giovedì 24 marzo 2016

Solo l'impero decide i nomi del bene e del male: una Norimberga a convenienza


Vent’anni dopo la fine della guerra

L’Aja come Norimberga giudica il mandante delle stragi in Bosnia: Karadzic a processo per genocidio Sarà la prima condanna per crimini di guerra mai pronunciata nei confronti di un ex leader politico europeo: lo psichiatra serbo teorizzò la pulizia etnica, massacrò 12mila sarajevesi e permise lo sterminio di Srebrenica

di Francesco Battistini Corriere 24.3.16
E’ l’ora del giudizio. Il Signore della Vita e della Morte, come lo chiamavano le sue vittime durante l’assedio di Sarajevo, giovedì saprà che ne sarà della sua vita carcerata, della sua morte civile, dell’aldiquà che a 70 anni l’aspetta in attesa di passare all’Aldilà. Imputato Karadzic, alzatevi. In nome del popolo bosniaco e di tutte le Nazioni unite, con vent’anni di ritardo e fra mille lacune processuali, quando il giudizio storico è scritto da un pezzo, finalmente c’è un giudice all’Aja. E il 24 marzo — cosa che non accadeva dal processo di Norimberga — ci sarà la prima condanna per genocidio e crimini di guerra mai pronunciata nei confronti d’un leader politico europeo.
Tra le vittime anche 5 mila bambini
La evitò l’ideologo del nazionalismo serbo, Slobodan Milosevic, morendo nel carcere di Scheveningen. Preferendo restare in cella, eviterà forse d’ascoltarla il dottor Radovan Karadzic, psichiatra e poeta dilettante con la disordinata pettina da «Beatles in pensione» (definizione di Montanelli) che tradusse in psicodramma le idee di Milosevic. E che da presidente della microscopica Repubblica serba di Pale teorizzò la pulizia etnica, terrorizzò la Bosnia, massacrò 12mila sarajevesi, ammazzò 1.500 bambini, permise lo sterminio degli ottomila musulmani di Srebrenica, lasciò campo libero alle Tigri stupratrici di Arkan, sfidò la Nato, riportò in Europa orrori che si credevano sepolti col nazifascismo e con lo stalinismo (nella foto Reuters, una donna musulmana piange sulle tombe di Srebrenica, delle atrocità e della strage è ritenuto responsabile l’ex presidente serbo Radovan Karadzic).
Probabile l’ergastolo chiesto dal Pm
E’ la Storia che fa i conti. Male, tardi, in parte. Arriverà l’ergastolo, più che probabilmente: l’ha chiesto il pubblico ministero Alan Tieger nella sua requisitoria, lo scorso ottobre, consapevole del fatto che sarà comunque una giustizia per difetto e che le accuse a Karadzic erano troppe. Il processo è durato sei anni e mezzo, 600 testimoni, 11mila reperti e decine di migliaia di documenti: ci si è concentrati sulle fosse comuni di Srebrenica, sui cecchini che per 43 mesi bersagliarono Sarajevo e fecero 12mila morti, sulle atrocità in sette villaggi bosniaci, sui crimini dalle prove inconfutabili.
Non uccise di persona ma è comunque responsabile
«Meglio tardi che mai», dice il procuratore dell’Aja, Serge Brammertz. Alla fine è importante condannare un politico che di persona non s’è macchiato le mani di sangue, ma non per questo è meno responsabile del genocidio. Un precedente unico, osserva Brammertz: «Qui sono state pronunciate sentenze fondamentali, però quella contro Karadzic sarà una pietra miliare nella storia della giustizia penale internazionale». Kada Hotic, madre di Srebrenica sopravvissuta all’esecuzione di marito e figli, è stata una testimone chiave e ha parole definitive: «Questa sentenza dev’essere un monito per chiunque creda, ovunque nel mondo, di poter commettere qualunque cosa. Deve dimostrare che tanta malvagità viene punita non solo dalla storia, ma anche dagli uomini» (nella foto Reuters, seduta sotto i rityratti delle vittime di Srebrenica, una donna mususlmana segue il processo de l’Aja a Karadzic).
Dal 1992 alla conquista militare
Non è una storia sepolta. Fu Karadzic a fondare la Repubblica serba di Bosnia nel 1992, quando bosgnacchi e croati votarono l’indipendenza dalla Serbia jugoslava. E se oggi è fallito il suo sogno di dominio militare, di quando Milosevic l’aiutò a conquistare fino al 70 per cento della Bosnia, il progetto politico è ancora lì: «Nelle scuole della Federazione si studiano ancora oggi su tre testi di storia diversi per serbi, bosniaci e croati — dice Brammertz — e le divergenze non sono solo sulla guerra: sono sugli ultimi 200 anni». Gli eredi politici di Karadzic minacciano ogni anno la secessione della Republika Srpska da Sarajevo e i loro confini, il loro nome, il loro radicalismo, i loro simboli sono gli stessi d’allora.
I gatti serbi e i gatti musulmani
«A un certo punto mi resi conto che neanche i gatti dei serbi andavano d’accordo coi gatti dei musulmani», confidò il presidente-poeta-psichiatra al giornalista Marzio G. Mian che lo seguì settimane per le valli balcaniche e fu tra i primi a ritrarlo in un libro, pubblicandone le incendiarie sestine che cantavano la distruzione di Sarajevo: le invettive contro una raffinata società multiculturale che aveva osato tenere l’oscuro medico montenegrino ai margini e rifiutare la cattedra alla moglie neuropsichiatra e condannare lui per truffa ai danni d’un ospedale. A Belgrado, molti non hanno mai smesso di considerare Karadzic più sacro di un’icona ortodossa: sul passeggio principale, si comprano ancora le t-shirt col ritratto e la scritta «Radovan Serbian Hero» in esergo. (nella foto Ap, Karadzic con Mladic nel 1995, durante la guerra serbo-bosniaca)
«Tredici anni di latitanza, colpa anche della Nato»
Durante il processo, s’è sentito un ex ministro rivolgersi deferente al criminale, chiamandolo «signor presidente». O l’attuale leader dei serbo-bosniaci, Milorad Dodik, ricordare i premi letterari vinti dall’imputato. O Sonja Karadzic, la figlia vicepresidente del Parlamento, avvertire i giudici che «un verdetto di colpevolezza potrebbe mettere in pericolo le istituzioni dell’area». «Non so quante volte mi sono scontrata col muro di complicità e d’omissioni che ha circondato i suoi 13 anni di latitanza», ci dice al telefono l’ex procuratrice Carla Del Ponte, la più odiata dai criminali di guerra di mezzo mondo, la ticinese di ferro che allo psichiatra folle ha dato una lunga caccia per conto dell’Onu: «Certo, anch’io aspetto questa sentenza come un sollievo. Non so se potrò seguirla in collegamento tv, ma dico: finalmente! C’è voluto tanto per averla. E’ stato un inseguimento così lungo che quasi non me lo ricordo più. Riuscivamo sempre a localizzarlo, due volte ci siamo andati vicinissimi, ma poi c’era sempre qualcosa che lo allontanava. Perfino la Nato, un giorno che avevamo saputo dove si nascondeva in Bosnia, ci rispose di non poterlo andare a prendere. E sa perché? Perché nevicava troppo!». La lotta infinita con Karadzic e col macellaio tascabile di cui si serviva, Ratko Mladic, la signora Del Ponte l’ha raccontata nell’autobiografia «La caccia» (nella foto Ap, manifesti con la taglia promessa di 5 milioni di dollari per la cattura dei criminali di guerra Mladic e Karadzic).
Il lasciapassare degli americani
S’è sempre sussurrato d’un lasciapassare segreto che gli americani, durante i negoziati di Dayton, avrebbero concesso all’imprendibile Radovan? La Del Ponte ha descritto gli ambigui atteggiamenti della Cia che lo braccava, a parole, offrendo una taglia di 5 milioni di dollari e mettendolo nella lista dei latitanti pericolosi, quasi quanto Bin Laden. «Ridarei la caccia a Karadzic esattamente come feci», rievoca oggi l’ex procuratrice, nonostante si dedichi ormai ad altro, prima da ambasciatrice svizzera in Argentina e ora da investigatrice sui crimini in Siria: «Non l’arrestai io, furono i serbi a consegnarcelo. Ma la mia strategia si dimostrò giusta: Belgrado voleva entrare nell’Ue e noi riuscimmo a convincere tutte le capitali europee che bisognava premere lì, insistere per mettere i serbi con le spalle al muro». Lo trovarono, nemmeno troppo nascosto, nel 2008. In Serbia, da dove non s’era quasi mai allontanato nella lunga latitanza, se non per qualche gita a Venezia o per vedere la sua Inter a San Siro». S’era fatto crescere la barba da guru ed esercitava a Belgrado da medico alternativo.
«Dovrei essere premiato, anziché processato»
Una volta alla sbarra, Karadzic s’è rasato e ha tentato di ripulirsi l’immagine: «Dovrei essere premiato, anziché processato». E poi, in un crescendo che il blog «Le più grandi stronzate di Radovan» non s’è mai stancato di censire con cura («La mia cella? Ho visto posti peggiori»; «Sono stati i musulmani a uccidere tutti quei bosniaci»; «Non ho mai tenuto Sarajevo sotto assedio»; «Ho la coscienza pulita e il cuore appesantito, perché la guerra non era quel che volevo»…), bontà sua, è arrivato almeno ad ammettere che certi crimini furono «terribili» pur non avendone lui, ovvio, alcuna responsabilità…
I grossi cani di Seselj battezzati come i nemici
Come spesso accade nelle gang criminali, i suoi complici sono stati i più lesti a mollarlo. Vojislav Seselj, che si specializzò nel perseguitare i croati e a sua volta aspetta il verdetto del Tribunale penale internazionale per il 31 marzo, s’è dato malato e alla macchia: sta a Belgrado in compagnia di due cagnoni rabbiosi che ha chiamato come i suoi nemici politici, se verrà condannato ha già detto di non volersi consegnare, a costo di rovinare i ritrovati rapporti fra l’Ue e i nuovi-vecchi leader serbi.
Il tradimento di Mladic
E Mladic? Il boia di Srebrenica, disprezzato perfino dalla figlia che per la vergogna dei suoi crimini si suicidò, attende ancora il suo ergastolo e due anni fa è ricomparso per la prima volta in pubblico accanto a Karadzic. Ratko doveva testimoniare a favore del suo ex capo. Ma quando questi l’ha implorato — «Per favore, dillo, se mi hai mai informato che i prigionieri di Srebrenica erano stati uccisi o lo sarebbero stati!...» —, Mladic ha pensato che a tutto ci fosse un limite. S’è voltato dall’altra parte. Ha taciuto. E uscendo non ha provato nemmeno a guardarlo negli occhi: «Izvini Radovane, ne mogu…», gli ha sussurrato solamente. Scusa Radovan, non posso. 

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