sabato 5 marzo 2016

La mostra sull'Egitto nel mondo romano a Torino


Inaugurata la prima mostra del nuovo Museo Egizio

Iside, le sfingi, i serpenti e noi Il Nilo scorre tra Torino e Pompei 
5 mar 2016 Corriere della Sera Stefano Bucci 
Il viaggio continua. Neppure un anno dopo la riapertura ufficiale del nuovo Museo Egizio: il più importante del mondo occidentale, secondo solo a quello del Cairo, 773 mila visitatori paganti nel 2015. E continua con una mostra che dopo Torino si spingerà a Pompei e a Napoli. Il Nilo a Pompei. Visioni d’Egitto nel mondo romano (che apre oggi al pubblico) vuole appunto raccontare le tappe della diffusione culturale dall’Egitto in Occidente e in Italia. 
L’esposizione ( curata di Alessia Fassone, Christian Greco e Federico Poole con la collaborazione di Eva Mol) è la prima del nuovo corso dell’Egizio. Ed è stata allestita negli spazi del terzo piano riprogettati dall’architetto Lorenzo Greppi (e dedicati a Khaled AlAsaad, il direttore del sito archeologico di Palmira trucidato dall’Isis): una sequenza, anche cromatica, di stanze che variano dal blu, naturalmente egizio, al rosso, naturalmente pompeiano. Che inizia obbligando il visitatore a camminare su un pavimento-mappa che riproduce il percorso del Grande Nilo. 


« Avevamo promesso un museo in continuo movimento, sempre aperto a nuove sfide, così è stato»: ha detto ieri la presidente del Museo Egizio, Evelina Christillin, che ha sottolineato il valore della «collaborazione fra tre eccellenze come il Museo Egizio, la Soprintendenza di Pompei e il Museo Archeologico di Napoli». Con orgoglio il giovane direttore Christian Greco ha, per parte sua, sottolineato come «questa mostra vuole contribuire a svecchiare quella nostra idea di una cultura egizia immobile e immutabile». All’inaugurazione di ieri erano presenti anche il direttore del Museo Egizio del Cairo, Khaled el-Enany, l’ambasciatore egiziano in Italia, Amr Mostafa Kamal Helmy; il ministro dei beni culturali egiziani Mohamed Gad Eldamaty: da loro nessun a dichiarazione sul caso Regeni, «ma l’intenzione di dimostrare e rinsaldare i legami scientifici tra i due musei». 
Egitto Pompei è il titolo del progetto di cui l’esposizione di Torino rientra. Nove le sezioni che (oltre a soffermarsi sui siti campani di Pozzuoli, Cuma e Benevento) propone opere, per la prima volta, esposte a Torino: come gli affreschi del tempio di Iside a Pompei o della Casa del Bracciale d’Oro. E poi: sfingi greche accanto a quelle egiziane, maschere di mummie egiziane con tanto di bracciali a forma di serpenti, statue di Iside che sembrano Madonne che allattano, la teatrale (e improbabile) Morte di Cleopatra dipinta nell’Ottocento da Achille Ghislenti,le incredibili pitture di una casa pompeiana con vista sul golfo. 
Degli oltre 300 reperti, ben 172 arrivano appunto da altri musei (italiani e stranieri): «Un modo per fare conoscere realtà museali inaspettate» ha sottolineato Greco, «celebrando — secondo il sindaco di Torino Piero Fassino — il patrimonio del nostro Egizio». La seconda tappa del progetto, presentata ieri dal direttore della Soprintendenza Massimo Osanna sarà a Pompei, nella Palestra Grande, il prossimo 16 aprile, con l’esposizione di sette monumentali statue che per la prima volta usciranno dall’Egizio. Il 28 giugno il terzo capitolo: all’Archeologico di Napoli con l’inaugurazione di una nuova sezione del percorso di visita delle collezioni permanenti mentre per l’8 ottobre è (ha spiegato il direttore Paolo Giulierini) la riapertura della collezione egiziana.
Dunque, un progetto globale che vuole celebrare, attraverso le vetrine dell’Egizio di Torino piene di oggetti tra loro lontanissimi, la bellezza della contaminazione.      

Nel segno di Iside l'incontro delle civiltà
Busiarda 5 3 2016
Certo, a vedere quelle statuette con una giovane donna che allatta il figlioletto al seno, non è possibile non pensare alle miriadi di immagini della Madonna col Bambino prodotte dal Medioevo in poi. Invece la giovane donna è Iside, la grande dea degli Egizi, il Bambinello è suo figlio Arpocrate (il nome da infante di quello che diventerà Horus), e il tutto è stato plasmato lungo il Nilo (ma poi anche in varie parti del Mediterraneo, anche sulle coste italiche) alcuni secoli prima (e poi anche dopo) la venuta di Nostro Signore. 
Un plagio cristiano? Sappiamo che il cristianesimo è debitore di molte concezioni più antiche, rimodellate e reinterpretate (anche Arpocrate-Horus, come più tardi il greco Dioniso-Zagreus, conosce una vicenda di uccisione, addirittura di smembramento, e risurrezione). Ma nella mostra «Il Nilo a Pompei», che si apre oggi al Museo Egizio (fino al 4 settembre, con importanti prestiti italiani e internazionali), la suggestione è lasciata in sospeso: tanto più che le immagini di Maria lactans, nell’Egitto cristiano del V-VII secolo, sono molto rare, e il motivo iconografico riemerge soltanto nell’Italia del 1100. Pure, le contaminazioni dell’Egitto con la koiné greco-romana, e più in generale con il mondo mediterraneo, sono innegabili e non in una sola direzione. Come dimostra questa intelligente rassegna che nel rinnovato museo inaugura lo spazio dedicato alle esposizioni temporanee, che il direttore Christian Greco, curatore della mostra con Federico Poole e Alessia Fassone, vorrebbe organizzare annualmente per investigare le influenze della cultura egizia nell’arte e nella cultura di tutti i tempi, fino alle avanguardie novecentesche.
Se le prime tracce di contatti risalgono addirittura alla metà del secondo millennio (esposto un grande vaso di impostazione minoico-cipriota e con iscrizioni geroglifiche, da Deir el-Medina), è nei secoli successivi, con Omero e poi con Erodoto, Platone, Diodoro Siculo, Plutarco, che l’immagine dell’Egitto si fissa presso i greci come quella di un luogo esotico, misterioso, affascinante e di sapienziale antichità. Nel III secolo a.C. sono attestati i primi insediamenti di mercanti egiziani a Delo, quindi al Pireo e, tra la fine del II e l’inizio del I, sulle coste della Campania.
Intanto la conquista del paese dei faraoni da parte di Alessandro e il successivo insediamento della dinastia greca dei Tolemei nella nuova capitale Alessandria hanno dato vita al crogiolo di una nuova civiltà. Alcune vecchie divinità egizie passano in secondo piano, altre nascono e vengono assimilate a quelle elleniche, come Serapide (un misto di Osiride a Api, variamente e liberamente identificato con Ades, con Zeus, con Asclepio). Su tutte, e al centro di tutto, Iside, l’antica grande dea della fertilità identificata con Afrodite e infinitamente rideclinata, come si vede nei reperti in mostra: Isis Fortuna, Isis Pelagia (protettrice dei naviganti), Isis Panthea (sintesi di tutta la divinità immaginabile), Isis come dea dei misteri iniziatici (cosa che non era mai stata nella terra d’origine) associata alla Demetra eleusina.
A Roma e nelle altre città della repubblica (poi dell’impero, fino alla piemontese Industria, l’odierna Monteu da Po) ai larari con la tradizionale triade capitolina (Giove, Giunone, Minerva) si affiancano quelli con Iside, Arpocrate, Serapide e Anubi. Alla grande dea madre è dedicato un imponente tempio a Benevento, da cui proviene una statua di diorite dell’imperatore Domiziano (I sec. d.C.) ritratto come un faraone, con il copricapo nemes, le braccia rigide lungo i fianchi, la gamba sinistra avanzata, secondo una plurimillenaria tradizione iconografica. Un altro Iseo sorge a Pompei intorno al 100 a.C., e nelle domus della città vesuviana le decorazioni parietali si affollano di elementi egittizzanti, come negli affreschi esposti, dalla Casa del Bracciale d’oro, con lussureggiante vegetazione mediterranea dalla quale spuntano teste di faraoni e - in funzione ormai meramente decorativa - sfingi alate, quindi greche, ma in posizione accovacciata, come quelle egizie. Ormai l’Egitto è una moda, sovente una mania.
Attraverso i primi scambi commerciali, poi le due conquiste - quella di Alessandro (332 a.C.) e quella romana (31 a.C.) - due grandi civiltà si sono contaminate con vantaggi reciproci. Ed è questo, in filigrana, l’insegnamento della mostra: ospitata nelle sale opportunamente dedicate a Khaled al-Asaad, l’anziano archeologo trucidato la scorsa estate a Palmira dai fanatici dell’Isis, che per una felice combinazione si inaugurano col racconto di una storia che è l’esatto opposto di quella vissuta in questi tempi nel Medio Oriente in fiamme. E che corregge in qualche modo la profezia di Samuel Huntington: tra le civiltà, se sono davvero civiltà, ci può essere, c’è incontro; lo scontro si dà soltanto con l’inciviltà.

All’Egizio di Torino sbarca l’arte di Pompei 
La mostra inaugurata con le autorità del Cairo Nel museo una sala dedicata a Giulio Regeni

MARINA PAGLIERI Restampa 5 3 2015
TORINO Torino, Pompei e Napoli unite in un grande progetto, nel segno dell’Egitto. Si è inaugurata ieri al Museo Egizio la mostra Il Nilo a Pompei, che in tre sedi diverse intende indagare gli incontri e le contaminazioni tra la cultura dei faraoni e quella greco- romana. «Una mostra che fornisce nuove prospettive, in cui il noto è l’Egitto, mentre il resto è il diverso: vogliamo dimostrare che la globalizzazione non l’abbiamo inventata noi», ha detto il direttore Christian Greco.
Al suo fianco il soprintendente di Pompei Massimo Osanna e il direttore del Museo Archeologico di Napoli Paolo Giulierini, che apriranno due mostre sul tema, rispettivamente il 16 aprile e il 28 giugno. Dunque il prossimo mese lasceranno per la prima volta il museo torinese, dai tempi di Bernardino Drovetti (il grande collezionista che le aveva fatte arrivare direttamente dall’Egitto), sette monumentali statue della dea Sekhmet e una del faraone Tutmosi III: verranno esposte nella Palestra Grande di Pompei. Il 28 giugno sarà il turno del Museo Archeologico di Napoli. E dall’8 ottobre l’intero progetto si concluderà con la riapertura della collezione egizia del Museo di Napoli.
Intanto ieri sera a Torino c’è stata l’inaugurazione della prima mostra, alla presenza del ministro egiziano dei Beni culturali Mohamed Gad Eldamaty Mamdout, arrivato con il sindaco Piero Fassino, dell’ambasciatore d’Egitto in Italia Helmy Amr Mostafa Kamal e del direttore del Museo Egizio del Cairo El-Enany Khaled. All’ingresso c’è ora un banner con il nome del museo in arabo, mentre il nuovo spazio espositivo è stato dedicato, come ricorda una lapide, a Khaled Al-Assad, il direttore del museo di Palmira assassinato dall’Is. Già la sala di Deir El Deir el Medina era stata intitolata, all’indomani del ritrovamento del corpo, al ricercatore italiano Giulio Regeni. «Non c’è oscurantismo che possa vincere la cultura — ha dichiarato Greco. — Siamo la seconda collezione al mondo che proviene da un paese amico dall’altra parte del Mediterraneo: questo è il nostro progetto culturale, questa a è la risposta che vogliamo dare ». Anche la presidente dell’Egizio Evelina Christillin ha ribadito l’importanza della «diplomazia dei musei».
Il Nilo a Pompei, che apre oggi al pubblico, espone 330 reperti prestati da 20 musei italiani e internazionali: 172 di questi reperti provengono da Pompei e Napoli. Tra i pezzi in mostra, gli affreschi della Casa del Bracciale d’oro di Pompei, ispirati all’immaginario egizio, manufatti in tema da altre case pompeiane, le decorazioni in stile faraonico dell’Iseo di Benevento, statuette votive dell’Egizio.

Iside, la dea cosmopolita Mostre. Al museo egizio di Torino, la rassegna «Il Nilo a Pompei» rovescia la prospettiva e sono le antichità romane che si richiamano al mondo dei faraoni a diventare del tutto esotiche
Valentina Porcheddu Manifesto TORINO 11.3.2016, 0:27
Nell’alveo del Nilo è impressa l’origine di un popolo splendente, che sulle acque del grande fiume cullava vita e morte. «L’Egitto fu il dono del Nilo», scrisse Erodoto nel V secolo a.C. e non stupisce che gli antichi egizi posero il fiume sotto la protezione di Api, dio dalla pelle azzurra e fiori di loto svettanti sul capo. Degli influssi che la terra d’Egitto ebbe nel pensiero e nell’arte del mondo greco-romano, ci parla Il Nilo a Pompei. Visioni d’Egitto nel mondo romano, rassegna promossa dalla Fondazione museo delle antichità egizie di Torino con la soprintendenza Pompei e il Museo archeologico nazionale di Napoli, prima tappa del progetto Egitto-Pompei che proseguirà tra la primavera e l’autunno nelle sedi campane. Visitabile fino al 4 settembre nel nuovo spazio espositivo di seicento metri quadri al terzo piano del rinnovato museo egizio, la mostra – a cura di Alessia Fassone, Christian Greco e Federico Poole – illustra la diffusione della cultura egizia nell’area del Mediterraneo, tema che potrebbe sembrare nient’affatto originale ma che acquista valore per l’approccio contrastivo adottato dai curatori, egittologi e non specialisti di archeologia classica.
Un potere globale
Nel quadro di un museo dedicato alla civiltà dei faraoni, la prospettiva viene dunque rovesciata e sono le antichità romane di soggetto egizio a diventare esotiche. L’allestimento, ideato dall’architetto Lorenzo Greppi, non è particolarmente suggestivo ma ha il pregio di disporre le opere in un percorso senza fronzoli, che esalta l’estetica dei trecento oggetti – provenienti da venti musei italiani e stranieri – nella loro semplice e pregnante bellezza. È il Nilo ad accogliere da subito il pubblico, che si ritrova a navigarci sopra calpestando un pavimento «cartografato». Anche la parete sinistra del corridoio d’ingresso alle sale si trasforma, grazie a una video proiezione, in riva accarezzata dal vento. Sulla stessa «sponda» si distingue una targa in memoria di Khaled Al-Asaad, storico direttore del sito archeologico di Palmira e d’ora in poi custode delle esposizioni temporanee che si avvicenderanno al museo egizio, per ricordare che alla barbarie dell’Isis si risponde coltivando il sapere e l’incanto. Dalla greca Alessandria a Pozzuoli passando per l’isola di Delo, le Visioni d’Egitto si articolano in nove sezioni, sullo sfondo di un mar Mediterraneo già globalizzato in cui transitavano uomini, merci e dèi. Il cammino di Osiride collega inoltre le collezioni permanenti alla mostra, incentrata sul culto di Iside. Secondo la narrazione del mito nei Moralia di Plutarco, fu lei a ricomporre le membra del consorte Osiride, fatto a pezzi e gettato nel Nilo dal fratello Seth per la contesa del trono. Emblema della trasmissione del potere regale durante la monarchia dei faraoni e detentrice di prerogative salvifiche, al tempo dei sovrani Tolomei Iside divenne una dea cosmopolita, il cui potere magico finì per prevalere sul resto.
Ricostruzioni immersive
Venerata in tutto il Mediterraneo orientale, entrò nel pantheon di Roma in epoca repubblicana, attraendo adepti di tutti gli strati sociali e assumendo quella connotazione misterica che Apuleio eternerà nell’Asino d’oro con l’iniziazione di Lucio. Numerose statuette esposte a Torino, alle quali si accompagnano le rappresentazioni di Horus, Api, Arpocrate, Bes e Serapide, riflettono questa doppia natura, egizia e greco-romana. Ma a immergere il visitatore nel fascinoso mondo dei culti orientali è soprattutto la ricostruzione delle ambientazioni di due importanti santuari, l’Iseo di Benevento e il Tempio di Iside a Pompei. Del primo – conosciuto solo attraverso fonti epigrafiche – viene presentato l’arredo scultoreo in stile faraonico, nel quale spicca una statua in diorite dell’imperatore Domiziano che indossa il nemes (copricapo del faraone) con il serpente ureo sulla fronte e il gonnellino schendyt. Più ricco il contesto pompeiano, di cui viene proposta una serie di splendidi affreschi con scene di culto che hanno per protagonisti – assieme a sacerdoti officianti – Arpocrate e Anubi, l’unico degli dèi a testa animale dell’antica religione faraonica a esser recepito fuori dall’Egitto. Io a Canopo, affresco dal tempio di Iside a Pompei

Capolavoro pittorico capace di rapire lo sguardo per la raffinatezza dei tratti è un affresco che adornava il cosiddetto ekklesiasterion, l’ampia sala dell’Iseo pompeiano destinata a banchetti e riunioni. Il dipinto mostra l’arrivo di Io – la fanciulla mutata in giovenca da Era per aver avuto una relazione amorosa con Zeus – portata in spalla dalla personificazione del Nilo (o, secondo una recente interpretazione, del Mediterraneo) a Canopo, nel delta nilotico, accolta dalla Iside locale. In secondo piano, due sacerdoti agitano sistri, strumenti musicali sacri alla dea. Il tempio di Iside fu uno dei primi monumenti di Pompei – era il 1764 – a essere scoperto. Lo spoglio della decorazione parietale suscitò l’immediata disapprovazione di William Hamilton, ambasciatore inglese presso la corte napoletana. A provocare sconcerto presso i contemporanei fu anche il rinvenimento, fuori dal tempio, dei resti di sacerdoti fuggiaschi che, abbandonando il santuario, diedero prova della decadenza in cui gettava la pratica dei culti orientali. Malgrado ciò, nel XIX secolo il tempio di Iside continuò a sedurre artisti e scrittori, e trovò posto nel celebre romanzo di Bulwer-Lytton The Last Days of Pompeii (1834).
Lusso orientale
È ancora il principale sito campano sepolto dall’eruzione del 79 d.C., a svelare a Torino le storie emerse dai lapilli. Nella seconda parte dell’esposizione, dal titolo Il Nilo in Giardino, vengono offerti sia i favolosi affreschi della Casa del Bracciale d’oro, il cui orizzonte blu-egizio libera uccellini, maschere teatrali e faraoni mignons, sia una serie di aegyptiaca e statuette di marmo dalla casa di Octavius Quartio. A quest’ultimo gruppo appartiene una piccola sfinge maschile, la quale – sulla base di altri elementi d’ispirazione egizia rinvenuti nella domus – ha fatto credere ad alcuni studiosi che il proprietario fosse devoto a Iside o affetto da egittomania. In realtà, come scrive Eva Mol nel bel catalogo edito da Franco Cosimo Panini, «quello che colpisce soprattutto della cultura materiale di tipo egiziano presente nella decorazione dei giardini è (…) l’importanza del suo ruolo all’interno delle complesse dinamiche dell’ostentazione del lusso e dell’esibizione dello status sociale all’interno della casa romana».
Sempre nel catalogo, un interessante saggio di Valentino Gasparini sul culto di Iside nelle dimore di Pompei e Ercolano, dà luce alle raffigurazioni di Iside kourotrophos o lactans, associate in una curiosa vetrina a una Madonna allattante il bambino del XV secolo. La rassegna – che si avvale anche della collaborazione dell’Istituto Ibam di Catania per le animazioni in 3d – si chiude con un focus sul sito piemontese di Industria, importante snodo commerciale dell’Italia del Nord noto per le officine di lavorazione del bronzo. Qui sono stati rinvenuti alcuni bronzetti che rappresentano dèi del pantheon egizio. Magnifica, di questo corredo, l’applique con testa di sacerdote cinta da turbante. Il Nilo fa dunque un lungo periplo, nello spazio e nel tempo, e si direbbe che non smetta di alimentare quell’immaginario che fu dei poeti e dei filosofi greci così come dei cittadini del multietnico impero romano. Potesse nuovamente unire le due sponde mediterranee un fiume benevolo, assieme a divinità scevre di guerre.

SCHEDA
Nato nel 1824, il museo egizio di Torino è il più antico museo dedicato alla civiltà sviluppatasi sulle rive del Nilo e vanta l’onore di custodire la seconda collezione di antichità egizie del mondo nonché la più importante al di fuori dell’Egitto. Nel 2015, l’istituzione torinese è riuscita a scalare le classifiche del Mibact, posizionandosi con quasi ottocentomila presenze a undici mesi dalla sua riapertura, in settima posizione fra le aree archeologiche e i musei italiani più visitati.
Un successo raggiunto grazie a un progetto quinquennale di rinnovamento da cinquanta milioni di euro, portato avanti dalla Fondazione museo delle antichità egizie di Torino insieme alla Regione Piemonte, alla Provincia di Torino, alla città di Torino, alla Compagnia di San Paolo e alla Fondazione Crt. Un esperimento, il primo nel nostro paese, di gestione museale col sussidio dei privati, ai quali lo Stato ha concesso in uso per trent’anni le collezioni. Ma tale traguardo è dovuto anche a un progetto scientifico di altissima qualità che, sotto la direzione di Christian Greco, ha posto la ricerca come motore per la valorizzazione dell’attuale allestimento, favorendo inoltre il ritorno del museo in Egitto con una missione congiunta italo-olandese nel sito di Saqqara.
L’attività svolta dal dipartimento scientifico del museo egizio e dal talentuoso ed efficiente staff del settore comunicazione si riflette in un’esposizione moderna, suggestiva, rivolta sia a un’utenza colta sia a coloro che – a partire dai più piccoli – vogliono avvicinarsi a un passato misterioso e da sempre ammaliante. Nei circa diecimila metri quadri di spazio distribuiti su cinque piani, sono esposti oltre tremila oggetti che raccontano non solo la storia di un popolo ma anche quella del museo e delle donne e degli uomini – come Erminia Caudana, Ernesto Schiaparelli e Bernardino Drovetti – che hanno reso possibile una straordinaria avventura.
L’attenzione per la ricostruzione dei contesti di rinvenimento – che ha il suo apice nella Tomba degli ignoti e in quella di Kha e Merit – è una delle cifre peculiari di un museo dove la dignità dei reperti e del lavoro degli archeologi è condizione imprescindibile. Dignità è anche una delle parole chiave utilizzate da Christian Greco mentre parla al suo pubblico attraverso l’audio-guida compresa nel prezzo del biglietto. Una sensibilità rara eppure necessaria. La stessa che ha permesso la dedica al ricercatore Giulio Regeni della sala di Deir el-Medina, in cui si conserva il «papiro dello sciopero». I musei non sono mondi a sé, ma del mondo – anche presente – sono parte integrante. «Vogliamo essere un luogo vivo», dice la presidente della Fondazione museo delle antichità egizie Evelina Christillin. Un sogno che è già realtà.

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