italia e
Tunisia, i mesi sul fronte occidentale, le esperienze letterarie e
musicali, le tecniche pittoriche e la filosofia della creazione:
attraverso queste pagine si entra nel mondo misterioso e nel singolare
laboratorio di un grande pittore. Una testimonianza straordinaria che
esprime l’amore per l’arte, per la vita e la creatività: «Questo è il
senso dell’ora felice. Io e il colore siamo tutt’uno. Sono pittore».
Paul Klee e l’arte di tenere un diario
Nei suoi dipinti compaiono geroglifici, frecce, caratteri alfabetici e note musicali Pittore, musicista, architetto E anche scrittore, come dimostrano i suoi taccuini che ora tornano in libreria
di Hans Ulrich Obrist Repubblica 24.2.16
Etel Adnan, poetessa e artista tra le più grandi, mi disse, poco tempo
fa, che riteneva che Klee appartenesse a quella stirpe di geni per i
quali una singola definizione – che sia «pittore», «musicista» o
«architetto » – risulta inevitabilmente riduttiva. Occorre, mi disse,
dedicare la dovuta attenzione agli scritti di Klee, così come alla
produzione in poesia e prosa di geni poliedrici come Leonardo da Vinci,
Vasilij Kandinskij e Igor Stravinskij. Non vi è dubbio che Klee sia
stato uno degli artisti più versatili
mai esistiti. La sua genialità nella pittura, nel disegno e nell’arte
dell’incisione può essere compresa appieno solo nel momento in cui viene
messa in relazione con le altre espressioni del suo talento: l’attività
come musicista, designer, filosofo dell’arte e insegnante. A questi
molteplici aspetti della sua creatività, dobbiamo aggiungere l’eloquenza
e la lucidità della scrittura, di cui questi diari costituiscono un
esempio mirabile.
La scrittura di Klee, già magnifica di per sé, fornisce in questo caso
un ritratto dell’artista nel suo cammino verso la grandezza. Un artista
altrettanto poliedrico, Joseph Beuys, affermava che «ogni essere umano è
un artista »: non vi è dubbio che anche per Klee la vita fosse
inscindibile dall’arte. L’idea che lo sviluppo creativo fosse per lui
indissolubilmente legato all’esperienza vissuta trova riscontro, in
particolare, in un brano dei suoi diari che risale al 3 giugno 1902, nel
quale si legge: «Ciò che ora conta non è neppure di dipingere soggetti
prematuri, bensì di essere uomo o almeno di diventarlo. L’arte di
dominare la vita è la condizione fondamentale di tutte le manifestazioni
ulteriori, si tratti poi di pittura, architettura, dramma o musica».
Insieme composito di annotazioni in ordine cronologico e di modifiche e
aggiunte successive, queste riflessioni, risalenti agli anni centrali
della sua vita, sono costellate di allusioni al tema della crescita,
intesa nelle sue più svariate forme. Affascinato dai cambiamenti che
avvengono nel mondo naturale, Klee illustra, in un altro scritto, il
processo di costruzione di un dipinto come se stesse parlando della
crescita di una pianta, il cui sviluppo è strettamente dipendente dal
terreno da cui è emersa. (...) Uno dei grandi paradossi che
caratterizzano l’opera di Klee – e dobbiamo intendere il termine
paradosso nell’accezione dei presocratici, come fonte di nuove idee e
nuova ispirazione – è la sua capacità di essere allo stesso tempo
privata e profondamente sociale. Se da un lato il suo lavoro appare come
il frutto di una visione soltanto individuale e particolare, dall’altro
sembra trasmettere, con grande forza, la voce di un’epoca storica
durante la quale il mondo è cambiato fino a diventare irriconoscibile.
Ciò si riflette nel modo in cui Klee fa convivere improvvisazione e
regola, modelli matematici e una straordinaria libertà di espressione.
Seguendo la numerazione scrupolosa con la quale ha ordinato i suoi
dipinti, possiamo osservare come, da un giorno all’altro, fosse capace
di produrre opere che sembrano non avere assolutamente nulla in comune.
Klee inventò un sistema all’interno del quale aveva la libertà di
improvvisare, così come fece Georges Perec creando una struttura entro
cui sviluppare le proprie storie. La sua genialità consisteva nel
sapersi adattare alle esigenze dell’opera d’arte, senza tuttavia
perderne il controllo. «Come una barca in mezzo al mare» afferma Etel
Adnan «non era lui che indicava una direzione al dipinto, era il dipinto
a indicarla a lui.» (...) Non esiste nulla che non sia importante nella
vita, questo sembrano testimoniare i dipinti di Klee: non vi si troverà
mai un angolo insignificante, o frammenti della superficie che non
siano riempiti con qualche affascinante simbolo, colore, forma o motivo.
La pittura classica assegna un centro alla composizione del quadro,
trasformando i bordi della superficie pittorica in spazi marginali,
suggerendo in modo chiaro che si deve prestare minore attenzione a ciò
che si trova nella zona periferica, ai margini, nei contorni. Trovo
estremamente affascinante il rifiuto di questo principio da parte di
Klee, dal momento che scrivo in un’epoca in cui la sola idea
dell’esistenza di un «centro» appare obsoleta, in un mondo così
polifonico, interrelato e interconnesso come quello in cui viviamo oggi.
In Klee ogni cosa riveste la stessa importanza, nulla è trascurato,
considerato inferiore, marginalizzato. L’artista è noto per aver detto
che «l’arte non riproduce il visibile, ma rende visibile ciò che non
sempre lo è». Qualcosa di simile può essere sostenuto a proposito dei
suoi diari, i quali non si limitano a registrare la vita e l’opera di
Klee, ne sono parte integrante; non riproducono eventi, sono eventi essi
stessi.
Ciò è particolarmente evidente nella loro modalità di composizione: Klee
interruppe la scrittura dei diari nel 1918, per poi riprenderla in
seguito inserendo aggiunte e correggendo brani composti in precedenza,
prima di stendere una nuova versione del manoscritto. I Diari non vanno
intesi solo come documentazione di fatti avvenuti, ma anche come vere e
proprie creazioni plasmate consapevolmente, nell’ambito di un’idea ampia
e olistica di arte. L’intenzione di Klee di abbattere i confini che
separano la scrittura dall’arte si manifesta nel suo incorporare nei
dipinti un linguaggio visivo nuovo e idiosincratico, fatto di simboli e
segni tratti da diverse sfere dell’attività umana. Geroglifici,
caratteri alfabetici, frecce, lettere, note musicali, cifre sembrano
invitarci a leggere i dipinti come leggeremmo un testo scritto, e,
analogamente, a leggere i suoi scritti come fossero dipinti.
Questa idea di arte allargata, intimamente legata ad altre discipline, è
uno degli insegnamenti più importanti che Klee ci abbia trasmesso.
«Posso morire, io, un cristallo?». Tornano i «Diari» di Klee
I «Diari» di Klee riproposti dal Saggiatore nella sua vecchia edizione 1960. 1898-1918: profonda passione teorica, musica-colore, crolli esistenziali come la morte in guerra dell'amico Franz Marc
Massimo Romeri Alias MAnifesto 27.3.2016, 0:10
In una conferenza tenuta alla Kunstverein di Jena nel 1924 Paul Klee paragona l’artista al tronco di un albero, tormentato, scosso dalla possanza dei fluidi che penetrano attraverso le radici, «e come la chioma dell’albero si dispiega visibilmente in ogni senso nello spazio e nel tempo, così avviene con l’opera». L’immagine dell’albero sta a significare due cose: il legame saldo con il mondo, con il presente, e il ruolo dell’artista come mediatore della realtà. La sua attività si spiega bene con questa metafora: è tanto legata alla propria vita, quanto tende a recepire regole universali. Klee, il suo corpo, le sue vicende personali, sono uno strumento conoscitivo.
Lo si percepisce nei suoi Diari 1898-1918, pubblicati postumi a cura del figlio Felix nel 1957, e di cui il Saggiatore ripropone ora la prima edizione italiana, datata 1960 (pp. 418, euro 29,00), con la bella prefazione di Giulio Carlo Argan e una nuova introduzione di Hans Ulrich Obrist – ma è di soli quattro anni fa l’edizione ritradotta, e integrata, per Abscondita (traduzione di Angelica Tizzo, postfazione di Elena Pontiggia e appendice iconografica).
I ricordi dell’artista, numerati progressivamente, si leggono d’un fiato. Si sente crescere, dall’1 al 1134, la profonda passione teorica, che coincide con una graduale mutazione stilistica: le frasi si spezzano, la consapevolezza del proprio ruolo aumenta, le letture si succedono una all’altra e vengono meticolosamente annotate. Quelle che ci si aspetta: Gor’kij, Nietzsche, Zola, Poe, Gogol’, Voltaire…; e i classici: Aristofane, Plauto, Tacito, Platone e il Simposio di Senofonte, «tra le cose più belle dell’arte antica», per la grazia degli scherzi e delle azioni, e il parlare tanto semplice quanto profondo dell’amore, del sesso, della vita. C’è anche, dalla prima all’ultima pagina, un’ironia che tende ora al cinico – ma senza la rabbiosa frustrazione di Céline – ora alla canzonatura più leggera: «alla domanda se amo la natura, rispondo, per ora: “la mia certamente”». Talvolta emerge l’afflato messianico dello Zarathustra: «Io sono Dio. Tanto di divino si è accumulato in me che non posso morire», o ancora: «posso morire, io, un cristallo?».
Ma sempre alle parole soggiacciono delle forme: «Sogno me stesso che divengo il mio modello. Il mio io proiettato. Destandomi, riconosco la realtà. Giaccio in posizione complicata ma supino, tutto aderente al lenzuolo. Io sono il mio stile». I viaggi rappresentano un momento di formazione importante. Il suo italienische Reise dura sei mesi, tra 1901 e 1902: segue la strada del sud paragonandosi a Dürer. Come quest’ultimo aspira alla chiara pienezza delle forme classiche o, in senso ancora romantico, a trovare una «natura amica che non tenta, ma salva». Infine «in Italia ho compreso l’architettura dell’arte figurativa», laddove il figurativo, per Klee, non è la rappresentazione dell’oggetto, ma la costruzione interna dell’immagine; si avvicina così, per la prima volta, a una concezione astratta del visibile. Al ritorno dall’Italia tenta di imporsi sulla scena artistica monacense, ma si susseguono i rifiuti: è un momento difficile dal punto di vista finanziario. Le ristrettezze economiche rendono scettici i genitori della futura sposa, ma i due giovani sono ben decisi nelle loro scelte e Klee, evidentemente con orgoglio, incolla dopo il ricordo 777 la pagina del Bollettino dello Stato Civile con la pubblicazione del proprio fidanzamento. A stretto giro il matrimonio e la nascita del figlio Felix. Saldamente connessi a queste vicende personali, nel diario si seguono anche i progressi nella pittura, tra scatti in avanti e ricadute, dubbi, problemi e soluzioni. Dai primi disegni simbolisti alle incisioni, alle sintesi lineari: «Mi si rivela così una via per l’uso delle linee e posso finalmente uscire dal vicolo cieco dell’ornamento»; e in un’ora felice, a Tunisi, in una serata «dai colori altrettanto delicati che decisi», scopre che «io e il colore siamo tutt’uno. Sono pittore».
Poi combina questi elementi, la linea e il colore, misurandoli quasi musicalmente, soppesandone le potenzialità nelle composizioni. Si sente in questi anni prima della Grande Guerra un bisogno di riforma. Le «alte grida di lamento per la rivoluzione in corso» si levano a Monaco soprattutto per la mostra dei futuristi alla Galleria Thannhäuser. Klee parla specialmente di Carrà: gli ricorda Tintoretto e Delacroix. Ma l’impressione è che il roboante mondo dei futuristi che aspira alla novità con prorompete foga retorica sia legato a doppia mandata all’arte antica. Forse l’unica strada possibile per riformare il linguaggio artistico è gettare uno sguardo alle raccolte etnografiche o, ancora meglio, in casa propria, «nella stanza riservata ai bambini». Le creazioni dei bambini e dei malati di mente, tanto più solo elementari, tanto più possono essere, secondo Klee, esempi istruttivi, da considerare «con una serietà maggiore a quella che si riserva a tutte le pinacoteche, se si vuole oggi riformare la pittura». Un interesse del genere fa il paio in pittura almeno con Picasso.
Nel campo letterario, per rimanere in tema, si possono citare anche le ricercate crudezze linguistiche di Gertrude Stein. La guerra entra nei Diari in modo fulmineo con la scomparsa, tremenda, di Franz Marc, in una delle pagine più intense e drammatiche del libro.
Da quel 4 marzo 1916 la morte del giovane compagno di ricerche riaffiora fino alla fine «come un fulmine, come se qualcosa crollasse in me». E a qualche mese di distanza, raccontando Marc, Klee racconta se stesso. La scomparsa improvvisa ne ha stroncato la maturazione, Marc si sarebbe evoluto in un senso universale, come un’idea, perciò con uno sconforto martellante l’amico si chiede: «ma allora perché è morto?». In questo frangente, solo l’incontro con Kandinskij e l’impegno nel Blaue Reiter chiariscono le ragioni definitive della propria ricerca: «Quanto più spaventoso è questo mondo, come oggi, tanto più astratta è l’arte». L’astrattismo raccoglie il senso più profondo di una realtà oltre il visibile, con freddezza calcolata, al di là di ogni espressione sentimentale: «Nel grande serbatoio delle forme giacciono macerie a cui in parte teniamo ancora. Esse offrono la materia dell’astrazione». Vibrano, in queste parole, i traumi inauditi della guerra. Negli anni successivi Klee continua a lavorare moltissimo. Le brevissime interruzioni sono dovute a fatti contingenti come gli impegni militari, eppure a monte di ogni sua opera sta un ragionamento a sé. Disegna o dipinge ispirato da una fantasia che pare infinita, accompagnata a un’ intelligenza prodigiosa. I suoi pensieri non sono raccolti solamente nei diari. Dal 1921 al 1931, in concomitanza con le sue lezioni al Bauhaus – prima a Weimar, poi a Dessau –, l’artista ha compilato dei quaderni solo in parte pubblicati, e le cui 3900 pagine, fitte di appunti e disegni, sono rese da poco disponibili online dal Zentrum Paul Klee di Berna (www.zpk.org), con scansioni e trascrizioni. Vale la pena sfogliarli: questi fogli stanno al Novecento come gli scritti di Leonardo al Rinascimento. Un paragone che trova senso nelle pagine dei Diari: Leonardo è il nume italiano di Klee, un «pioniere nell’uso delle tonalità», un artista al quale, attraverso lo studio, la natura appare rivelata. Una natura che per l’uomo moderno è «mobile» e infinita nella sua varietà, dai microcosmi visibili attraverso le lenti del microscopio allo spazio infinito oltre l’atmosfera terrestre. E per concludere dove si è iniziato, dalla conferenza di Jena del ’24: «Chi mai non vorrebbe, come artista, dimorare là, dove l’organo centrale d’ogni moto temporale e spaziale – si chiami esso cervello o cuore della creazione – determina tutte le funzioni? Nel grembo della natura, nel fondo primordiale della creazione, dove è custodita la chiave segreta del tutto?»
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