Da Bersani a Fassina e Finocchiaro, tutti i dubbi sulle madri surrogate. E la Marzano lascia il Pd
“La maternità surrogata mercifica il corpo di una donna e la vita di un bambino - dice Stefano Fassina -. Un figlio non è un diritto”
di Annalisa Cuzzocrea Repubblica 4.3.16
ROMA.
Nichi Vendola e Laura Boldrini si sono sentiti per sms prima e dopo le
dichiarazioni della presidente della Camera sulla maternità surrogata.
«Lei ha subito chiarito che la sua contrarietà è legata ad episodi di
sfruttamento - spiegano gli amici del leader di Sel quindi tra loro non
ci sono stati problemi. Anzi, la sua prima dichiarazione da Londra Nichi
l’aveva sentita in diretta al Tg3 senza avere nulla da eccepire».
Il
tema dell’utero in affitto continua a dividere la sinistra fuori e
dentro il Pd. Al Senato Anna Finocchiaro era stata la prima a chiarire -
da una posizione diversa da quella cattolica - la sua contrarietà a una
pratica definita «inconcepibile» perché «finalizzata alla produzione di
corpi destinati allo scambio, assai spesso economico». «La sinistra non
può non avere una parola su questo», aveva scandito in aula, pur
ripetendo perché la stepchild adoption andasse tutelata. Come lei la
pensano Pier Luigi Bersani, Matteo Orfini, Alfredo D’Attorre, Davide
Zoggia («Non siamo pronti come Paese, ci sono tanti altri diritti che
vanno salvaguardati») e perfino quello Stefano Fassina che oggi è fuori
dal Pd e proprio con Sel ha fondato Sinistra italiana: «Un figlio non è
un diritto - dice il deputato - e i diritti individuali hanno un limite,
il rispetto dell’altra e dell’altro. La maternità surrogata supera quel
limite». E ancora: «Mi dispiace che esponenti della comunità Lgbt mi
attacchino perché l’utero in affitto è una pratica cui accedono per l’80
per cento coppie etero. Una forma di mercificazione del corpo della
donna e della vita di un bambino. Questa storia che le donne lo facciano
per generosità...c’è sempre un’asimmetria nei rapporti di forza. Tanto
più in California, dove domina l’individualismo proprietario». «Fassina
dovrebbe parlare di economia e non di etica, di cui non sa nulla », gli
ribatte Michela Marzano. La deputata è in uscita dal Pd, lo annuncerà il
giorno in cui alla Camera si voterà la fiducia sulle unioni civili: «Se
tradisco la mia vita, le mie battaglie, i miei valori non sono più
nulla», spiega. «A che serve che io resti se lì dentro tutto viene
deciso dal capo che spaccia ordini cui bisogna solo obbedire? Anche il
dibattito sulle adozioni di mercoledì è stato penoso». Quanto alla
«gestazione per altri, come è più giusto chiamarla perché la maternità è
altro», la filosofa spiega perché il divieto non la convince: «Portare
avanti una gravidanza per una coppia sterile può essere visto come gesto
di generosità o di altruismo, come il dono degli organi. Lo
sfruttamento può esserci oppure no e in posti come la California vi si
può accedere a patto che non sia così». E se anche fosse uno scambio
commerciale, «una donna è libera di scegliere di guadagnare dei soldi in
questo modo piuttosto che in un call center». È importante, secondo
Marzano, «non avere un’idea prefabbricata di maternità perfetta.
Winnicot diceva che bisogna “accontentarsi di essere sufficientemente
buoni”. E comunque, noi tutti stiamo balbettando davanti alle nuove
possibilità che dà la scienza perché non ne conosciamo le conseguenze».
Sulla sua linea il pd Roberto Speranza e la deputata di Sel Celeste
Costantino. Mentre Gianni Cuperlo dice: «Bisogna avere la capacità, la
volontà e la tenacia di distinguere. Io sono per la condanna di
qualsiasi forma di mercificazione del corpo umano o di una sua parte, ma
persone come Umberto Veronesi mi spiegano che dietro la maternità
surrogata possono esserci atti di amore e di generosità nei confronti di
una coppia che non può concepire. Quando in mezzo c’è questa dimensione
del dono credo che sia una scelta da rispettare».
Sara e Rachele, l’utero in affitto ai tempi dei patriarchi
Pubblichiamo stralci dell’articolo tratto da «Pagine Ebraiche»di Riccardo Di Segni La Stampa 4.3.16
Nella animata discussione che si sta sviluppando sul tema della maternità surrogata è stata tirata in ballo la matriarca Rachele come modello antico e sacro. La storia biblica racconta che la moglie prediletta del patriarca Giacobbe non riusciva ad avere figli e questo la faceva molto soffrire, fino al punto di offrire al marito la serva Bilhà: «unisciti a lei, che partorisca sulle mie ginocchia, e anche io possa avere figli da lei» (Gen. 30:3). Giacobbe obbedisce, Bilhà partorisce e Rachele dice: «il Signore mi ha giudicato e ha anche ascoltato la mia voce e mi ha dato un figlio» (v. 6). Il paragone con la maternità surrogata starebbe nel fatto che una donna che non riesce ad avere figli ricorre a un’altra donna per averli. Ma fino a che punto il paragone regge? Intanto bisogna ricordare ai frequentatori casuali della Bibbia che la storia di Rachele che citano è la seconda di questo tipo, essendo preceduta da quella di Sara, moglie di Abramo, nonno di Giacobbe. Al capitolo 16 della Genesi si racconta che Sara non avendo figli consegna al marito Hagàr, la sua serva con la speranza di avere figli da lei; Abramo obbedisce, la mette incinta e a questo punto si scatena un dramma tra le due donne che porta alla cacciata di Hagàr, poi al suo ritorno e alla nascita di un figlio: «Abramo chiamò il nome di suo figlio che aveva generato Hagàr, Ismaele» (v. 15; si noti l’attribuzione della paternità e maternità). Anche qui c’è una situazione di sterilità che viene gestita con l’aiuto di una seconda figura femminile. L’analogia con la maternità surrogata ci sarebbe solo nel primo caso, ma con una fondamentale differenza: nella surrogata («in affitto») la madre biologica scompare del tutto di scena, nella storia biblica la madre affronta diverse vicende: Bilhà resta in famiglia, fa un altro figlio e alla morte di Rachele diventa la favorita; Hagàr entra in contrasto definitivo con Sara che la caccia via di nuovo e per sempre (almeno finché vivrà Sara); quanto ai figli, altra differenza essenziale: quelli di Bilhà, benché Rachel dica «mi ha dato un figlio», restano figli della madre biologica, divenuta «moglie» (Gen. 37:2), e quello di Sara rimane legato al destino di Hagàr e per questo vittima di una violenta reazione di rigetto («caccia via questa amà e suo figlio», ibid. 21:10). Nel caso di Rachele, quindi, il tentativo di appropriarsi di un figlio altrui sottraendolo alla madre biologica riesce solo in parte e questa madre non scompare; nel caso di Sara tutta la procedura sembra essere piuttosto una cura contro la sterilità, e il legame naturale tra madre e figlio non si interrompe. Tutto molto diverso dalla maternità surrogata. E ovviamente non si può dimenticare l’altra differenza: l’inevitabile necessità – in tempi biblici – di ricorso alle vie naturali di procreazione, mentre, e solo ai nostri giorni, queste possono essere sostituite dalla più asettica e certo meno appassionante soluzione della provetta. In più il modello biblico è quello di una famiglia patriarcale dove c’è un uomo fecondo con la sua signora sterile, diverso da alcune situazioni di single o di coppia in cui oggi si ricorre alla maternità surrogata; nella Bibbia in queste storie si apprezza il desiderio di maternità, non quello di paternità. Il messaggio biblico poi insegna una morale: nel caso di Bilhà il dramma si ricompone integrando in famiglia madre e figli, che però restano con una connotazione un po’ secondaria, come figli di una madre meno importante; nel caso di Sara c’è solo dramma, e addirittura, secondo la spiegazione di Nachmanide, questo dramma starebbe all’origine del risentimento storico dei discendenti di Ismaele nei confronti dei discendenti del figlio naturale di Sara, Isacco. Come a dire: andiamoci piano con certe procedure.
Un’ultima considerazione: le persone che vengono usate per questo «esperimento» biologico sono delle serve. Se si fanno confronti tra maternità surrogata e storia di Rachele e Sara, per dire che c’è un precedente che la giustifica, va tenuto ben chiaro che si tratta di sfruttamento di persone non libere. Il che non è un bel modo per giustificare moralmente una procedura attuale.
Pubblichiamo stralci dell’articolo tratto da «Pagine Ebraiche»di Riccardo Di Segni La Stampa 4.3.16
Nella animata discussione che si sta sviluppando sul tema della maternità surrogata è stata tirata in ballo la matriarca Rachele come modello antico e sacro. La storia biblica racconta che la moglie prediletta del patriarca Giacobbe non riusciva ad avere figli e questo la faceva molto soffrire, fino al punto di offrire al marito la serva Bilhà: «unisciti a lei, che partorisca sulle mie ginocchia, e anche io possa avere figli da lei» (Gen. 30:3). Giacobbe obbedisce, Bilhà partorisce e Rachele dice: «il Signore mi ha giudicato e ha anche ascoltato la mia voce e mi ha dato un figlio» (v. 6). Il paragone con la maternità surrogata starebbe nel fatto che una donna che non riesce ad avere figli ricorre a un’altra donna per averli. Ma fino a che punto il paragone regge? Intanto bisogna ricordare ai frequentatori casuali della Bibbia che la storia di Rachele che citano è la seconda di questo tipo, essendo preceduta da quella di Sara, moglie di Abramo, nonno di Giacobbe. Al capitolo 16 della Genesi si racconta che Sara non avendo figli consegna al marito Hagàr, la sua serva con la speranza di avere figli da lei; Abramo obbedisce, la mette incinta e a questo punto si scatena un dramma tra le due donne che porta alla cacciata di Hagàr, poi al suo ritorno e alla nascita di un figlio: «Abramo chiamò il nome di suo figlio che aveva generato Hagàr, Ismaele» (v. 15; si noti l’attribuzione della paternità e maternità). Anche qui c’è una situazione di sterilità che viene gestita con l’aiuto di una seconda figura femminile. L’analogia con la maternità surrogata ci sarebbe solo nel primo caso, ma con una fondamentale differenza: nella surrogata («in affitto») la madre biologica scompare del tutto di scena, nella storia biblica la madre affronta diverse vicende: Bilhà resta in famiglia, fa un altro figlio e alla morte di Rachele diventa la favorita; Hagàr entra in contrasto definitivo con Sara che la caccia via di nuovo e per sempre (almeno finché vivrà Sara); quanto ai figli, altra differenza essenziale: quelli di Bilhà, benché Rachel dica «mi ha dato un figlio», restano figli della madre biologica, divenuta «moglie» (Gen. 37:2), e quello di Sara rimane legato al destino di Hagàr e per questo vittima di una violenta reazione di rigetto («caccia via questa amà e suo figlio», ibid. 21:10). Nel caso di Rachele, quindi, il tentativo di appropriarsi di un figlio altrui sottraendolo alla madre biologica riesce solo in parte e questa madre non scompare; nel caso di Sara tutta la procedura sembra essere piuttosto una cura contro la sterilità, e il legame naturale tra madre e figlio non si interrompe. Tutto molto diverso dalla maternità surrogata. E ovviamente non si può dimenticare l’altra differenza: l’inevitabile necessità – in tempi biblici – di ricorso alle vie naturali di procreazione, mentre, e solo ai nostri giorni, queste possono essere sostituite dalla più asettica e certo meno appassionante soluzione della provetta. In più il modello biblico è quello di una famiglia patriarcale dove c’è un uomo fecondo con la sua signora sterile, diverso da alcune situazioni di single o di coppia in cui oggi si ricorre alla maternità surrogata; nella Bibbia in queste storie si apprezza il desiderio di maternità, non quello di paternità. Il messaggio biblico poi insegna una morale: nel caso di Bilhà il dramma si ricompone integrando in famiglia madre e figli, che però restano con una connotazione un po’ secondaria, come figli di una madre meno importante; nel caso di Sara c’è solo dramma, e addirittura, secondo la spiegazione di Nachmanide, questo dramma starebbe all’origine del risentimento storico dei discendenti di Ismaele nei confronti dei discendenti del figlio naturale di Sara, Isacco. Come a dire: andiamoci piano con certe procedure.
Un’ultima considerazione: le persone che vengono usate per questo «esperimento» biologico sono delle serve. Se si fanno confronti tra maternità surrogata e storia di Rachele e Sara, per dire che c’è un precedente che la giustifica, va tenuto ben chiaro che si tratta di sfruttamento di persone non libere. Il che non è un bel modo per giustificare moralmente una procedura attuale.
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