Tra i massimi esponenti italiani dell'economia liberale, si è spento a 88 anni dopo una lunga malattia
Addio a Sergio Ricossa, il polemista liberale
L’economista rigoroso che non rinunciava agli scritti provocatori
4 mar 2016 Corriere della Sera Di Stefano Ravaschio
l peggior uso della statistica è quando la si dedica a fini retorici o propagandistici, non per sapere, bensì per far credere ai semplicioni». Era una convinzione di Sergio Ricossa — economista liberale che per sua ammissione voleva andare oltre il liberalismo del suo maestro Luigi Einaudi — scomparso ieri a 88 anni, nella sua casa torinese, dopo una lunga malattia.
Da sempre legato a Torino, dove è nato, si è laureato nel 1949 e ha svolto la sua intera carriera accademica, come professore di politica economica e finanziaria, Ricossa ha pubblicato per anni su «Il Giornale» della direzione Montanelli e su «La Stampa» articoli sferzanti sulla gestione pubblica in una tesi rielaborata in un volume dal titolo programmatico: Come si manda in rovina un Paese. Cinquant’anni di maleconomia (Rizzoli, 1995; Rubbettino, 2012). Dallo scritto ai fatti, è stato uno dei protagonisti, con Antonio Martino e Gianni Marongiu, della «marcia contro il Fisco» del 1987. Quello contro l’eccessiva imposizione tributaria è stato un suo cavallo di battaglia espresso anche nel pamphlet Manuale di sopravvivenza degli italiani onesti (Rizzoli, 1997; Rubbettino 2011). La sua idea era che il Fisco è «due volte peccatore: quando fa pagare tributi ingiusti e quando concede sanatorie, amnistie e condoni agli evasori».
Vicepresidente della Mont Pelerin Society, Accademico dei Lincei, presidente onorario dell’Istituto Bruno Leoni, accanto a rigorosi testi scientifici di politica economica, dove ha criticato in particolare il perfettismo keynesiano e la teoria del valore di Pietro Sraffa, non rinunciava a scritti provocatori, su temi di attualità, che ruotavano comunque intorno al principio fondamentale del primato dell’economia sulla politica, dalla quale si è sempre tenuto distante. Secondo Ricossa «la libertà economica è gran parte della libertà tout court», ricordava in un’intervista, sottolineando come «difficilmente chi non si occupa della libertà economica potrà occuparsi delle altre libertà dell’uomo». La sua verve critica lo ha visto denunciare «i pericoli della solidarietà» e colpire anche i suoi stessi colleghi.
Con Maledetti economisti. Le idiozie di una scienza inesistente (Rizzoli, 1996; Rubbettino, 2010) criticava le distorsioni dell’economia ideologica. Quella che deforma la realtà ad altri usi, atteggiamento intollerabile per un autentico liberale.
Addio a Sergio Ricossa liberale negli anni di piombo
Professore di Economia a Torino, fece parte del circolo di Von Hayek Scrittore cristallino, collaborò aLa Stampae alGiornaledi Montanelli
Alberto Mingardi Busiarda 4 2 2016
In Italia è piuttosto comune confondere l’oscurità con la profondità.
E’ forse per questo che il nostro Paese non ha riconosciuto Sergio Ricossa per quel che era: un pensatore formidabile. Gli ha fatto difetto lo stile. Nel senso che Ricossa scriveva troppo bene. La sua prosa è così chiara che il lettore finisce un suo articolo, chiude un suo libro, avendo capito tutto, ma proprio tutto. Il che è imperdonabile, in un Paese nel quale le persone colte si divertono a contemplare inestricabili grovigli di parole come se dovessero svelar loro chissà quale mistero.
Ricossa è venuto a mancare ieri l’altro, dopo una lunga malattia. Professore di economia all’Università di Torino, è stato editorialista della Stampa e poi del Giornale di Montanelli, che seguì anche alla Voce. Per inciso: non condivideva la viscerale antipatia del suo amico Indro per il Berlusconi politico. Ma lo seguì lo stesso, per affetto e per lealtà. Ricossa, schivo fino alla timidezza ma capace di lampi d’ironia che polverizzavano i suoi interlocutori, era così. Il genere di studioso che aiuta a ragionare un ragazzino di diciassette anni quando quello, con sprezzo del ridicolo, bussa alla sua porta per straparlare delle sorti del mondo e, addirittura, chiedergli una prefazione. Lo so bene, perché il ragazzino in questione ero io.
Ricossa era di umilissime origini. Forse proprio per questo non ebbe mai simpatie marxiste. Prima di altri comprese e studiò come in realtà la rivoluzione industriale abbia coinciso con un generale miglioramento delle condizioni di vita (Storia della fatica, 1974, e poi Le rivoluzioni del benessere, curato assieme con Piero Melograni, 1988).
Era stato Friedrich von Hayek a suggerire che una visione falsata della rivoluzione industriale è responsabile della diffusa avversione per l’economia di mercato. Ricossa era diventato amico di Hayek frequentando la Mont Pelerin Society, l’associazione di studiosi liberali nella quale era entrato grazie a Bruno Leoni. Fu sempre più affascinato dal pensiero del grande economista austriaco, ne fece uso per mettere a fuoco nuove idee e, dopo aver dedicato anni a studiare e criticare Piero Sraffa (Teoria unificata del valore economico, 1981), diede alle stampe nel 1986 il suo libro più importante e «hayekiano». La fine dell’economia è un saggio come non se ne pubblicano più, nel quale Ricossa demolisce il millenarismo economico di Marx e Keynes, attingendo alla tradizione di Adam Smith e Carl Menger e rinnovandola. Se fosse stato scritto in inglese, oggi sarebbe un piccolo classico.
Il liberismo di Ricossa è «imperfettista». Rifiuta l’idea che la società possa essere pianificata dall’alto, guarda con curiosità al modo in cui gli individui si organizzano autonomamente, ammette che il futuro è tutto da scrivere.
Sono idee tutt’oggi patrimonio di pochi ma negli anni di piombo serviva coraggio «fisico» per sostenerle, quando sui muri dell’università apparivano scritte tipo «Al professor Ricossa scaverem la fossa». Il professor Ricossa scuoteva la testa e continuava a difendere la libertà del suo prossimo, idioti e intolleranti inclusi.

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