mercoledì 23 marzo 2016

Tradotto il libro tecnomane di Paul Mason

Postcapitalismo. Una guida al nostro futuro
Il Rifkin dei poveri o Toni Negri dei ricchi che vuole superare il capitalismo con internet [SGA].

Paul Mason: Postcapitalismo. Una guida al nostro futuro, Il Saggiatore, pp. 381, euro 22

Risvolto
L'agonia del capitalismo è irreversibile. Il prezzo della sua sopravvivenza è un futuro di caos, oligarchia e nuovi conflitti. La crisi economica scoppiata nel 2008 si è trasformata in una crisi sociale e infine in un autentico sconvolgimento dell'ordine mondiale: oggi, questo capitalismo malato e segnato dal predominio della finanza scarica i costi della recessione sui più deboli; si dimostra incapace di far fronte alle minacce del riscaldamento globale, dell'invecchiamento della popolazione e dell'incontrollato boom demografico nel Sud del mondo; e mette a rischio la democrazia e la pace. Ma superare il capitalismo è possibile. E mentre fra la popolazione serpeggia un senso di paura e rassegnazione, dalle tecnologie informatiche emerge la possibilità di una svolta radicale. La nuova economia di rete, fondata sulla conoscenza, mina infatti i presupposti stessi del capitalismo - riducendo la necessità del lavoro e abbassando sempre più i costi di produzione -, e i beni d'informazione erodono la capacità del mercato di formare correttamente i prezzi, perché se il mercato si basa sulla scarsità, l'informazione è invece abbondante. Nel frattempo, si sta affermando un nuovo modo di produzione collaborativo, che non risponde ai dettami del profitto e della gerarchia manageriale, ma ai principi della condivisione, della responsabilità reciproca e della gratuità. 
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Vie di fuga tecnopolitiche dall’austerity 


Tempi presenti. Il laboratorio della Rete per immaginare un’uscita dalla crisi, per pratiche di resistenza capaci di battere il neoliberismo. «Postcapitalismo», il volume di Paul Mason per il Saggiatore

Matteo Pasquinelli Manifesto 23.3.2016, 0:30 
Una linea rossa collega gli internet café degli slum di Manila, usati spesso come reti autogestite di solidarietà e servizi, con la teoria dei cicli tecnologici dell’economista russo Nikolai Kondratieff, giustiziato dallo stalinismo nel 1938. Nel suo ultimo libro Postcapitalismo. Una guida al nostro futuro (Il Saggiatore, pp. 381, euro 22) Paul Mason batte sentieri eterodossi della storia dell’ultimo secolo per segnare la via d’uscita da un sistema economico, il capitalismo, che a suo dire «sta morendo». La storia della sinistra e dei movimenti globali è ricostruita in un viaggio appassionante, che Mason, con la maestria di un giornalista d’inchiesta (già Bbc e Channel 4), riconduce sorprendentemente alla questione tecnologica. Pochi autori sono riusciti in una sintesi del presente così robusta: seguendo la storia delle lotte e l’idea dei cicli di innovazione tecnologica di Kondratieff, Mason spiega l’attuale stagnazione come effetto del regime a costo-zero indotto dalle merci digitali e dal lavoro cognitivo. 
Come incorniciare lavoro e tecnologia in un unico diagramma? La forma onda è bellissima, scrive Mason all’inizio del secondo capitolo. Il libro è ricchissimo di aneddoti storici, che sulla scorta di Kondratieff vengono appunto raccolti in quattro grandi «onde» o cicli economici. Ciascun ciclo è legato a ben precise innovazioni tecnologiche e si sviluppa come un’onda, raggiunge l’apice ed entra in crisi, generando depressione e conflitti. Mason riconosce esplicitamente il lavoro come sorgente del valore economico, ma la tecnologia è qui la principale catalizzatrice dei cicli economici, che entrano in crisi quando appunto una «nuova» tecnologia raggiunge il punto di massima diffusione e saturazione. 
L’era della stagnazione 
I quattro cicli storici sono grosso modo i seguenti: la rivoluzione industriale delle macchine a vapore (1790-1848); l’età delle ferrovie, del telegrafo e dei transatlantici (1848-1895); l’età del management scientifico, dell’ingegneria elettrica e del telefono (1895-1945); l’era dei transistor, dei materiali sintetici, dell’automazione industriale e dei computer (1945-2008). Periodizzare è sempre problematico e non sorprende che l’orologio modello di Kondratieff si inceppi subito dopo la quarta onda e non riesca a spiegare questa lunga onda di stagnazione, i cui sintomi hanno cominciato a manifestarsi già negli anni Novanta. Come surfisti fuori stagione, i capitali rimangono sul bagnasciuga ad aspettare una «quinta onda» di ripresa economica che stenta a paventarsi. 
Mason riconosce che la sua tesi non è del tutto nuova: già Carlo Marx nei Grundrisse aveva presagito la crisi del capitale ad opera della conoscenza scientifica generale accumulata nella macchine come capitale fisso, di fronte al quale il valore prodotto dal lavoro manuale diventava progressivamente marginale. Ma di sicuro Mason è uno dei pochi a sottolineare l’effetto di devalorizzazione prodotto dalle tecnologie informatiche e concausa dell’attuale stagnazione. È evidente in questo libro il passaggio dalle posizioni dell’anticapitalismo al programma del postcapitalismo, il passaggio dalle lotte alla pianificazione, dall’organizzazione del lavoro all’organizzazione della tecnica. Mason ha di sicuro il merito di toccare il nervo scoperto di una questione teorico-politica ancora non risolta, ovvero la riappropriazione della tecnica o riappropriazione del capitale fisso, per usare un’espressione di Toni Negri. 
Mason ricorda tutti «i profeti del postcapitalismo», le lotte e i pensatori radicali che queste tesi hanno già anticipato: da Alexander Bogdanov all’autonomia italiana, da André Gorz al movimento hacker. Ma in quale dibattito internazionale si inserisce il libro? L’idea di iniettare nell’agenda della sinistra e dei movimenti complexity theory, analisi di lungo periodo, pianificazione tecnologica e reddito di base incondizionato appartiene anche al libro Inventing the Future di Nick Srnicek ed Alex Williams (Verso, 2015). Mason ha il merito di fornire una cornice monetario-economica più realistica rispetto al motto fully automated luxury communism di recente divenuto molto popolare a Londra. 
Se la proprietà dei nuovi robot e intelligenze artificiali (dei mezzi di produzione e del capitale fisso in genere: tecnologia, infrastrutture, piattaforme) non viene messa in discussione, la completa automazione nella grandi aziende ed un reddito di base sganciato dal welfare state rischiano di esacerbare le disuguaglianze anziché contrastare l’accumulazione di capitale. In questo Mason sembra più vicino al dibattito nord-americano, dove la tecnopolitica, in modo molto pragmatico, è declinata come movimento do-it-yourself e cooperativista (vedi il lavoro di Trebor Scholz sul mutualismo 2.0, il manifesto del 26 gennaio scorso e del 18 febbraio 2016). 
Precariato planetario 
Mason di sicuro intercetta una nuova generazione che riconosce se stessa come vittima sia del regime dell’austerity sia della crisi dell’economia digitale. Potremmo chiamarla la generazione dell’austerity digitale: una generazione che ha visto la rete trasformarsi al tempo stesso in un sistema di monopoli e in un apparato per la sorveglianza di massa. È un precariato planetario lasciato a terra dalle dot-com e diventato, in pochi anni, un esercito di baristi con titolo di dottorato. Si tratta di una composizione sociale la quale si riconosce sia in Julian Assange e Edward Snowden che in Podemos e Syriza (ed anche il movimento DIEM25 lanciato da Yanis Varoufakis sembra intenzionato ad incrociare questi due blocchi sociali). 
Il programma politico di Mason si chiama «Progetto Zero», perché si orienta verso un sistema energetico a zero emissioni, la produzione di beni a zero costi marginali e la riduzione del tempo di lavoro necessario (il più possibile) a zero. Nelle ultime pagine, in una dettagliata proposta, Mason inoltre chiede di sostenere modelli cooperativi di business come la compagnia Mondragon in Spagna, di sopprimere i monopoli, di nazionalizzare le banche centrali, di socializzare la finanza e di pagare a tutti un reddito di base. 
Ingegneria politica 
L’uscita dal capitalismo che Mason intravede richiede quindi robusta ingegneria politica. Sarà la generazione della rete capace di costruire la Grande Macchina, ovvero di trasformare la potenza del codice digitale in un nuovo codice istituzionale, di tradurre il lavoro cognitivo in nuove visionarie istituzioni? Mason descrive una nuova dialettica tra potere costituente e potere costituito, nella quale un ruolo normativo viene riconosciuto anche alla tecnologia, alla infrastrutture di comunicazione e alle piattaforme globali (il nomos planetario imposto da Google sulla pelle degli stati nazione dovrebbe ricordacelo senza difficoltà). Sarà davvero la tecnopolitica a far saltare il vecchio gioco normativo? Per Mason è già all’opera.

Il virus ricombinante della condivisione Tempi presenti. L’onda lunga del mutuo soccorso e dell’autogestione. L’analisi del giornalista britannico Paul Mason. Dal socialismo ottocentesco agli hacker. Le radici teoriche di un’analisi suggestiva che si infrange sullo scoglio del «Politico»
Benedetto Vecchi Manifesto 23.3.2016, 0:29
Un giornalista capace di individuare tendenze di lungo periodo che le situazioni contingenti lasciano solo intravedere. Paul Mason appartiene sicuramente a questa tipologia di giornalista che non guarda il mondo dietro le vetrate di qualche hotel a cinque stelle, ma preferisce stare sulla strada, parlare con chi vive condizioni non sempre invidiabili, solo per usare un’espressione politically correct. In questo ultimo libro edito da il Saggiatore (Postcapitalismo) Mason fa tesoro delle sue incursioni nella realtà capitalista investita dalla crisi dal 2008 e mette al centro della scena le strategie di resistenza, di mutuo soccorso che ha incontrato in tutti questi anni. Il volume ha avuto una ricezione che ne ha messo in evidenza la provocatorietà della tesi, nonché il carattere visionario del progetto proposto dal giornalista britannico che chiude il volume. Di tutto ciò ne scrive in queste pagine Matteo Pasquinelli, mentre Francesca Coin ha raccolto il percorso teorico nell’intervista a Paul Mason pubblicata il 22 luglio 2015 su questo giornale (a tale proposito va segnalato anche l’articolo della stessa ricercatrice italiana il 22 settembre 2015).
A una lettura più meditata del volume emergono alcune radici teoriche alle quali Mason ha attinto: il socialismo utopistico inglese dell’Ottocento, le teorie economiche dell’economista russo Nikolai Kondratiev mandato a morte da Stalin, l’André Gorz delle Metamorfosi del lavoro. Per Paul Mason, il capitalismo è giunto alla fase terminale della sua esistenza come modo di produzione. Le esperienze di sharing economy – la cosiddetta economia della condivisione – ne stanno solo rallentando l’agonia, anche se stanno preparando le condizioni della sua fine indolore. Già perché le relazioni sociali che puntano, questa la tesi forte del volume, a condividere risorse aprono la porta a una società postcapitalista. Inutile, dunque, attendersi l’ora della rivoluzione e della presa del potere da parte di un proletariato che non ha niente altro da perdere se non le sue catene. La società dei liberi e degli eguali si sta facendo strada nelle pulviscolari – e tuttavia diffuse – esperienze di muto soccorso, di attività economiche basate sulla reciprocità e su rapporti di produzione e di scambio non mercantili. Ce ne sono tantissime, disseminate in ogni angolo del pianeta, da Londra a Sidney, da Shangai a Mumbay, da Los Angeles a Rio De Janeiro. Possono essere cooperative di insegnanti, di medici, di facchini, di programmatori di computer, di makers o di muratori; oppure strutture di microcredito o mutuo soccorso. In ogni caso, hanno come elemento costitutivo l’innovazione sociale e tecnologica, elementi quest’ultimi che fanno ormai fatica a farsi strada nel capitalismo contemporaneo. La sharing economy è semmai da considerare la fase parassitaria dell’appropriazione privata di innovazione, che viene prodotta all’esterno dai rapporti capitalistici. La griglia interpretativa di questa ultimi sussulti del capitalismo Mason la trova nella teoria delle onde lunghe di Kondratiev, dove l’evoluzione dello sviluppo economico vedono un alternarsi di sviluppo, crisi, nuovo sviluppo. Ma quel che Mason aggiunge è che l’economista russo aveva previsto la fine del capitalismo coincidente con l’esaurirsi della spinta propulsiva dell’onda che lo ha portato a occupare tutto lo spazio economico e sociale del pianeta. Per una ironia della storia, quando il capitalismo diventava globale c’erano tutte le basi di un suo superamento.

Postcapitalismo ha l’indubbio fascino di inanellare fatti, frammenti teorici, esperienze sociali, storie delle idee al fine di restituire un affresco credibile della crisi attuale e della sharing economy come risposta alla crisi.
L’economia della condivisione è la manifestazione più evidente della messa al lavoro della conoscenza, degli affetti e delle relazioni sociali. Fa bene Paul Mason a ricordare il Frammento delle macchine di Marx, ma ciò che nel suo schema teorico non torna è che quando scrive della messa al lavoro della conoscenza fa sempre riferimento a una conoscenza individuale. La sharing economy segnala invece che ciò che viene sfruttato è la dimensione collettiva nella produzione del sapere e delle relazioni sociali. La sharing economy «cattura» questa attitudine dell’animale umano a cooperare per trasformarla in attività economica. I casi eclatanti di Uber o di Airbnb evidenziano cioè tanto la «cattura» che l’«estrazione» da una cooperazione sociale già data. Da questo punto di vista l’innovazione non sta solo nello sviluppo di applicazioni – l’economia delle app -, quanto nel definire progetti attinenti all’umano «stare in società». Finora questo ha coinvolto la possibilità di affittare stanze della propria abitazione o l’automobile, trasformandole in attività economiche.
In ogni caso, le imprese hanno la funzione da intermediazione tra il «pubblico» e il fornitore dell’abitazione o dell’automobile all’interno del regime di accumulazione capitalista, mentre l’innovazione è necessariamente «esterna» allo scambio economico. Le «app» infatti sono sviluppate da piccoli gruppi di informatici e non solo in cerca del colpo gobbo che farà arricchire tutti. Ed è per questo motivo che nella sharing economy le imprese devono esercitare quasi in una condizione di monopolio per garantirsi alti profitti: un monopolio costruito attraverso il regime della proprietà intellettuale e la capacità «politica» di imporre relazioni fortemente individualizzate nella prestazione lavorativa. Come questa tendenza alla condivisione possa consentire il superamento del capitalismo è la domande che non può essere liquidata nell’invito a moltiplicare le forme di mutualismo e di piccole attività economiche non mercantili, delegando a una dimensione vertenziale (sindacale?) il compito di correggere la rotta delle politiche economiche.
Per Paul Mason tale invito è articolato nel suo «progetto zero». Progetto suggestivo laddove individua nella diffusione virale di attività di autogestione e autorganizzazione la capacità di esercitare un contropotere che svuota dall’interno il capitalismo. Ma è proprio qui che l’analisi di Mason mostra la sua ingenuità. Il mutualismo, lo sviluppo di attività economiche – lo studioso americano Trebor Scholz le definisce platform cooperativism – sono certo pratiche sociali di resistenza alla sharing economy, ma ciò che manca loro è una cornice politica che ne garantisca la continuità e la capacità di rendere permanente il potere costituente di quelle stesse pratiche. Detto altrimenti: in Mason, così come in altri teorici che seguendo strade diverse del giornalista britannico sono giunti a conclusioni analoghe, ciò manca, indebolendo così anche la sua analisi, è una teoria del Politico, cioè dell’organizzazione che entri in rotta di collisione con forme di impresa che agiscono a livello globale e dunque anche locale. Senza un’idea del Politico il Postcapitalismo è solo un virus mutante della sharing economy. Ciò che serve è la capacità politica e sociale di agire globalmente contro i centri del potere politico e economico, producendo forme di autorganizzazione locale, laddove cioè dove la sharing economy accentua la precarietà, favorisce il monopolio per estrarre profitti dalla cooperazione sociale. È questo il «progetto zero» che ancora manca all’appello. E che può essere però definito senza attendere messianicamente l’avvento del Postcapitalismo.

Compagno robot /2

Paul Mason. Il postcapitalismo? Un’utopia socialista in salsa hi-tech 
Restampa 26 3 2016
MARX È MORTO MA ANCHE IL CAPITALISMO non sta tanto bene. E allora bisogna voltare pagina: «La nuova classe rivoluzionaria è tra noi: sono i white wire people, i sempre connessi, quelli con gli auricolari. E i robot saranno i loro alleati». Così parla l’ultimo dei tecnoentusiasti, Paul Mason, inglese, giornalista economico e ora star del Postcapitalismo, come ha intitolato il libro appena uscito in Italia con il Saggiatore.
Oggi anche i più incalliti tecnofedeli della rete libera fanno i conti con la realtà e iniziano a esprimere dubbi. Lei invece parte dalla tecnologia per proporre un’utopia addirittura di sinistra.
«Il capitalismo si basa su risorse scarse, mentre l’informazione è una risorsa abbondante: con il web abbiamo raggiunto la possibilità di crearla e riprodurla senza limiti. Questo elemento farà saltare il vecchio sistema. L’uomo del futuro sarà istruito e connesso, la società non si baserà su capitale e lavoro ma su energia e risorse: il postcapitalismo è un’utopia socialista in salsa tecno. Esperienze collaborative come Wikipedia dimostrano che una rete della condivisione è possibile. Quanto ai robot so bene che l’università di Oxford prevede la scomparsa del 47 per cento dei lavori a causa loro. Dico però che sono un antidoto, non un pericolo. Grazie a loro, quando l’informazione avrà reso molte cose gratuite potremo rinunciare agli impieghi di basso valore e prediligere meno lavoro, più produttivo. Insomma, potranno liberarci dai lavori più alienanti: tecnologia può significare conoscenza diffusa ed equità».
Equità? In realtà la tecnologia dell’informazione è in mano a pochi: Google, Facebook... E il capitalismo non è mai stato così aggressivo. Almeno così dice chi critica il suo “postcapitalismo”, come Evgeny Morozov.
«I monopoli sono proprio il tentativo del capitalismo di dominare un cambiamento inevitabile. Quando puoi prendere un’informazione, ad esempio una traccia musicale, e copincollarla all’infinito, il prezzo tende inevitabilmente allo zero. Il monopolio consente di controllare quell’informazione e imporre artificialmente un prezzo. Ma una visione alternativa è assolutamente possibile. La rivoluzione dell’informazione suggerisce invece abbondanza e prodotti gratis».
Gratuità, lavoro volontario in stile Wikipedia e porte aperte ai robot. Scusi, ma nel suo postcapitalismo come ci si mantiene?
«In una fase di transizione sarà fondamentale che lo Stato garantisca il reddito di cittadinanza universale. Poi verremo “pagati” sempre di più in servizi: i salari diventeranno sociali, fino a sparire lentamente».
Lei dice “economia della condivisione” e viene in mente la sharing economy di Uber. È questo che ha in mente?
«No, Uber non è un sistema equo, al contrario: è una piattaforma di self impoverishment, spinge alla competizione estrema e allo sfruttamento. Io ho in mente Wikipedia: il
peer- to- peer, la rete paritaria, elevata a potenza, un modello basato su competenze diffuse e collaborazione».
Lei sostiene che la sinistra politica non sta capendo nulla di quanto sta accadendo. Che “si rifiuta di vincere”. Neppure Bernie Sanders la entusiasma?
«Sì, trovo interessanti sia lui che Jeremy Corbyn, sono due politici che conoscono le abitudini della “generazione connessa”, che del resto li vota. Mi piace anche la sindaca Ada Colau, di Podemos: a Barcellona ha aperto un bel ragionamento sulla
smart city. Dico però che la sinistra non ha saputo sfruttare le contraddizioni tra mercato e economia dell’informazione. Il neoliberismo dell’austerity non darà risposte efficaci quando i robot ci toglieranno il lavoro. La condivisione sì. Ovviamente in questa transizione lo Stato ha un ruolo chiave: può rompere le asimmetrie che consentono i monopoli, primo fra tutti quello dell’informazione. Provi a immaginare: se potessimo utilizzare tutti i dati che finiscono in mano alle corporation per fini pubblici condivisi, non sarebbe una vera rivoluzione?».
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Compagno robot /1
Noam Chomsky. Che meraviglia se le macchine ci rubassero il lavoro
Repubblica Cult 27.3.16
C’È UN MANTRA CHE NOAM CHOMSKY, ottantasette anni, ripete con energia durante tutta la nostra intervista: « It’s our choice », dipende da noi. Dipendesse da lui, celebre linguista famoso in tutto il mondo, intellettuale mai tenero con il potere, allora una chance ai robot bisognerebbe darla. «Potrebbero essere loro a liberarci dal guinzaglio della routine», a farci correre sui campi incolti della creatività e del piacere.
Professor Chomsky, secondo lei che cosa dobbiamo aspettarci nel prossimo futuro dallo sviluppo dell’intelligenza artificiale?
«Si può intendere l’intelligenza artificiale in due modi. Il primo è quello a cui ho dedicato la mia vita: l’indagine sull’intelligenza umana, il tentativo di ricostruirla. Molto dev’essere ancora dimostrato, ma con la “rivoluzione copernicana” della linguistica abbiamo finalmente inteso il linguaggio come proprietà biologica, mostrando che l’enorme varietà linguistica può essere ricondotta a un sistema molto semplice che genera il pensiero. L’altro modo di intendere l’intelligenza artificiale è il lato ingegneristico della faccenda: i dispositivi utili, ad esempio le macchine che si guidano da sole. Vuol sapere come vedo quel tipo di futuro? Con entusiasmo».
Il premio Nobel per l’economia, Paul Krugman, però mette in guardia: dice che in realtà i robot ci ruberanno il lavoro, e che la diseguaglianza è dietro l’angolo. A lei il tema dell’uguaglianza sta a cuore. I robot valgono il rischio?
«Chi accusa i robot di toglierci lavoro dovrebbe avere dalla sua parte l’evidenza: la produttività dovrebbe aumentare, cosa che al momento non avviene. Ma se davvero le macchine dovessero rimpiazzarci, io direi: bene! Sarebbe un enorme beneficio per l’umanità. Certo, quando un robot subentra in un certo settore ci saranno problemi di adattamento, i lavoratori di quel settore devono essere reimpiegati. Ma un mondo robotizzato è una possibilità di liberazione ».
Liberazione da che cosa?
«Ma dalla routine, dal lavoro ripetitivo e alienante. Chi di noi desidera stare otto ore a una cassa di supermercato piuttosto che dedicarsi alle cose che ama? Se i robot facessero il lavoro che ci annoia al posto nostro, saremmo liberi di creare, di concentrarci sull’innovazione. Potremmo dedicarci al piacere».
Cosa le fa pensare che l’automazione verrà gestita portando più libertà ed equità? Oggi le tecnologie dell’informazione sono in mano a poche grandi aziende che offrono servizi “masticando” i nostri dati. E se nel futuro i benefici che secondo lei saranno prodotti dai robot alla fine andassero solamente a favore di pochi?
«Dipende da noi, la tecnologia è neutrale, è come un martello: puoi usarlo per torturare o per costruire. La scelta è politica, il futuro è un bivio: se immagini la tecnologia gestita da pochi grandi centri di potere, se pensi a un “neoliberismo in salsa tech”, allora devi persino temere nuovi totalitarismi — penso alla sorveglianza da “Grande fratello”, ad esempio. Ma se la immagini in mano alle persone, se pensi a una svolta tecnologica democratica, allora intenderai l’opposto: più conoscenza uguale più uguaglianza. Quale tra le due strade prenderemo? Non si tratta di cataclismi naturali ma di come faremo la Storia».
L’etichetta di radicale che alcuni le attaccano sulla schiena le pesa?
«Oggi viene definito radicale chiunque esca dal pensiero dominante, perciò lo prendo come un complimento. Bernie Sanders si ispira al New Deal, eppure c’è chi lo definisce estremista. Quanto a me, penso che i lavoratori debbano disporre del loro lavoro, e mi ispiro in ciò al socialismo libertario. Ma queste sono eredità del neoliberalismo classico: prendo molto sul serio pensatori come John Stuart Mill, sono grandi classici. Io stesso mi sento un “classico”, se però vi piace chiamatemi pure “radical”…». 

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