mercoledì 23 marzo 2016

L'Ersatz di Norberto Bobbio: la celebrazione in vita di Papa Zagrebelsky

Il costituzionalista riluttante. Scritti per Gustavo Zagrebelsky
Il costituzionalista riluttante, a cura Andrea Giorgis, Enrico Grosso e Jörg Luther, Einaudi, pagg. 489, euro 35; contributi di Ezio Mauro, Enzo Bianchi, Luciano Canfora, Carlo Petrini, Nadia Urbinati, Vito Mancuso

Risvolto
La poliedrica riflessione scientifica di Gustavo Zagrebelsky interroga studiosi di molte discipline. La trasversalità del suo approccio invita giuristi e non giuristi a confrontarsi col suo pensiero. Il volume raccoglie gli scritti di alcuni intellettuali e studiosi che hanno avuto e hanno particolare familiarità, affinità e consuetudine con la sua opera. Ciascuno dei contributi, nell'eterogeneità di impostazione e nella libertà di scelta dei singoli temi, prende spunto da uno degli ambiti di ricerca sviluppati da Zagrebelsky. L'indice di quest'opera rappresenta quindi una sorta di ideale griglia tematica del suo pensiero, con il quale gli autori dialogano e si misurano.

Perché il bisogno di giustizia è più forte del relativismo etico
Da una raccolta di saggi d’autore dedicati a Gustavo Zagrebelsky una riflessione sulle radici della nostra “voce della coscienza”

VITO MANCUSO Restampa 23 3 2016
La principale malattia spirituale del nostro tempo consiste nell’incapacità di fondare nella coscienza l’imperatività della giustizia, ovvero di rispondere al perché si debba sempre fare il bene e operare ciò che è giusto anche in assenza di interessi, o addirittura contro i propri interessi. Rimandando a Dio e ai suoi comandamenti, l’etica religiosa tradizionale è capace di assolutezza, ma paga questa sua capacità con l’incapacità di universalità e quindi di tolleranza. D’altro canto l’etica laica nei suoi modelli fondamentali (giusnaturalismo, consensus gentium, formalismo, utilitarismo) è sì capace di tolleranza, ma incapace di generare l’assolutezza dell’obbedienza; anzi, applicando la tolleranza al proprio io nella pratica concreta, i soggetti trovano non di rado una comoda giustificazione alla loro incoerenza rispetto all’imperativo etico.
Il risultato è che oggi non si sa più rispondere al perché il bene dovrebbe essere sempre meglio del male. Tale assenza di fondazione è una grave minaccia che incombe sull’etica in quanto tale, perché in mancanza di fondazione o c’è imperatività senza discernimento, come nel caso del fanatismo, o non c’è imperatività e quindi non c’è etica, come nel caso dell’utilitarismo opportunistico.
Dato che l’etica si lega intrinsecamente al diritto, la crisi della sua fondazione si traduce immediatamente nella crisi del concetto di giustizia, ovvero dello stesso fondamento teoretico della filosofia del diritto. In questa prospettiva Gustavo Zagrebelsky scrive significativamente di «nostra ignoranza teoretica sul contenuto della giustizia». Il diritto infatti o è in grado di rimandare a un fondamento etico in base a cui mostrare che ciò che prescrive è veramente diritto nel senso di retto, oppure non può che risultare fondato ultimamente sul potere che dapprima l’istituisce in quanto positum, e poi si cura di farlo rispettare mediante la forza. L’alternativa è quella classica: è la verità o è l’autorità a costituire la legge?
È noto il detto di Hobbes: Auctoritas, non veritas, facit legem. Ma se si deve ammettere che questo vale per la legge positiva, non ritengo che valga allo stesso modo per il diritto sostanziale che precede e fonda la legislazione. L’autorità è indispensabile per mediare il passaggio dalla sfera del diritto alla sfera della legge, e in questo senso è giusto dire che senza autorità non si avrebbe la legge (Auctoritas facit legem). Non per questo però è lecito concludere che l’autorità sia anche la fonte sorgiva del diritto, il quale al contrario precede l’autorità e la giudica, distinguendola in autorità legittima e giusta a cui obbedire, e autorità illegittima e ingiusta a cui ribellarsi (e quindi si potrebbe dire: Veritas facit ius).
Se il diritto precede l’autorità, esso riceve il suo fondamento nella coscienza, in particolare in quella forma della coscienza etica che intende comportarsi in modo retto e giusto, e che tradizionalmente si chiama etica. Torniamo quindi a quanto affermato sopra, ovvero al fatto che l’odierna crisi dell’etica trascina con sé anche la crisi della fondazione del diritto e la conseguente «nostra ignoranza teoretica sul contenuto della giustizia».
Tuttavia esiste negli esseri umani un enorme bisogno di giustizia. La mancata realizzazione di questo bisogno genera in essi malessere e risentimento rispetto alla società, alla storia, alla condizione umana. La questione si pone in modo radicale: quando parliamo di «fame e sete di giustizia », quale dimensione dell’essere umano nominiamo? Io ritengo che il fondamento dell’etica e il fondamento del diritto si leghino intrinsecamente l’uno all’altro, e che la forza dell’uno sia la forza dell’altro, e la rovina dell’uno la rovina dell’altro.
Esistenzialmente la questione del fondamento dell’etica si traduce in una domanda molto concreta: perché dovrei fare il bene e non il mio interesse? La mia risposta è la seguente: si deve fare il bene per essere fedeli a se stessi, perché è nel bene oggettivo che risiede il più grande interesse soggettivo.
Che cos’è infatti il bene? Il bene nella sua essenza peculiare è forma, ordine, armonia, relazione armoniosa. E che cosa siamo noi? Siamo forma, ordine, armonia, un concerto di relazioni armoniose: è grazie a questa dinamica, chiamata in fisica informazione, che a partire dai livelli primordiali delle nostre particelle subatomiche si formano i nostri atomi, i quali a loro volta, grazie all’informazione che li guida, formano le nostre molecole, le quali a loro volta, grazie all’informazione che le guida, formano gli organelli alla base delle nostre cellule, le quali a loro volta… e via di questo passo secondo una progressiva organizzazione che giunge fino alla coscienza e alla personalità.
La logica che ci dà forma, che ci in-forma, è la relazione armoniosa, e quindi praticare l’etica, in quanto relazione armoniosa con gli altri e con il mondo, significa essere fedeli a se stessi, alla nostra più intima logica interiore. In questa prospettiva l’altruismo non risulta difforme da un retto egoismo in quanto intelligente cura di sé. La fondazione dell’etica quindi è fisica, basata su una filosofia che guarda alla natura con ottimismo e favore, senza ignorare le numerose manifestazioni di caos e di disordine che essa presenta ma riconducendole all’interno di un processo complessivamente orientato alla crescita della complessità e dell’organizzazione vitale, e che per questo sa che essere fedeli alla natura e alla sua logica relazionale equivale a fare il bene, e di conseguenza a stare bene, per la gioia che infallibilmente scaturisce in ogni essere umano quando cresce la qualità delle sue relazioni.
Da questa logica armoniosa dell’essere procede anche il richiamo al rispetto della giustizia che tradizionalmente chiamiamo «voce della coscienza».



Il diritto senza fazioni 
Saggi. «Il costituzionalista riluttante. Scritti per Gustavo Zagrebelsky», a cura di Andrea Giorgis, Enrico Grosso e Jörg Luther, per Einaudi
Francesco Postorino Manifesto 14.5.2016, 0:02 
Accusato di spirito aristocratico e guardato con sospetto da quel popolo che rifiuta lezioni accademiche sul senso politico della democrazia, Gustavo Zagrebelsky non può essere conosciuto dai più solo per aver denunciato l’arroganza del princeps di Arcore e adesso l’incultura del renzismo. 
Nel libro curato da Andrea Giorgis, Enrico Grosso e Jörg Luther (Il costituzionalista riluttante. Scritti per Gustavo Zagrebelsky, Einaudi, pp. 489, euro 35), autorevoli giuristi, politologi, giornalisti, storici e filosofi dedicano pagine intense al presidente emerito della Consulta, con l’intento di approfondire il suo contributo giuridico e teorico-politico. Non sorprende che nella prima parte del volume si parli soprattutto del suo Il diritto mite, pubblicato nel ’92, e il cui significato dottrinale andrebbe ravvisato, secondo Paolo Grossi, nel tentativo di ridimensionare la scuola del positivismo giuridico, accusata di raffreddare il sentimento di giustizia e di non rilanciare l’interrogativo categorico sul «prima» degli ordinamenti. L’intellettuale azionista estende la critica all’«ufficialità giuridica», ovvero a quella «legge» disegnata a tavolino da una borghesia che coltiva surrettiziamente l’odio di classe mediante lo strumento legale. Il Rechtsstaat e il codice napoleonico del 1804 tutelano la vocazione proprietaria del Terzo Stato e un individualismo sfrenato che non tiene conto della sensibilità sociale. 
Contro il riduzionismo giuridico, Zagrebelsky difende lo Stato costituzionale novecentesco. Sposa l’approccio complesso del diritto e ripudia la faziosità esegetica del giurista, di colui che non può limitarsi a recepire articoli e regolamenti spegnendo la vita in un precetto. Il diritto mite deve nutrirsi di «equità» contrastando ogni impulso dogmatico e in particolare i deboli enunciati del giusnaturalismo.
Massimo Luciani è dell’avviso che l’impostazione di Zagrebelsky, da inquadrare nel solco del costituzionalismo liberaldemocratico di stampo kelseniano, sia poco attraente poiché sostituisce la centralità della legislazione con la sfera giurisdizionale. L’interprete individua nel Parlamento l’organo del «sano compromesso», mentre i giudici indossano un abito «aristocratico» che non obbedisce al ritmo flessibile delle società pluraliste. 
L’eccesso di formalismo e la disattenzione sul vero inizio del diritto, per il teologo Vito Mancuso sono invece il frutto della principale «malattia spirituale» del nostro tempo. L’etica e la dimensione giuridica sono legate da un rapporto intrinseco: il venir meno dell’una segna lo svuotamento dell’altra. La fondazione del diritto riflette il linguaggio della coscienza e quest’ultimo non può essere incastrato nelle maglie insipide del positivismo. 
Dopo la morte di Bobbio e Galante Garrone, scrive Ezio Mauro, Zagrebelsky diviene il nemico più pericoloso di una destra moderata che lo accusa di «gramsciazionismo». Il giurista torinese intende ripristinare il lessico maturo della politica e un adeguato «discorso sui fini» in modo tale, suggerisce Lorenza Carlassare, che non venga alterato il concetto della democrazia. Il suo «pensiero della possibilità», fedele all’ideale repubblicano, vieta il monopolio della sfera pubblica da parte del signorotto di turno e giustifica, aggiunge Nadia Urbinati, la costante apertura al processo deliberativo.
Il professore bacchetta puntualmente la demagogia al potere evitando di scivolare nel terreno insidioso del giacobinismo dove l’imperativo dell’ascolto, l’«inquietudine della ricerca» e la reazione culturale ai nuovi sofismi non potrebbero per natura attecchire. Temi peraltro molto cari al suo maestro Bobbio e che Zagrebelsky porta avanti con passione civile.

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