La domanda posta dal devoto discepolo sul Manifesto - un altro house organ, sebbene solo per alcuni giorni alla settimana - è sbagliata. La domanda vera è esattamente quella opposta: come è possibile che l'autore di una teoria assolutamente innocua che è il rispecchiamento palmare del mondo neoliberale esistente e dei suoi valori, con un semplice rovesciamento di segno su alcuni elementi, venga considerato così autorevole all'estero, dove lo conoscono meno.
Di Negri abbiamo semmai una continua ed eccessiva ostensione: le sue parole sono costantemente esposte sulla scena, perché scelte ad arte come rappresentazioni emblematiche di una visione del mondo che è evidentemente assai comoda per la società dello spettacolo.
I comunisti dovrebbero semmai riflettere sulla capacità egemonica gesuitico-leninista dei negrieri nel sapersi mantenere compatti e sotto i riflenel corso dei secoli [SGA].
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Una vita all’insegna del «noi»
Tempi presenti. Dal Veneto povero e contadino a un marxismo eretico dove la classe operaia è la fonte dello sviluppo capitalistico. «Storia di un comunista» di Toni Negri. Un’autobiografia che lega percorso teorico e scelte politiche
Dario Gentili Manifesto 16.3.2016, 0:32
Sarebbe riduttivo considerare Storia di un comunista (a cura di Girolamo De Michele, Ponte alle Grazie, pp. 608, euro 18) esclusivamente come l’autobiografia di Toni Negri. Certo, si può leggere come un’autobiografia e apparentemente si presenta proprio così: dall’infanzia nel Veneto al tempo della Seconda Guerra mondiale fino all’arresto del 7 aprile 1979. La storia di quegli anni, inoltre, si dipana – anche se non mancano incursioni del senno di poi, soprattutto di quelle categorie che Negri svilupperà appieno solo dopo gli anni Settanta – in ordine cronologico. Non si tratta soltanto di un’autobiografia perché, sia dal punto di vista del contenuto che da quello stilistico, è anche la storia di un’autobiografia che progressivamente perde ciò che la rende tale: il suo io narrante.
Da Hegel a Weber
Storia di un comunista è infatti un processo di soggettivazione che passa attraverso diverse fasi, lasciando poi – dal ’68 in poi – la narrazione a un «noi». È infatti il «noi» di una «generazione» che, come dichiarato nella premessa del libro, Negri prova a raccontare. Ma prima che l’io narrante possa diventare un noi, prima cioè che la storia vissuta in prima persona possa trasfigurarsi nella storia di una generazione di militanti, per buona parte del libro la narrazione dell’io privato e dell’io che si sofferma a riflettere sulle proprie vicende personali e sugli avvenimenti del mondo e della società che lo circondano si alterna con la narrazione in terza persona: un «Toni» che nel mondo di relazioni, di militanza, di studi che precedeva il decennio del lungo ’68 italiano vive ancora in una condizione di alienazione. Non che la militanza con la Giac (Gioventù italiana di Azione cattolica) o con il Partito socialista non siano fondamentali – come fondamentali sono nella sua formazione filosofica gli studi sull’Historismus tedesco, su Hegel e su Weber. Ma è solo a partire dal ’68 – dalle lotte che il ’68 inaugura – che l’io narrante non ha più bisogno di farsi rappresentare da Toni.
La scena originaria
Per comprendere tuttavia la svolta che il ’68 comporta, bisogna ripercorrere i passaggi che l’hanno preparata. Storia di un comunista, infatti, è sì il racconto di un vissuto personale e generazionale, ma la sua trama non è meno articolata e strutturata di un testo filosofico di Negri. Il pensiero filosofico non è soltanto quello che Toni apprende dalle sue letture e dai suoi maestri (Opocher, Chabod, Garin, Cantimori, Bobbio, tra gli altri) e che poi declinerà via via nei suoi scritti, ma è anche quello che si fa pensiero vivente, che sempre di più con il passare degli anni si incarna nella militanza e nelle lotte. Non è un caso che il primo capitolo s’intitoli Stato di natura: la scena originaria del pensiero politico moderno. Lo stato di natura dell’infanzia di Negri ha infatti i caratteri di quello hobbesiano: guerra, morte, paura della morte.
Fin dalle primissime pagine il libro presenta il filo rosso che lo attraversa e ne scandisce i momenti: «la vita è una lotta, implacabile e feroce, contro la morte». Ebbene, il libro comincia con la vita che, nello stato di natura, soccombe allo strapotere della morte e, pertanto, chiede protezione. È da qui che la narrazione prende avvio ed è lungo questa linea che si sviluppa: da uno stato di minorità, subalternità e dipendenza alla possibilità di una «politica della vita» (sebbene entri nel suo lessico solo in seguito, il termine «biopolitica» ricorre frequentemente).
Filosofia in divenire
Quella che potrà affermarsi, tuttavia, non può essere la vita naturale, inevitabilmente soggetta alla morte e bisognosa di protezione, bensì una vita storica, il risultato cioè di un processo politico di soggettivazione. E nemmeno il «comune» potrà corrispondere alla comunità «naturale» dove Negri nasce – la famiglia innanzitutto, ma anche quel Veneto contadino, povero, cattolico e solidale. Certo, Negri afferma «di essere stato comunista prima che marxista», ma su questo senso comunitario va innestato Marx e un certo marxismo perché il comune da condizione naturale possa essere sviluppato nel senso della produzione. Comunismo dello stato di natura e vita naturale devono farsi storia e politica.
Tale passaggio si sviluppa come un processo di cui ricerca filosofica ed esperienza vissuta compongono i momenti: l’Historismus tedesco insegna a Toni che soggetto e oggetto si compenetrano reciprocamente nel movimento della storia, Weber lo introduce a quella sintesi di sociologia e politica che lo porta – già come militante del cattolicesimo di base – a fare dell’inchiesta un metodo al contempo di conoscenza e di pratica politica, i viaggi estivi in autostop in giro per l’Europa gli aprono le prime vie di fuga dal provincialismo. La prima conversione è quella dal cattolicesimo militante alla laicità socialista (si iscrive al Psi), ma la vera svolta è rappresentata dall’esperienza del marxismo eretico dell’operaismo, quello di Quaderni rossi e Classe operaia.
Il rifiuto dello sfruttamento
La vita s’incarna nel lavoro vivo di cui la classe operaia – l’operaio massa della fabbrica fordista – è la soggettivazione e la storia si configura come lotta di classe: operai e capitale. Ma l’affermazione della vita in quanto punto di vista operaio non è sufficiente a rendere questa vita indipendente dalla morte; quella dialettica che nel conflitto di classe consente alla vita di riconoscersi come soggetto storico ne impedisce altrettanto l’affermazione autonoma: «Nella lotta operaia si sconfiggono la paura e la morte. La rottura fra il desiderio e la sua gabbia – la fabbrica, il comando, il profitto –, il rifiuto dello sfruttamento sono anche mettere la vita fuori da ogni tanatologia: la vita indipendente dalla morte. (…)Non c’era dialettica che potesse articolare queste conclusioni». È a quest’altezza della riflessione teorica e delle lotte inaugurate nel 1962 a Piazza Statuto che si pone la questione politica dell’organizzazione della classe operaia. Ed è qui che il fronte operaista si spacca – Negri vede nel sindacato, nel partito (il Pci), nello Stato un «potere fuori di sé» rispetto alla «potenza» del lavoro vivo.
Nasce allora l’esperienza di Potere operaio e poi di Autonomia operaia: comincia il lungo ’68 italiano.
Da questo momento in poi la narrazione si fa più serrata – la lotta del Petrolchimico di Porto Marghera da giugno ad agosto 1968 assume l’andamento della cronaca – ed è spesso un «noi» a parlare. Come un «noi» è quello delle riviste che si susseguono scandendo il ritmo delle lotte e della riflessione – e il loro compenetrarsi. L’appropriazione della prima persona (plurale) corrisponde alla declinazione del rifiuto del lavoro operaista in autovalorizzazione, che di lì a qualche anno prenderà il nome di «esodo». L’autovalorizzazione del lavoro vivo assume le fattezze dell’operaio sociale e il suo spazio d’azione diventa la metropoli (intanto, lo stesso Negri da Padova si trasferisce a Milano) – il Capitale a sua volta adegua la sua logica di sfruttamento alla «fabbrica sociale». Si imprime un’accelerazione vertiginosa nei processi di soggettivazione che – ecco comparire un’altra categoria che Negri elaborerà solo successivamente – cominciano a delineare una «moltitudine» che già si muove al di là della dialettica con lo Stato-nazione.
Sono gli stessi anni in cui l’esperienza italiana comincia a tradursi in altri contesti (europei ma non solo) e in altre lingue e, al contempo, inizia ad assimilare quanto arriva da fuori (ad esempio, si avvia qui la ricezione del post-strutturalismo francese).
Il lavoro che verrà
E tuttavia, quel decennio è stato rubricato dalla storiografia ufficiale con la formula «anni di piombo»: lo scontro tra lo Stato e quella parte del movimento che si è fatto partito armato. È una logica dialettica che conclude tragicamente il lungo ’68. Beninteso, Negri questa storia la racconta. Ma lungo quelle stesse pagine, quelle sul ’77, Negri registra «la prima, decisiva apparizione di una nuova antropologia del lavoro: l’affermazione di una nuova forza lavoro socializzata e intellettualizzata» – il lavoro immateriale, cognitivo, affettivo, cooperativo, singolarizzato.
Insomma, quella che sarà la forma predominante del lavoro vivo – la sua forma di vita – in epoca postfordista. Ed è questo processo di soggettivazione che si affaccia nelle lotte di quegli anni in Italia – e che oggi ancora cerca l’affermazione di una sua biopolitica – a continuare una storia che non finisce il 7 aprile 1979.
Toni Negri, un pregiudizio lungo quarant’anni
Tempi presenti. Intellettuale perché militante politico. Questa la ragione di una pervicace ostilità
Sergio Bianchi Manifesto 16.3.2016, 0:30
Le ragioni del perché Toni Negri sia lodato dagli intellettuali di mezzo mondo quanto disprezzato da quelli del suo paese non è di facilissima comprensione. In parte sarà senz’altro dovuto al residuo di quella montagna di odio che quasi quarant’anni fa i media hanno saputo orchestrare nei suoi riguardi. Eppure non si deve trattare solo di questo. Perché il livore dimostrato in alcune recensioni alla recente pubblicazione della sua autobiografia fa sorgere il dubbio sull’esistenza di un istinto pregiudiziale che, per paradosso, vorrebbe addirittura negargli la legittimità del ruolo di intellettuale. Come a dire che non merita di appartenere a quella casta perché ne è stato escluso innanzitutto per indegnità morale, essendo stato responsabile della degenerazione violenta di decine di migliaia di giovani ai quali aveva rivolto i sui cattivissimi insegnamenti.
A queste reiterate accuse Negri sembra rispondere con il sorriso beffardo dell’immagine di copertina del suo libro. Come a dire che no, non gli sono bastati oltre dieci anni di galera e quattordici di esilio per pentirsi della sua lunga esistenza spericolata e a precipizio, effettivamente non riconducibile nei rassicuranti quanto banali panni dell’intellettuale dispensatore di sani insegnamenti sull’opportunità della civile convivenza. Perché Negri, piaccia o no, è sempre stato un intellettuale schierato con la lotta di classe e convinto assertore di quella trontiana massima «operaista» che con assoluta chiarezza recita: conosce veramente solo chi veramente odia. I padroni s’intende. Perché Negri, piaccia o no, è sempre stato, insieme, filosofo della politica e militante politico, e ciò in modo coerente e indissolubile.
A riguardo le pagine sulla sua partecipazione alle lotte operaie a Porto Marghera negli anni Sessanta, e poi la fondazione di Potere operaio, e poi ancora dell’Autonomia operaia, sono un straordinaria testimonianza di cosa significhi essere soggetti produttori di ricerca teorico filosofica e insieme militanti politici (anche) di base. E sempre a proposito della dispensazione di una sana conoscenza, alle anime belle che affollano la nostrana casta degli intellettuali, le quali a sentir nominare Negri trattengono a fatica l’istinto di sputare per terra, andrebbero chieste le ragioni del perché la condizione culturale del nostro paese, a partire dalle università, versa nelle note, miserabili condizioni. A Luciano Ferrari Bravo, l’amico intellettualmente più legato a Negri e di conseguenza con lui stupidamente ristretto al gabbio, era persona pacata, gentile e mite, solo una cosa riusciva a mandarlo veramente in bestia, appunto l’accusa di essere stato, all’epoca, lui e tutto l’Istituto di scienze politiche di Padova, dispensatore di ignoranza. Ed è appunto con il riscontro dell’approccio a una conoscenza non convenzionale sulla storia della lotta di classe nel nostro paese, dal dopoguerra alla fine degli anni Settanta, che andrebbe affrontata la lettura dell’autobiografia di Negri. Un lavoro che ha visto la partecipazione, segnata da un serio rigore quanto da una silente e riservata modestia, di Girolamo De Michele, Tommaso De Lorenzis e Vincenzo Ostuni.
A chi volesse avventurarsi in questa impegnativa ma appassionante lettura, che svela nella sua prima parte le vicende meno conosciute della biografia di Negri, quelle della sua infanzia, adolescenza e giovinezza, va consigliata, a compendio, l’accostamento di un’altro suo libro, Pipe-line. Lettere da Rebibbia, un’opera che ripercorre nello specifico tutti i principali passaggi della sua formazione filosofica, teorica e politica.
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