sabato 19 marzo 2016

Concentrazioni editoriali, rivoluzione tecnologica, mito del lavoro "cognitario" e le consuete fantasie postoperaiste e negriere


Come scompaginare l’industria culturale 

EDITORIA INDIPENDENTE E «BELLISSIMA». Che esista un'equivalenza garantita tra editoria indipendente ed editoria «di qualità» è una credenza infondata e autoconsolatoria. Quando il discorso critico non elimina il conflitto ha una forma efficace di indipendenza. Il resto è spesso esercizio vuoto e narcisistico.

Marco Bascetta Alias Manifesto 19.3.2016, 0:07 
Quanti anni sono che ne parliamo! Con toni sempre più allarmati per la loro sopravvivenza mano a mano che i processi di concentrazione avanzavano, che le economie di scala divoravano tutto. Ne è passato del tempo da quando André Schiffrin ci metteva in guardia da un’«editoria senza editori» che avrebbe cancellato ogni soggettività culturale a favore di una oggettiva, impersonale, macchina da guerra per la conquista del mercato. Alla difesa dell’indipendenza abbiamo dedicato nel corso degli anni decine di articoli, convegni, manifestazioni, fiere, presidi, petizioni. Abbiamo proposto, e a volte sperimentato, formule organizzative reti e associazioni, mentre, in ordine sparso, editori piccoli e medi, librerie «di proposta», produzioni cinematografiche e musicali, continuavano a proliferare, a nascere e morire in gran copia. Intanto la vita grama si riproduceva senza particolari scosse, i grandi gruppi continuavano a fondersi e ristrutturare il mercato a propria immagine e somiglianza e la «bibliodiversità» a conservarsi nella sua orgogliosa clandestinità. 
Converrà allora porsi qualche domanda priva di tatto su quella rivendicazione di indipendenza senza aggettivi che per tanto tempo abbiamo considerato una qualità morale autosufficiente, un certificato di qualità senz’altri requisiti. Un principio di legittimazione ad uso di piccoli e medi narcisismi. Un certificato di identità a costo ridotto e alla portata di tutti. Ignoriamo forse come le piccole imprese editoriali possano spesso essere un gioco, talvolta un capriccio, geloso delle proprie fisime e prigioniero dei propri umori? Certo queste qualità così infantili possono favorire la sperimentazione, l’azzardo, l’inconsueto. E questo è un pregio. Ma anche la stonatura, la mediocrità, l’approssimazione, perfino l’autismo. E questo è senza dubbio un inconveniente. 
Che esista un’equivalenza garantita tra editoria indipendente ed editoria «di qualità» è una credenza infondata e autoconsolatoria. In tutta indipendenza si può scegliere di imitare in sedicesimo le più banali scelte orientate al mercato o fare anche di peggio. Di contro, le grandi dimensioni e le grandi risorse non costituiscono un impedimento assoluto alla scoperta, all’innovazione, all’eccellenza del risultato. Seppure il modesto spessore culturale dei manager che attualmente governano le concentrazioni editoriali lo rendano assai raro se non improbabile. Ma volendo prendere seriamente atto di questi limiti ed esaminare senza infingimenti le peripezie dell’indipendenza, allora non potremo esimerci dal porre una semplice domanda: indipendenti da cosa e per fare che cosa? Non basta sottrarsi ai cartelli editoriali, non basta non dover rispondere a un padrone o a una assemblea di azionisti, nemmeno collocarsi, più o meno concretamente, al di fuori da quella che una volta veniva chiamata «industria culturale». Bisogna combatterla. Destrutturarne i meccanismi, disturbarne le abitudini, scompaginarne l’agenda. E questo non lo si può fare rinchiudendosi in un cenacolo che si ciba della propria squisitezza. Non lo si consegue mettendo in scena uno stucchevole exemplum virtutis e men che meno crogiolandosi nella condizione operosamente sobria del lavoro artigiano nelle sue innumerevoli botteghe. L’indipendenza dalle contraddizioni e dai conflitti che lacerano la società non è che un esercizio narcisistico privo di qualunque interesse. Che cosa farsene di un’autonomia incapace di sviluppare discorso critico? Di non stare solo fuori, ma di essere anche contro? Di parlare a chi non ha fatto pace con «lo stato di cose esistente»? L’indipendenza costituisce la condizione di un progetto, non ancora il progetto stesso. 
La possibilità di scegliere non sostituisce l’oggetto della scelta. È di questo, semmai, della capacità di sovvertire il senso comune, di alterare l’ordine del discorso, di deviare dalle regole e dalle consuetudini, di svelare ciò che è celato, che ci interessa parlare. Questo uso dell’indipendenza vanta, del resto, esempi illustri, ma che purtroppo oggi non possiamo che definire «storici». Esperienze nate e cresciute in altri tempi e con altre comunità di lettori: la Feltrinelli di Giangiacomo e le sue prime librerie, la Einaudi di Giulio dal dopoguerra agli anni ’80. Una serie ininterrotta di «scoperte» che rispondevano tempestivamente alla domanda di una società in rapida trasformazione. Case editrici che costruirono la cultura critica italiana in quegli anni contro l’assetto dominante dei poteri e dei saperi. Non possiamo, beninteso, concederci nostalgie. Il posto privilegiato che la carta stampata occupava nel mondo è acqua passata così come l’intensità del conflitto sociale. Oggi il passaggio dall’autonomia all’antagonismo si articola su una pluralità di strumenti comunicativi (tra i quali il libro non è affatto scomparso) che interagiscono a diversi livelli. Ma è un passaggio che continua a «dipendere» dalle inquietudini di un mondo in subbuglio e dalla sua domanda di cambiamento. Ben venga, allora, una combattiva «editoria dipendente».


Il campo della rendita editoriale 
EDITORIA INDIPENDENTE E «BELLISSIMA». La concentrazione risponde alla crisi del libro. Ma così facendo si distrugge la bibliodiversità, creando vuoti nella offerta culturale che gli «indipendenti» potrebbero facilmente occupare

Benedetto Vecchi Alias Manifesto 19.3.2016, 0:04 
Aumento dei costi di produzione, diminuzione delle vendite su base nazionale e presenza ormai di un mercato globale che fa schizzare alle stelle la concorrenza. Sono i due fattori usati per spiegare le concentrazioni monopolistiche nelle economie capitalistiche. E questo non vale solo per l’acciaio o le automobili, ma anche per la telefonia, l’informatica, la farmaceutica. E per l’editoria. Sono infatti due decenni che a livello mondiale vi è un susseguirsi di notizie di gruppi editoriali che acquistano, si fondono con antichi concorrenti «locali» o con case editrici al di fuori dei confini nazionali. Se questo è evidente in Germania, Inghilterra, Stati Uniti, Spagna e, in misura minore, grazie alle politiche statali di sostegno al settore, Francia, in Italia, la concentrazione monopolistica ha subito una repentina accelerazione. Ha iniziato, in punta di piedi, il gruppo Mauri Spagnol, all’interno di uno modello che manteneva, ridefinendolo, il profilo editoriale dei differenti marchi. Una organizzazione «complessiva» che ha fatto diventare il gruppo una «testa di serie» dell’industria editoriale, facendo leva su una forte differenziazione dell’offerta editoriale, al fine di «catturare» pubblici diversi. Dunque un approccio non «generalista» che ha funzionato. 
Dal canto loro altri gruppi editoriali hanno acquisito marchi storici, ma mantenendo inalterati strutture, decisioni e centri di produzione. Tutto ciò per evitare un altro «scandalo» simile a quello rappresentato dall’acquisizione di Einaudi da parte di un gruppo finanziario sul quale si stagliava l’ombra inquietante di Silvio Berlusconi. Movimenti carsici, tuttavia, niente di tellurico fino all’annuncio di acquisizione del gruppo Rcs libri da parte di Mondadori. Per questa operazione vale il vecchio adagio della quantità che si trasforma in perdita di qualità. Per la prima volta in Italia si è parlato di monopolio, e di cancellazione della bibliodiversità. Di rischi per la democrazia. Un crescendo di prese di posizione culminate dall’abbandono di Elisabetta Sgarbi di Bompiani, che ha fondato la nuova casa editrice «La nave di Teseo» insieme ad autori «pesanti» della stessa Bompiani. Dal canto loro i nuovi padroni – Mondadori – hanno fatto di tutto per rassicurare che nulla sarebbe cambiato. 
L’autonomia di Bompiani non è mai stata in discussione, hanno mandato a dire. Sta di fatto che l’Authority per la concorrenza ha aperto un fascicolo sulla nascita del nuovo gruppo editoriale, chiamato Mondazzoli, quasi fosse un terrificante animale della mitologia. L’intervento dell’Authority era un fatto dovuto, hanno mandato a dire i custodi delle regole della concorrenza, anche se il primo comunicato che hanno diffuso per comunicare che si prendevano più di un mese per studiare l’affaire non lascia molti dubbi. Che si tratti di una posizione monopolistica in molti settori, dal libro cartaceo all’e-book alla distribuzione, l’istituto sulla concorrenza non ha molti dubbi. Ed è stato forse per questo che da Mondadori-Rizzoli sono filtrate voci sulla rinuncia a Marsilio e a Bompiani, da mettere in vendita a chi può tutelare il buon nome dei due marchi. E se per la casa editrice veneziana, il nome più accreditato è stato Cesare De Michelis, per Bompiani il nome ricorrente era proprio Elisabetta Sgarbi. A confermare questi boatos ci ha pensato proprio l’amministratore delegato di Mondadori Ernesto Mauri negli stessi giorni del lutto che ha colpito la cultura italiana per la morte di Umberto Eco. 
L’authority continua a mantenere il riserbo, ma c’è da scommettere che, se Mondadori cederà Marsilio e Bompiani, l’esito della procedura sarà favorevole all’acquisto di Rcs libri da parte di Mondadori. Questo non fermerà sicuramente la concentrazione monopolista; la cessione di Marsilio e Bompiani sarebbe infatti solo un «cadeau» per chi guarda criticamente alla riduzione della bibliodiversità. Al di là di come andrà a finire, «Mondazzoli» spazzerà via quel virtuoso (per le grandi case editrice) dispositivo che assegnava agli indipendenti lo scouting di nuovi autori, che una volta superata una soglia minima di vendite con i «minori» sarebbero entrati nell’orbita delle «major». Il monopolio nell’industria editoriale non tollera infatti che qualcosa possa accadere al di fuori del «campo» recintato con diritti di proprietà intellettuale, concentrazione della distribuzione e delle vendite. Vuol vivere di rendita. Ma così facendo non ferma l’emorragia di vendite. Si crea un vuoto di iniziativa editoriale. Sarebbe il caso che gli «indipendenti» lo occupassero, mettendo tra parentesi angusti interessi di «bottega».


Editoria indipendente? «Bellissima» e disobbediente 

EDITORIA INDIPENDENTE E «BELLISSIMA». Libri, incontri, atelier e workshop gratuiti. Oggi appuntamenti con lo scrittore Serge Quadruppani e l’irriverente Zerocalcare

Alessandra Pigliaru Alias Manifesto 19.3.2016, 0:06 
Nella elegante sede del Palazzo del ghiaccio a Milano, si è aperta ieri Bellissima – Fiera di libri e cultura indipendente. L’iniziativa che prosegue fino a domenica, con il patrocinio del Comune di Milano, è organizzata dalla cooperativa Doc(k)s – Strategie di indipendenza culturale. Dal grande successo di Book Pride, che ha avuto luogo nello stesso capoluogo lombardo l’anno scorso, Bellissima si sposta per rappresentare un’esperienza che dia conto di un confronto critico sui temi che percorrono l’intero mondo della cultura «non allineata» e che possa porsi non solo come una mera occasione di categoria. Non conforme quindi, anche a uno standard che immaginerebbe un progetto simile unicamente di sostegno ai piccoli editori, Bellissima desidera nei fatti e nel titolo stare sulla scena come eccedenza, superlativo sensibile all’imprevisto e al tempo e che veicola certo presentazioni e novità librarie ma non si muove solo attorno al mercato editoriale; piuttosto possa rappresentare il processo di partecipazione e cooperazione del lavoro culturale.
Sul filo di «urgenza e pazienza», due elementi che risuonano nel programma che si prefigge Doc(k)s, Bellissima è luogo di attraversamenti che aprono a differenti forme della scrittura per forare e raccontare, tagliare e ricucire le nuove fisionomie del libro, della lettura e dell’enorme lavoro che viene portato avanti da progetti apparentemente collaterali eppure cruciali. Appaiono così più chiari i percorsi plurali che si affacciano all’interno della location liberty di Via Piranesi, come cioè si dispongono i molti e le molte ospiti che affolleranno la fiera. Ottimi e numerosi gli editori presenti, da Sellerio a Lindau e Quodlibet, DeriveApprodi, Johan&Levi e Contrasto. Notevole la sezione a cura della berlinese ArchiveBooks dedicata a esperienze editoriali internazionali che non sono distribuite in Italia o che semplicemente sono di difficile accesso, come Spector Books (Lipsia), Sternberg Press, b_books ed Errant Bodies (Berlino), Valiz (Amsterdam), Occasional Papers, Bedford Press, AA Publications e Mute (Londra).
Dopo il riscontro degli incontri di ieri con l’attesissimo Frédéric Martel che, in seguito alla sua inchiesta sulle reti, ha parlato del futuro dell’editoria nell’epoca digitale, oggi sarà la volta dell’appuntamento con Marco Frullanti, autore del libro Il futuro degli ebook per le edizioni Nativi Digitali e della presentazione di Antropologie digitali del collettivo Ippolita (Jaka Book) introdotto da Marco Liberatore.
Raccolte di ulteriori mappe del presente sono gli incontri con Giorgio De Finis, curatore del volume Exploit. Come rovesciare il mondo ad arte (edizioni Bordeaux), discusso da Nicolas Martino, Massimo Mazzone e Andrea Facchi, ma anche L’anima al lavoro, per DeriveApprodi, di Franco Berardi Bifo in discussione con Ilaria Bussoni e Cristina Morini. Non potevano mancare infatti alcuni incontri sul lavoro e l’economia, in seguito all’incontro di ieri con Roberto Ciccarelli e Giuseppe Allegri a partire dal libro Il quinto stato, oggi è la volta della discussione intorno alla Carta dei diritti e dei principi del lavoro autonomo e indipendente a cura della Coalizione 27 febbraio, insieme al dibattito di domenica sulle alternative alla sharing economy condotto, tra gli altri, da Tiziana Terranova e Trebor Scholz. Ulteriore focus è dedicato alla relazione tra romanzo e mercato, a cura di Nanni Balestrini con la partecipazione di Aldo Nove, Paolo Fabbri, Daniele Giglioli e Angelo Guglielmi.
Attenzione per la filosofia, la narrativa, la musica e la psicoanalisi – un pomeriggio intero verrà dedicato domani alla figura di Elvio Fachinelli – spazio interessante verrà dato anche alla fotografia. Se ieri Maysa Moroni è stata seguita con interesse per il suo racconto esperienziale di lavoro come photo-editor, oggi spicca la conversazione sulla fotografia tra Tano D’Amico e Uliano Lucas. Una riflessione sulla connotazione e il ripensamento degli spazi, da quelli geopolitici sull’Europa agli urbani attraverso l’arte pubblica e le pratiche sociali, fino alle forme e i modelli delle stesse kermesse culturali.
Altri appuntamenti ridisegnano ulteriori cartografie critiche, come quello su archivi e documentari nell’arte contemporanea, a cura di Marco Scotini, Elena Volpato, Carlos Prieto del Campo e Paolo Caffoni in occasione della pubblicazione in inglese per la casa editrice Archive Books del volume Politics of Memory.
Ed è proprio questo l’augurio da porgere a Bellissima nel giorno della sua nascita: saper tessere memoria e realtà, ancora. E farsi grande. 

SCHEDA 1: 
Moroni, Bianciardi e Fachinelli. Esistenze indipendenti a «Bellissima» 
L’indipendenza degli intellettuali è il mantra che ha accompagna la discussione sul rapporto tra produzione e industria culturale. Theodor W. Adorno ne rivendica l’autonomia non solo per segnare la distanza dai processi di mercificazione, ma anche e soprattutto per indicare la strada che un pensiero critico deve percorrere in una realtà che tende a cancellare ogni possibile alterità rispetto lo spirito del tempo. In tempi più recenti, è stato un altro intellettuale che ha auspicato l’indipendenza come tratto distintivo della produzione culturale dopo l’eclissi di quella figura importante che è stato il gramsciano «intellettuale organico». Nella fiera dell’editoria indipendente in corso a Milano, sono state scelte tre figure per qualificare uno stile dell’enunciazione della critica allo status quo in tempi di trasformazione dell’operatore culturale in forza-lavoro. Il primo non poteva essere che Primo Moroni, l’eclettico intellettuale che dagli anni Sessanta alla sua morte ha rappresentato una figura cardine nello sviluppo dei movimenti sociali di Milano. Lo hanno ricordato venerdì Sergio Bologna e Giaro Daghini. Sabato, invece, sarà la volta di Luciano Bianciardi (ne ripercorreranno la sua «vita agra» di indisciplinato lavoratore culturale Arnoldo Bruni e Beppe Sebaste). E domenica, invece, sarà la volta di Elvio Fachinelli, psicoanalista animatore dell’«Erba Voglio». Su di lui interverranno Giuditta Fachinelli, Romano Madera, Luisa Muraro, Massimo Recalcati e Pier Aldo Rovatti. (Ben Olds) 

SCHEDA 2: 

Il lungo Sessantotto italiano. Un palazzo di ghiaccio per Toni Negri 

Il lungo Sessantotto italiano. È il titolo scelto per la presentazione del libro di Toni Negri «Storia di un comunista» (Ponte alle Grazie) alla fiera dell’editoria indipendente di Milano. L’appuntamento è per le 16 al Palazzo del Ghiaccio. L’incontro avrà la forma della conversazione tra Gad Lerner, Toni Negri e Girolamo De Michele, che nel libro ha condotto il mare in tempesta dei racconti dell’intellettuale padovano nel porto di una autobiografia che intervalla percorso filosofico e narrazione della sua partecipazione a Potere Operaio prima e l’autonomia operaia dopo. Il volume non nasconde l’ambizione di restituire il percorso di una parte della generazione del Sessantotto variamente qualificata come «operaista». E nel volume, infatti, una parte rilevante è occupata dalla ricostruzione della discussione dentro la redazione dei «Quaderni Rossi» prima e di «Classe operaia» poi. Un volume che offre uno spaccato di un’Italia in rivolta, dove la condizione necessaria per fare l’intellettuale era la partecipazione alle lotte operaie e sociali. Negri ricostruisce passaggi, intuizioni, percorsi teorici, considerando il Sessantotto e il Settantasette come due movimenti che hanno visto l’irruzione dell’operaio- massa sulla scena politica, ma anche il suo declino. Ed è proprio il Settantasette che è considerato da Negri come il movimento che annuncia l’entrata in scena di una nuova figura produttiva che mette in campo saperi, conoscenza, affetti come mezzi di produzione. (Ben Olds) 
SCHEDA 3: 

La Signora del cinema 

Oggi alle 18.15, all’interno della fiera «Bellissima», una conversazione a cura di Eugenio Cappuccio per ascoltare Liliana Cavani a partire da un argomento che da sempre ha contraddistinto la sua pratica cinematografica: la libertà. E proprio all’insegna di quest’ultima si apre anche «I cannibali» che verrà proiettato alle 21.40 al cinema Beltrame. Rivisitazione dell’Antigone sofoclea, il film del 1969 è ambientato in una Milano algida, indifferente e onirica che cammina tra i cadaveri di una rivolta giovanile. La Antigone di Cavani non sta alle regole di uno Stato orwelliano e capitalista e decide di seppellire il proprio fratello. Verrà catturata, torturata e in seguito uccisa dalle forze dell’ordine ma diventerà esempio per una comunità intera che ne imiterà le intenzioni e ne testimonierà l’impegno. (Ale. Pi.)


Vita da freelance, molta condivisione, pochi diritti 
EDITORIA INDIPENDENTE E «BELLISSIMA». Si diffonde il business fondato sulla collaborazione. E crescono esperienze ispirate al modello delle antiche società di mutuo soccorso

Roberto Ciccarelli Alias Manifesto 19.3.2016, 0:02 
Walter White, l’insegnante di chimica di scuola superiore protagonista di «Breaking Bad», trova una soluzione alla necessità di pagarsi i conti per curare il cancro al polmone che lo ha colpito a cinquant’anni: sfrutta le sue conoscenze chimiche per sintetizzare metanfetamina purissima. I nuovi guadagni possono garantire un futuro alla figlia e alla moglie, dopo la sua morte. La chiave dell’intreccio di questa serie di successo si spiega anche con il fatto che la maggior parte del ceto medio, lavoratori dipendenti o autonomi, del mondo occidentale si è identificato nella situazione del cittadino indebitato e del lavoratore povero. Allargando il campo, questa è la situazione in cui si trova oggi molti di coloro che svolgono un’attività nell’economia collaborativa e della condivisione (sharing economy). 
In mancanza di un reddito dignitoso dalle attività lavorative «normali», i nuovi poveri possono affittare i loro beni – una stanza con Airbnb, la macchina per fare i tassisti con Uber, vendere i libri dei genitori su Amazon – o condividere le eccedenze alimentari della grande distribuzione su piattaforme «food share» come Leftoverswap. È l’immagine del futuro nella società della stagnazione secolare e dei bassi redditi: da una parte la società dell’1%, dall’altra parte una popolazione che vive con reddito da 5 o 10 mila euro annui (lordi) o sopravvive con i voucher o il lavoro nero. In questa nuova distopia il lavoro retribuito non sembra avere cittadinanza, se non come attività anonima, meramente accessoria, senza valore, al limite gratuito. Questo scenario vale ancor di più per quello intellettuale, come l’editoria, la ricerca o il giornalismo. Settori dove si sperimenta con violenza la gratuità del lavoro e la spersonalizzazione. È il «crowdwork»: il lavoro-folla. Il lavoro è indistinto, come il suo soggetto, ha sostenuto il sociologo britannico Guy Standing. 
La Fondazione per gli studi progressisti europei (Feps) sta conducendo con l’università inglese dello Hertfordshire e i sindacati europei Unieuropa un’indagine sul lavoro digitale in Europa. I dati sono impressionanti e ad aprile conosceremo anche quelli che riguardano l’Italia. In Gran Bretagna esistono 5 milioni di persone pagate più o meno regolarmente dalle piattaforme della sharing economy. Tre milioni svolgono le loro attività solo con queste tecnologie in rete. Più di un quarto di queste persone sostiene di guadagnare metà del proprio reddito annuale attraverso gli scambi o le attività professionali online. Il 42% del campione considera le piattaforme come una necessità quotidiana. Parliamo di tassisti, muratori, designers, commercialisti. E poi di studenti, apprendisti, freelance, disoccupati o sotto-occupati. La tecnologia non ha solo modificato alla radice le modalità di lavoro, colonizzando la vita 24 ore su 24 e il sonno. Ha creato qualcosa che, al di là delle parafrasi che di solito si usano nella pubblicistica fiorente e specialistica, è chiamato «capitalismo di piattaforma». 
Un progetto reale di divisione del lavoro digitale e salariato, mentre la vita si adatta plasticamente al ritmo, allo stile «social» e ai nuovi criteri di produttività. L’emersione prorompente di questa realtà – esemplificata dalle prassi diffuse su facebook – ha provocato in tutto il mondo una spinta verso la ricerca di un altro modo di vita. Dentro e contro la nuova economia, per parafrasare un motto post-operaista. 
Uno dei riferimenti di questo dibattito è Trebor Scholz, che interverrà a Bellissima Fiera domenica 20 marzo alle 11 in una discussione con Tiziana Terranova. Sholz ha proposto la definizione di «cooperazione di piattaforma» (Platform cooperativism). È l’evocazione di una coalizione tra «designer, lavoratori, artisti, cooperative, sviluppatori, nuovi sindacati, avvocati del lavoro – scrive – che possono cambiare la struttura dall’interno e permettere a tutti di godere dei frutti del loro lavoro». Alcuni esempi: Fairmondo, l’altra Amazon in Germania: duemila soci uniti nella ricerca di un’alternativa cooperativa all’e-commerce. Member’s Media, Stocksy o Resonate, cooperative dell’immateriale che possiedono le piattaforme sulle quali lavorano. Questa onda riprende il mutualismo storico: la cooperazione e la trasmissione dei saperi, la formazione di un’intelligenza collettiva, competenze e inventività, oltre alla difesa del reddito e la sua creazione. Le nuove esperienze di auto-organizzazione sindacale, come la Freelancers Union o le battaglie per l’aumento del salario minimo (FightFor15) negli Usa nascono da questa sensibilità globale che prende forma anche in Italia in esperienze come quella della coalizione 27 febbraio, una prima rete di freelance, liberi professionisti e partite Iva che ha elaborato una carta dei diritti del lavoro indipendente (presentazione sabato alle 11).


Strategie d’attacco per catturare il lettore mutante 
EDITORIA INDIPENDENTE E «BELLISSIMA». Si è potenziata la «general lecture», l’attitudine di una comunità a scambiarsi suggestioni con le modalità favorite dai «social». E gli editori indipendenti possono offrire le loro scoperte

Lanfranco Caminiti Alias Manifesto 19.3.2016, 0:03 
Si dice, di solito, che leggere sia un’esperienza irriducibilmente individuale. Che le condizioni di intimità con il libro e la lettura appartengano a una sfera del tutto personale. Certo, il libro si condivide, se ne parla e se ne chiacchiera con amici e in pubblico, però il presupposto rimane quella relazione intima, fatta anche di un’ambientazione e gesti sempre identici, come volessimo rassicurare noi stessi e l’altro del rapporto, che pure cambia ogni volta promiscuamente – oggi, un breve saggio divulgativo sulla fisica, domani, un romanzo francese dell’ottocento, dopodomani, un thriller del nord Europa. 
Eppure, questa idea «borghese» della lettura non è sempre stata vigente. La lettura, anzi, era un atto pubblico, fondato sull’ascolto. Era un gesto di religiosità, partecipe della fondazione e del rinnovo di senso di una comunità. Le comunità religiose erano anche comunità di lettura. Tanto più zelanti, quanto più legate alla lettura. Più che oranti, leggenti.
Qualcosa di «sacro» lo si può ritrovare ancora oggi, partecipando a un reading o a un festival. I festival si sono sempre più assoggettati a operazioni di mercato: non che questo sia un male assoluto; spesso lo si fa con sciatteria, con noncuranza uguale alla baldanza. Eppure, in quella folla di astanti che ascolta leggere con sapienza un passo di un libro che magari conosce benissimo, forse sarebbe in grado di ripeterlo, le labbra si muovono da sole, e che poi sente l’autore – è venuto lì per quello – parlarne, spiegare, c’è sempre qualcosa che va oltre l’immediatezza spiccia della cosa. Si va officiando la lettura, dinanzi la comunità dei lettori. 
La comunità dei lettori non è un fenomeno nuovo, ma qualcosa che è sempre esistita insieme al libro e si è evoluta insieme a esso, e ai modi, alle tecnologie e ai tempi della lettura. Dickens e Balzac pubblicavano a puntate i loro romanzi sui giornali: ogni settimana scrivevano un capitolo. A grandi linee avevano in mente una ambientazione e una trama e un pugno di personaggi, ma la complessità dei sentimenti, le sfaccettature dei caratteri, gli intrecci delle storie e delle vite, si evolvevano settimana per settimana. Non solo secondo il proprio talento e mestiere, la fretta di produrre e il bisogno di denari, ma anche secondo l’accoglienza, la ricezione della loro scrittura presso il pubblico dei lettori. Le traiettorie di alcuni personaggi virarono proprio perché il pubblico si affezionò a loro o li detestò, segnandone il destino romanzesco. 
Si può, perciò, avanzare e azzardare un pensiero e un’ipotesi di lavoro. Guardare alla crisi e alla trasformazione del mercato editoriale, delle librerie, degli editori, con il declino e la concentrazione dei grandi marchi, dal punto di osservazione di quel fenomeno straordinario che possiamo chiamare l’indipendenza del lettore; o anche, con diversa nominazione, l’autonomia della lettura. La lettura mantiene ancora tratti di una irriducibile esperienza individuale, è vero. Quello che si è potenziato però è la comunità dei lettori, il popolo dei libri. In una sorta di general lecture, di lettura collettiva. È questa general lecture, la straordinaria produzione di recensioni, commenti, passaparola, suggestioni, suggerimenti, opinioni, che poi ritrovo nella mia scelta, nella mia decisione di leggere un libro, di rischiare quella lettura, di condividerla. Di restituirla. Una sorta – come dirlo altrimenti – di Reader’s Digest Universale, dove la traduzione letterale aiuta: ciò che il lettore ha digerito. E smaltito. È questo un fenomeno nuovo, mai visto, favorito dalle tecnologie, dall’innumerevole e straordinario mondo di blog di letture. Si è modificato il lettore, attraverso la lettura. In La passione per l’assoluto, il grande critico George Steiner mostra tristezza e incomprensione per quei giovani dei college americani che leggono libri ascoltando la musica e distraendosi con internet e chissà quali altre «diavolerie»: secondo lui, è impossibile leggere bene, se non concentrandosi assolutamente su una «lettura ben fatta». Però, siamo di fronte a nuovi soggetti mutanti, a un lettore mutante. Se è vero che si riduce la soglia di attenzione verso il libro – e, di conseguenza, il numero di pagine lette, di libri necessari –, si è spalmato verso altri oggetti e veicoli e strumenti il desiderio di conoscenza. Si è modificato anche tecnologicamente il lettore, ben più di quanto si sia modificato il libro. Va riducendosi la centralità del libro, va aumentando la pratica della lettura. 
Magari sotto altre forme. Nessuno sa cosa accadrà del libro: aumenterà il fenomeno della sua scarsità, in un universo distopico alla Mad Max? Per intanto, il lettore mutante ha bisogno di leggere. Non basta il catalogo che ognuno porta con sé: senza aggiornamento, senza ricombinazione, non c’è creatività e inventiva, non ci sono nuove parole e nuove espressioni di sentimenti, nuove descrizioni di immaginario. Non si può essere messi al lavoro, non si può fuggirne. Questa indipendenza del lettore è uno straordinario desiderio di libertà e autonomia. 
Ora, tale indipendenza non ha una forma sindacale, non è il Sindacato dei lettori. È invece un campo di battaglia, dove si convive e si confligge, capitalismo dei contenuti, piccola editoria, vecchi e nuovi librai, megastore, blockbuster e piccole tirature, censure preventive e libertà, libri di nicchia e mucchi di copie fino al soffitto. Si può credere che la comunità dei lettori, la general lecture, chieda agli editori indipendenti di fare esattamente quello che già fanno, piccole scoperte e riscoperte, collane curiose. Quelle cose che la grande editoria, il capitale dei contenuti non fa più, perché è diventato pigro e speculativo. Purché l’essere «piccoli editori» non sia preso come incarico di identità, come un processo identitario. I processi identitari sono contrari alla buona narrativa, non saprei come altro dirlo. 
Questa autonomia, questa indipendenza del lettore non è un fenomeno lineare. Per un verso va controcorrente, per un altro segue la corrente, le indicazioni del mercato. A volte, si passano a fianco la «piccola lettura» di un gran libro, e la «grande lettura» di un piccolo libro. Spostare lo sguardo dal libro, dalla sua filiera produttiva al lettore può essere una chiave di interpretazione e di invenzione del «che fare». Il libro è una festa per il lettore. È su questo punto che dobbiamo inventare e agire: cosa può voler dire incrociare l’editoria indipendente e il lettore indipendente, l’editoria mutante e il lettore mutante?
Rimane, al centro di tutto, il libro. E senza buoni libri, che si può fare?


Gli artigiani della qualità entrano nelle «industrie creative» 
EDITORIA INDIPENDENTE E «BELLISSIMA». Le figure emergenti del mercato del lavoro degli «immateriali»

Massimo Citarella Alias Manifesto 19.3.2016, 0:01 
Il pensiero economico dominante afferma che le nuove tecnologie hanno permesso di ribaltare un vecchio sistema imprenditoriale fordista, ponendo l’«individuo-consumatore» al centro di ogni scelta strategica. Per quanto riguarda la cosiddetta economia della conoscenza, produrre idee è la base per lo sviluppo di ricchezze immateriali, gli intagible assets, incentrate sull’autostentamento e sulla possibilità di crescita e di espansione. Cultura e creatività sono i cardini della conoscenza, in grado di valorizzare le energie, le idee, i talenti, puntando sulle nuove generazioni e su un know-how specialistico basato sulle competenze informatiche e tecnologiche.Seguendo questa concezione dell’attività economica, La Fondazione Symbola e Unioncamere, in una ricerca quantitativa, hanno individuato una serie di nuove professioni creative e culturali, quelle figure intellettuali scientifico-tecnologico sia del mondo dell’Ict che di quello più «tradizionale». Secondo questo rapporto nel 2015 sono quasi 106.000 le assunzioni programmate dalle imprese dell’industria e dei servizi di figure professionali creative e culturali, pari a circa il 15% delle 700.000 complessive censite dall’Istat. Ma quale figura viene maggiormente richiesta? 
I cuochi, Nel 2015 ne sono stati assunti 24.240. Il secondo posto va ai tecnici delle vendite e della distribuzione (10.170), a seguire gli analisti e progettisti di software (8.050) e disegnatori industriali e professioni assimiliate (4.470). Il numero dei tecnici del marketing arriva alle 3.800 assunzioni, mentre sale anche quello dei tecnici programmatori che si assesta intorno alle 2.900. Rientrano in questo ambito anche pittori, scultori, disegnatori e decoratori con 2.700, mentre i falegnami sono circa 1.800 e infine i sarti raggiungono 1.700 nuovi posti di lavoro. Il mondo della cinematografia nel 2015 ha raggiunto 1.400 nuove richieste di registi, direttori artistici, attori e sceneggiatori, in più 1.300 figure relativi ai macchinisti e attrezzisti di scena. Invece nel settore artigianale tra le professioni più richieste nel 2015 figurano i falegnami dell’edilizia con 3.400 assunzioni. Nulla che vedere dunque con il mondo patinato dipinto dai cultori delle industri creative. In ogni caso, va sottolineato il fatto che oggigiorno per aumentare le possibilità di ingresso nel mercato del lavoro dei «creativi» come in quello tradizionale è necessario sviluppare tutta una serie di competenze trasversali, di natura attitudinale, che completano le competenze acquisite nel periodo dell’istruzione in grado di poter apportare un valore aggiunto al team lavorativo o al processo produttivo. Quindi «muoversi su più campi» sembra essere una chiave di lettura fondamentale per poter lavorare in ambiti sempre più internazionalizzati e multidisciplinari.
Le imprese, dal canto loro, richiedono capacità di lavorare in gruppo (39%), la capacità di lavorare in autonomia (33,8%), flessibilità e adattamento (32%), la capacità di risolvere problemi (31,9%) e la capacità comunicativa scritta e orale (27,8%). Un altro aspetto decisivo è rappresentato dalle competenze digitali e informatiche, infatti per l’11,7% dei casi diventa una componente imprescindibile per potenziare gli affari di una azienda. Il complesso delle professioni creative e culturali fa emergere un aspetto particolare legato al riconoscimento dell’importanza di ogni singola competenza analizzata ben superiore rispetto ai casi delle altre professioni. Ciò indica un atteggiamento più «esigente» per queste figure professionali, chiamati a svolgere funzioni spesso altamente specializzate in sinergia con l’intero processo ideativo e produttivo.
Infine fanno parte di questo articolato insieme i produttori di beni altamente originali frutto di una manifattura artigianale-artistica, tra i quali sono presenti i soffiatori, modellatori e levigatori del vetro, gli artigiani addetti alla lavorazione artistica del legno o dei tessuti, i decoratori di vetro e ceramica, i marmisti, gli orafi e i pastai artigianali. Per tutte queste figure professionali artigianali, le imprese riservano in generale meno attenzione ai giovani, puntando invece su profili che hanno maggiore esperienza di lavoro. Ciò dovuto al fatto che molte di quelle competenze fondamentali sono acquisibili solo sul posto di lavoro. La contraddizione che si evince tra giovani lavoratori e esperienza richiesta, viene superata in Italia grazie al potenziamento di percorsi formativi post secondari, come gli Istituti Tecnici Superiori, volti all’apprendimento di competenza esperenziali acquisibili attraverso percorsi alternativi scuola-lavoro.

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