giovedì 3 marzo 2016

Il marito di Bianca Berlinguer e altri si contorcono pur di non dire che Vendola è stronzo

I diritti dei bambini innanzitutto 
Adozioni. Demandare a un’interpretazione, come tale soggettiva e mutevole, la sorte di un bambino e dei suoi affetti è un’abdicazione del diritto alla sua funzione di tutela dei soggetti più deboli

Luigi Manconi Manifesto 3.3.2016, 23:58 
Non deve stupire che la questione della gestazione per altri susciti — al di là delle strumentalizzazioni più indecenti e delle banalizzazioni più sordide — una così intensa discussione pubblica. Il tema solleva, e non potrebbe essere altrimenti, dilemmi etici che rimandano alla sensibilità più profonda di ognuno. Dunque non sorprende tanta passione nel discuterne: semmai scandalizza un po’ tanta superficialità e assenza di delicatezza e di capacità e volontà di comprendere. Partiamo, ancora, da quello stralcio sull’articolo 5 sulle adozioni che ha reso monca una normativa, pur importante e positiva, quale quella che ha finalmente portato al riconoscimento delle unioni civili. 
Ciò che abbiamo contestato è che in una legge a vocazione anti-discriminatoria si introducesse un dispositivo di sperequazione. Non solo e non tanto tra persone eterosessuali e persone omosessuali, bensì tra bambini destinati a essere adottati da coppie eterosessuali e bambini destinati a essere adottati da coppie omosessuali. Il loro superiore interesse, che — come afferma la giurisprudenza — non è legato alla forma del gruppo familiare in cui è inserito, ma alla qualità delle relazioni che vi si instaurano dipenderà, in questo modo, dall’orientamento giurisprudenziale che il giudice di volta in volta seguirà. 
Demandare a un’interpretazione, come tale soggettiva e mutevole, la sorte di un bambino e dei suoi affetti è un’abdicazione del diritto alla sua funzione di tutela dei soggetti più deboli. Che impone, in questi casi, di scegliere l’adottante non in ragione del suo orientamento sessuale, ma dell’idoneità a svolgere la funzione genitoriale; e in funzione della qualità del legame stabilito con il bambino. Per questo trovo paradossale la proposta, avanzata in questi giorni, di vietare l’adozione del figlio nato da gestazione per altri. Se il fine è evitare lo sfruttamento della donna gestante, altre sono le strade da seguire: non certo privare il bambino del suo genitore (sia pur «sociale»), trasformando così un diritto fondamentale nel suo opposto: un divieto e facendo ricadere sui figli «le colpe dei padri». La Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia proprio per aver sottratto il bambino alla coppia che lo aveva «concepito» con gestazione per altri, negando che il concetto di ordine pubblico (incompatibile, secondo alcuni, con la maternità surrogata) possa essere interpretato in contrasto con il diritto del bambino a vivere con chi lo abbia voluto come figlio. 
Ma escludiamo per un attimo ciò che, evidentemente fa più problema (il mercimonio del corpo femminile) e consideriamo l’ipotesi di una gestazione surrogata motivata da ragioni altruistiche. In linea generale, non si potrebbe vietarla in nome del diritto del figlio alla coincidenza tra genitorialità biologica e sociale, dal momento che la Consulta ha già chiarito che l’affinità genetica non costituisce presupposto indefettibile di famiglia. Siamo certi, infatti, che l’interesse alla coincidenza tra genitorialità biologica e sociale meriti una tutela così forte da prevalere sulla possibilità stessa del figlio di esistere? Privare un bambino di questa possibilità, in nome non tanto del suo diritto alla ricostruzione della propria identità (che si può garantire nel rispetto degli altri diritti in gioco), quanto piuttosto della coincidenza tra identità genetica e identità sociale rischia di ridurre — in una concezione meramente biologista — la persona al suo dna. Non è, forse, questa, un’idea della filiazione eccessivamente naturalistica, che dovremmo invece temperare con una concezione della genitorialità come aspirazione a definirsi mediante la sollecitudine e la cura per l’altro? 
È questa, d’altra parte la sostanza di un’importante sentenza della Corte suprema degli Stati uniti sulle unioni omosessuali. Ma, detto tutto ciò, resta una considerazione di metodo e di merito alla quale tengo in modo particolare: quella che ho appena espresso non è una posizione netta né definitiva. È il mio approccio alla questione e l’inizio di una riflessione, attraversata ancora da perplessità.


LE ADOZIONI E L’INTERESSE DEL BAMBINO 

CHIARA SARACENO Repubblica 3 3 2016 dibattito che si è avviato sulla riforma della legge sull’adozione si mescolano motivazioni e obiettivi diversi. Essi andrebbero esplicitati e tenuti distinti, a partire da una premessa importante: la legge italiana è una buona legge, anzi una delle migliori per quanto riguarda le garanzie che offre nella selezione dei potenziali genitori adottivi e nell’abbinamento tra questi e il bambino da adottare. Certo, le procedure sono lunghe e spesso sono rese ancora più lunghe dal ritardo — per negligenza, o più spesso per sovraccarico del personale interessato — con cui vengono effettuati i singoli passaggi.
Gli assistenti sociali e gli psicologi che svolgono i colloqui possono essere più o meno simpatici e preparati. Ma in generale l’obiettivo è garantire che gli aspiranti genitori adottivi siano consapevoli delle difficoltà che incontreranno con i figli adottivi, in parte simili, ma in parte specifiche. Nessun fai da te lasciato alla libera iniziativa di aspiranti genitori adottivi e agenzie private, come avviene, ad esempio, negli Stati Uniti. Perché, nonostante ogni fantasia di “nuova nascita”, i figli adottivi e i loro genitori dovranno sempre fare i conti con il perché di questa seconda nascita. Anzi, se c’è un limite nella attuale legge sull’adozione, è che l’adozione non viene accompagnata abbastanza dopo, non solo prima, essere avvenuta.
Un secondo limite, a mio parere, è la limitazione dell’adozione legittimante alle coppie (di sesso diverso) sposate, con l’esclusione dei conviventi, dei single e delle coppie dello stesso sesso. Se un tempo questa restrizione poteva avere un fondamento nel fatto che si riferiva alla modalità prevalente di essere genitori, oggi non è più così. Anche chi si sposa e ha figli, anche adottivi, può divorziare. Anche chi convive ha rapporti duraturi ed ha figli. Molti genitori, per lo più madri, tirano su i figli da soli. Ciò che interessa è la capacità genitoriale, che non è né garantita né particolarmente concentrata tra chi si sposa e neppure determinata dall’orientamento sessuale. Proprio l’attenzione e le procedure richieste dall’attuale legge consentono di verificare se ci sia questa capacità, a prescindere dallo
status legale degli aspiranti genitori.
Chi pensa che se ci fossero meno “pastoie burocratiche” ci sarebbero più adozioni nazionali e internazionali è bene che si ricreda. È vero che ci sono molti, troppi, minori in istituto. Ma non tutti sono formalmente adottabili, perché hanno parenti, anche un genitore, anche se non possono tenerli con sé. Occorrerebbe non adottare questi bambini, ma aiutare i loro genitori e parenti ad accoglierli, o favorire l’affido, o ancora una forma di adozione leggera, che non interrompa i rapporti con la famiglia di origine. Altri minori, che sarebbero adottabili, non vengono adottati per mancanza di genitori disponibili. Perché sono troppo grandi, con esperienze negative alle spalle, quindi inevitabilmente più difficili da integrare in una famiglia, o perché disabili. Adottare questi minori richiede una disponibilità e una capacità non comune, oltre che il sostegno di servizi adeguati.
Infine, non va dimenticato che l’adozione internazionale è diventata più difficile non solo perché costosa, ma perché i Paesi sono diventati più attenti e protettivi rispetto ai propri bambini più vulnerabili, privilegiando adozioni o affidamenti autoctoni, che non costringano i bambini ad emigrare per avere una famiglia. Alcuni hanno anche chiuso le porte all’adozione internazionale a genitori di Paesi che consentono l’adozione alle coppie dello stesso sesso. È una scelta che si può discutere, di cui si possono rilevare le contraddizioni con altre norme (la Russia, ad esempio, che è uno di questi Paesi, consente la gestazione per altri, anche stranieri). Ma è una scelta di cui occorre tenere conto. Ad esempio, l’Olanda dei matrimoni dello stesso sesso consente a queste coppie solo l’adozione nazionale, per rispettare le scelte di Paesi culturalmente diversi su questo punto.
In altre parole, l’adozione non è, non può essere, solo l’esito di scelte individuali anche motivate da generosità e disponibilità all’accoglienza. È un processo che avviene in società, regolato da norme insieme culturali e legali, ancorché modificabili per adeguarsi ai mutamenti culturali rispetto a ciò che è una famiglia e a chi può essere genitore. Dove l’interesse prioritario è quello del bambino ad avere il migliore possibile, per lui o lei, contesto di accoglienza e crescita, per quanto imperfetto — come sono tutte le famiglie e tutti i genitori.

Fassina: Perché dico no all’autodeterminazione senza limiti
di Stefano Fassina il manifesto 5.3.16
Ringrazio Bia Sarasini per l’invito, che mi rivolge da queste pagine, alla discussione sulla complessa questione della “gestazione per altri”, della “maternità surrogata”, dell'”utero in affitto”, nel variegato lessico partigiano di ciascuna e ciascuno.
La ringrazio anche per il tono delle sue riflessioni. Discutiamo di una questione generale, astratta dall’affetto per Nichi Vendola, relativa tanto all’universo etero quanto all’universo omosessuale. Anzi, i dati indicano, relativa soprattutto al primo.
Ricordiamolo per non cadere nella trappola tesa dai nostri avversari davanti alla stepchild adoption.
Nel merito, confesso di non ritrovare nell’oggetto del suo commento le mie parole all’Avvenire. Mi attribuisce, forse per riflesso condizionato da antico confronto con le posizioni prevalenti nel Pci, una contrapposizione novecentesca «tra lavoro e mondo dei diritti individuali». Nell’intervista sostengo esattamente l’opposto: «Per ogni uomo e donna i diritti sono un continuum. I diritti civili vanno insieme ai diritti economici, sociali e politici». Dov’è la contrapposizione o la gerarchia? È l’unicità dei diritti che mi porta a sostenere che «non si può essere favorevoli al neo-umanesimo sul terreno del lavoro, del welfare, dell’ecologia e poi accettare il paradigma dell’individualismo liberista sul terreno dei diritti civili». La contrapposizione post-sessantottina la vedo qui.
Nell’intervista sostengo, senza nascondermi per ossequio alla sede, la stepchild adoption. Poi, mi concentro su chi “compra”. Parto da me, maschio, occidentale, acculturato, benestante, di sinistra, potenziale compratore. Provo a discutere su un piano etico.
Bia Sarasini riconduce il mio discorso a un approccio proibizionista. Allora le chiedo: ogni regolazione pubblica delle relazioni tra persone o tra la persona e la natura di cui siamo parte è proibizionismo? È riduttivo per intensità etica, ma prendiamo il rapporto persona-lavoro. È proibizionismo una norma che nel mercato del lavoro vieta di impiegare il corpo di un uomo o di una donna oltre un certo orario giornaliero? Nella logica della autodeterminazione, lasciamo a ogni persona la disponibilità del proprio corpo nella relazione produttiva con l’altro o l’altra? Anche per lei, sono sicuro, la risposta è no.
Perché nelle relazioni tra due persone nel mercato del lavoro vi è un’ ampia differenza di potere. Perché i rapporti di forza sono strutturalmente asimmetrici tra chi vende e chi compra forza lavoro. Certo, vi può essere chi lavora nella logica del dono. Ma allora siamo fuori dalla realtà di mercato.
La tecnologia ha spalancato le porte al potere economico nella dimensione della riproduzione in un quadro economico e sociale segnato da enormi disuguaglianze e diffuse povertà, dove i rapporti di forza tra le persone sono drammaticamente squilibrati.
Consapevole della mia parzialità, senza verità assolute da somministrare, guardo anche io, con i miei occhi, alla realtà: alla donna, alla vita che nasce, al legame di maternità in divenire nella gestazione.
Rifletto come potenziale acquirente, a partire dalla mia condizione di forza in quel mercato così innaturale della vita. Possiamo affidarci esclusivamente al principio di autodeterminazione? Dobbiamo regolare l’attività riproduttiva come un’ordinaria attività produttiva? Il nodo è intricato. Ma la mia mia risposta, qui e ora, è no.
Noi, la sinistra, possiamo avere senso storico e politico fuori da un umanesimo integrale? Possiamo accettare che non vi siano limiti invalicabili all’individualismo proprietario nel mercato della riproduzione? 

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