martedì 15 marzo 2016

Santomassimo legge la "Storia della Repubblica" di Guido Crainz e fa il punto sulla storiografia repubblicana


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Il piano inclinato di una Storia 
Tempi presentui. Un saggio che relega ai margini della ricostruzione storiografica l’inedito meccanismo riformatore che ha visto nei decenni passati l’intreccio di lotte sociali, civili e un quadro parlamentare capace di accogliere, mediare e deliberare. «Storia della Repubblica. L’Italia dalla Liberazione ad oggi» di Guido Crainz per Donzelli 

Gianpasquale Santomassimo Manifesto 15.3.2016, 0:30 
Guido Crainz è stato autore di una fortunata trilogia partita nel 1996 con la Storia del miracolo economico, proseguita con Il paese mancato, e conclusa infine nel 2013 con Il paese reale. Nell’insieme questi libri rappresentano la ricostruzione più ampia della storia repubblicana, ed hanno avuto un meritato successo di pubblico. Oggi Crainz propone un nuovo testo (Storia della Repubblica. L’Italia dalla Liberazione ad oggi, Donzelli, pp. 387, euro 27) che in apparenza può sembrare – e in parte lo è davvero – un riassunto dei volumi precedenti. Ma solo in apparenza, perché accanto agli elementi di continuità emergono anche le differenze, nell’impostazione come nella trattazione di una materia così ampia. 
Molti giudizi vengono riproposti, altri ripensati. Tutta la vicenda della «Prima Repubblica» appare inevitabilmente in una luce meno sinistra di quanto non apparisse al declinare della sua esperienza, e in questo gioca sicuramente un ruolo la prova non esaltante della Seconda Repubblica proclamata e poi forse mai decollata. Intervengono sfumature di giudizio per la verità molto selettive: giganteggia la figura di De Gasperi, interpretato in tutto e per tutto secondo il lascito interpretativo di Pietro Scoppola, si mantiene una vigile diffidenza nei confronti di Togliatti, del Pci e della Cgil. 
Va segnalata anche – ed è un merito innegabile – la modifica di giudizi canonici su alcuni temi «caldi» della storia italiana. Cito per tutti la trattazione del tragico luglio 1960, che alla luce dei nuovi documenti consultati appare il frutto di una deliberata prova di forza voluta dal governo Tambroni, contro la stessa disposizione del Msi, che suggeriva un divieto governativo per uscire dall’impasse in cui si era cacciato. 
Ma va sottolineata anche l’accentuazione di alcune caratteristiche originali già proprie della impostazione che Crainz ha dato alla sua opera. Non più solo costume, cinema, musica, già ampiamente presenti nei volumi precedenti: ora entrano nella narrazione anche design, moda, architettura, pubblicità, stili di vita. È una storia della società intesa nell’accezione più vasta e moderna oggi praticata. 
L’insufficienza della politica 
Il sacrificio inevitabile che questa disposizione comporta è il deperimento della storia politica, non più centrale nella trattazione, assieme alla marginalità, talvolta quasi occasionale, della dimensione internazionale dei problemi. È un tipo di storia alla quale probabilmente dovremo abituarci, perché consunzione prima e poi morte apparente della politica avranno le loro ricadute anche nella gerarchia degli avvenimenti fatti oggetto di storia. 
Per la verità qui la politica, ridotta a termini molto più concisi del consueto, riaffiora spesso come evocazione costante di un limite che sembra accompagnare tutta la storia repubblicana: formule come «politica distante dalla società», «incapace di comprenderne i mutamenti», si trovano nell’arco molto ampio che va dalla fondazione della Repubblica al suo apogeo che precede il crollo; e poi nella seconda parte «la politica incapace di riformarsi» viene assunta come elemento fondativo del declino inarrestabile del paese nel suo complesso. L’insufficienza della politica, il venir meno ai suoi compiti, la sua colpevole inadeguatezza: finiscono per risultare questi gli unici elementi di continuità che nel lungo periodo tengono assieme una storia fatta di passaggi a volte tumultuosi e di una vicenda che vede mutare tutto, e talora molto in fretta. 
Se per epoche ormai lontane della storia unitaria disponiamo di trattazioni consolidate e valutazioni che nel tempo si sono fatte sempre meno controversistiche (si pensi all’Italia post-risorgimentale, ma anche allo stesso fascismo), la storia repubblicana (e soprattutto nei suoi ripensamenti compiuti «da sinistra») continua a presentare caratteristiche del tutto particolari, che rinviano a una lontana tradizione che va da Alfredo Oriani a Piero Gobetti e oltre: storia anche e soprattutto di ciò che l’Italia avrebbe potuto essere e non è stata, del lungo capitolo di «occasioni mancate» che nella coscienza retrospettiva degli italiani sembrano connotare la storia nazionale. Un titolo come Il paese mancato rendeva bene questa disposizione di fondo. 
Col che non si vuol dire assolutamente che le alternative nella storia non contino e non vadano tenute in considerazione, laddove siano state effettivamente operanti e presenti nella consapevolezza dei contemporanei, che praticarono indubbiamente scelte che vanno valutate nel quadro di rapporti di forza all’epoca dislocati. È rischioso però che finiscano per divenire asse centrale di un’interpretazione complessiva nel lungo periodo. 
E inoltre non può sovrapporsi alla storia reale l’arrière-pensée dello storico formulato a grande distanza dagli eventi. Due esempi di questo procedimento si trovano concentrati al termine della trattazione del «lungo Sessantotto» italiano, dove una delle critiche (che è in larga misura anche autocritica generazionale da parte di Crainz) rivolte alla politica nata a sinistra del Pci consiste nel rilevare che «svanì anche la possibilità di una alternativa laica e moderna alle “due chiese” dominanti, quella cattolica e quella comunista: ci si limitò a erigere all’ombra di quest’ultima, e in polemica con essa, un microscopico edificio molto composito (segue elenco dei gruppi extraparlamentari) destinato a crollare di lì a poco». Questa alternativa però era totalmente impensabile nella cultura di quel tempo, e sembra più che altro la proiezione retrospettiva di quella koiné tardoazionista che è divenuto l’approdo più diffuso di gran parte della generazione che un tempo si sentiva rivoluzionaria. Come anche è singolare l’accusa ai movimenti giovanili di non essere stati capaci di costruire «nuove regole» al posto di quelle che venivano contestate e abbattute: compito storico che – al di là dell’ossessione tutta recente per le «regole» – non poteva certamente venire attribuito a movimenti di contestazione, ma è addebito che andrebbe rivolto alle classi dirigenti. 
Il «mancamento» del paese interviene, secondo una opinione in realtà già largamente diffusa, nel 1964: in quella data il centrosinistra appena nato rinuncerebbe ai suoi propositi riformatori e si adagerebbe in una routine priva di slanci, incapace di governare i mutamenti della società. 
La svolta degli anni Novanta 
Il lettore ha l’impressione di trovarsi di fronte a un lungo piano inclinato che porta inesorabilmente alla miseria dell’oggi. Eppure si sta parlando di quello che rimane indubbiamente nella storia degli italiani il periodo di maggiore sviluppo e maggiore benessere mai vissuto da chi ha abitato la penisola. Nel corso del primo trentennio repubblicano si ebbe la rottura di quadri plurisecolari della società italiana, e nel giro di pochi anni l’Italia si trasformò da paese prevalentemente contadino in paese prevalentemente operaio, mentre già al termine degli anni Sessanta si scopriva un paese con prevalenza del settore terziario: uno sconvolgimento di portata enorme che mutò condizioni di vita, culture, consuetudini, aspirazioni e visioni del futuro. In quegli anni giunsero a maturazione conquiste sociali conseguite a prezzo di grandi e lunghe lotte, come pure diritti civili e di libertà fino ad allora impensabili, nel quadro di una democrazia parlamentare e costituzionale spesso minacciata e talvolta rimessa in discussione, ma che riuscì a vivere e radicarsi a lungo, fino alla svolta distruttiva degli anni Novanta. 
Nel discorrere di tutto il capitolo delle riforme in Italia forse, di fronte a un fenomeno dalla durata così rilevante, bisognerebbe riconoscere che vi è stato un particolare meccanismo riformatore fondato sull’intreccio di lotte sociali e civili (e di iniziativa politica) che modificavano i rapporti di forza e trovavano una democrazia parlamentare disposta ad ascoltare, mediare e deliberare: qualcosa che abbiamo perso nell’ultimo ventennio e che probabilmente rimpiangeremo a lungo. 
Nel libro non si nega certo che siano stati conseguiti risultati di portata storica, ma tutte le grandi riforme – dall’istituzione dell’ordinamento regionale al Servizio sanitario nazionale – appaiono come inquinate dalla politica, che le trasforma in fattore di spreco e clientelismo anziché elemento di progresso democratico e civile. Sono denunce che nel tempo per la verità si infittiscono, e che alla fine degli anni Ottanta si sommeranno all’indignazione per la corruzione sistematica di un quadro politico raffigurato ormai come un freno allo sviluppo di una società civile laboriosa e virtuosa. La «questione morale» evocata da Berlinguer e da molti altri verrà vissuta in maniera molto diversa dalle molte Italie non comunicanti che ormai sono maturate e si fronteggeranno nel bipolarismo coatto degli anni successivi. 
Non morirà di morte naturale il quadro politico della Prima Repubblica: e qui, più che alla magistratura tante volte invocata o denigrata, bisogna pensare a quel vero e proprio «plebiscito contro il sistema proporzionale» operato per via referendaria, sostenuto da un’imponente campagna di stampa nutrita di antipolitica, antiparlamentarismo, massicce dosi di qualunquismo spicciolo che sfuggirono allora all’intellettualità tardoazionista ma si riveleranno nettamente prevalenti nel lungo periodo. 
Siamo di fronte del resto, come Crainz rileva fin dall’avvio degli anni Ottanta, a un popolo la cui struttura e composizione sembra sfuggire all’analisi, malgrado le mutevoli e a volte immaginifiche metafore del Censis: molti decenni dopo il quadro non è mutato, anzi il mistero si può ritenere ancora più fitto. 
Un renzismo pensoso 
Crainz arriva nella trattazione fino all’attualità più stretta – rischio che forse sarebbe stato prudente evitare – e offre conclusioni che potremmo definire di «renzismo pensoso», approvando rottamazione e sfida alla vecchia politica da parte di Matteo Renzi, legge sul lavoro, riforma elettorale e superamento del bicameralismo, così come la contrapposizione alle organizzazioni sindacali, «simulacri sbiaditi di quel che erano state in passato, prive di quella capacità di misurarsi con gli interessi generali che era stata la forza del sindacalismo italiano». Ma con molti dubbi sulla capacità di invertire il declino nazionale, di rinnovare la politica anche attraverso un processo di promozione e selezione di «un ceto dirigente all’altezza dei compiti». Che non si vede in realtà da dove possa scaturire dopo aver ultimato la distruzione della rappresentanza politica, a cui si è aggiunto anche l’azzeramento di corpi intermedi un tempo serbatoio di stimoli e di quadri, e una volta compreso in maniera fin troppo evidente che non esiste una società civile incontaminata contrapposta a una politica corrotta: un lungo «autoinganno» che fu all’origine della Seconda Repubblica e che oggi non appare riproponibile. 
Nell’introdurre gli avvenimenti che portano alla «frana» (come viene definito il crollo della Prima Repubblica) Crainz era partito da un’intuizione giusta: se si vogliono comprendere i reali condizionamenti internazionali che rendono possibile quello sbocco occorre guardare non alla caduta del muro di Berlino ma a Maastricht. Un condizionamento stringente di cui si colgono però solo gli elementi «virtuosi», quelli che ci costringono a «fare i conti con noi stessi», metter ordine nei conti pubblici, acquisire comportamenti austeri rispetto allo scialo degli anni precedenti. 
Gli storici del futuro probabilmente si chiederanno come un grande paese industriale abbia potuto, praticamente senza una vera discussione, sottoporsi a un meccanismo con ogni evidenza destinato a impoverirlo e a tagliare alla radice le basi della sua crescita. E forse i «vincoli esterni» invocati dalle classi dirigenti per abbattere le conquiste repubblicane somiglieranno a quella chiamata degli eserciti stranieri voluta tanti secoli addietro dai maggiorenti locali per abbattere le libertà italiane in costruzione.

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