rispondere quasi sempre sì. Se si tratta di un tentativo di capire il mondo, o, come nel caso del libro di Albinati, ancora più precisamente un tentativo di trovare un modo di starci, nel mondo, allora no. Allora sono poche. Sono sempre poche.
“I miei maschi violenti spaventati dalla tenerezza”
Parla l’autore arrivato primo nella cinquina del premio Strega conLa scuola cattolica, romanzo ambientato nel 1975 intorno al massacro del Circeo:”Siamo in un sistema autoritario e lassista” Francesca Sforza Busiarda 17 6 2016
La stanza in cui è nato il romanzo di Edoardo Albinati La Scuola cattolica, edito da Rizzoli, ricorda quella di Carrie Mathison in Homeland, con le pareti tappezzate di foglietti colorati per orientarsi all’interno della trama - padre 1, padre 2, SLM 1-2-3, QT, Arbus, Cosmo - e colori diversi per orientarsi. Un lavoro lungo, un romanzo vero, che sulla colonna vertebrale del delitto del Circeo ha innervato i tanti tessuti da cui è composta l’Italia: la borghesia, il cattolicesimo, i conflitti generazionali e fra i sessi, l’adolescenza sempre diversa e sempre uguale. La stanza di Albinati si affaccia su una strada del Quartiere Trieste, a Roma, dove tutto inizia e intorno a cui tutto ruota.
Quanto è italiano il Quartiere Trieste?
«La letteratura crea delle tipicità capaci di andare oltre il tipo. E in un luogo se ne riflettono infiniti altri. Roma è fin dalle sue origini una città di mezzisangue, lo sosteneva persino l’imperatore Claudio. E il Quartiere Trieste (nel libro è il QT) è nato proprio come residenza per i non romani: urbanisticamente era un’appendice che doveva servire i ministeri disposti su via XX Settembre e sulla Nomentana, realizzato per nobilitare un poco una borghesia ancora immaginaria, tutta da creare, con i suoi villini, le palazzine, i giardini, le strade alberate... Anche la mia famiglia era così: mio padre lombardo, mia madre di genitori piemontesi ma nata a Imperia. Ce n’è abbastanza per ricreare nel QT un microcosmo romano, certo, ma anche italiano, e non solo».
Cosa risponde a chi la accusa di un eccesso di narcisismo?
«Hanno ragione, è un libro narcisistico, visto che il collante di tante situazioni e storie sono io. Come narratore, faccio da garante alla miriade di riflessioni, episodi, digressioni e personaggi del libro, altrimenti tutte queste storie fuggirebbero per la tangente. E poi, ancora, sono davvero io quel ragazzo e poi quell’uomo che racconta in prima persona? Il lettore, mi spiace, deve arrendersi a questa inverificabilità».
Parliamo del materiale, quali sono le prove di questo libro?
«Scaffali interi: verbali, processi, saggi sulla violenza, sul genere maschile e femminile, sulla famiglia… e poi politica, religione, l’architettura, il terrorismo, lo stupro... Quando in questi anni mi è capitato di raccontare a qualcuno cosa stavo facendo - questo strano enorme libro - per spiegarmi dicevo: “Vedi, è come se stessi collazionando l’opera di un autore morto, io sono il redattore che si trova a mettere insieme i pezzi di un libro ritrovato e disperso, che va completato».
L’educazione cattolica e l’ossessione per il sesso, che connessione c’è?
«Forse il dato specifico di quella ossessione non si deve all’educazione religiosa bensì al fatto che il nostro istituto fosse esclusivamente maschile. Peraltro, il San Leone Magno era una scuola piuttosto liberale, ispirata a una tolleranza d’epoca che forse, involontariamente, non ha ostacolato alcuni suoi studenti nello sviluppare tendenze pericolose».
Si definisce cattolico, o cristiano?
«Ammiro il cristianesimo ma resto in polemica aperta per la passione smodata che nutre verso i malfattori. Pur insegnando io in un carcere, resto stupito e amareggiato da tutta questa indulgenza verso le pecorelle smarrite, i figlioli prodighi, e infastidito dal proclama che “siamo tutti colpevoli”: in una società come quella italiana credo che questo atteggiamento abbia procurato danni enormi. Con certe tendenze non si può essere indulgenti, mai. E’ la grande contraddizione di un sistema che riesce a essere autoritario e lassista allo stesso tempo».
Lei indica nell’assenza di una cultura della tenerezza fra maschi la radice della violenza maschile. E’ ancora così?
«Tra i maschi è ancora difficile rivelarsi e scambiarsi la propria intimità, perché subito assume una coloritura erotica, e quindi omosessuale, e di qui la paura di essere scambiati per… Non potendo riconoscersi nella chiave della tenerezza, allora ci si riconosce attraverso l’aggressività e il dominio (contrario esatto della tenerezza), prima verso gli altri maschi poi verso le donne, come ultime destinatarie dell’esigenza di tenerezza. Quando i maschi non riescono a investire naturalmente questo desiderio tra di loro, allora ne chiederanno ragione, lo imporranno, lo strapperanno alle donne».
La scarsa coloritura delle ragazze rispetto alla vividezza degli assassini, cosa è cambiato dai tempi del delitto del Circeo a oggi?
«Non molto, penso abbia a che fare con il meccanismo della percezione dello stupro, e, in genere, della violenza, anche perché colui che vi sopravvive è il colpevole, mentre spesso alla vittima è riservato solo un “supporting role”. A meno che non si tratti di un personaggio famoso, o di una persona che si desiderava punire per un motivo preciso, ex moglie o ex fidanzata, la vittima nello stupro è interscambiabile. Ciò che le vittime hanno in comune è l’essere indifese, facili da colpire: un donna sola in un luogo isolato, straniera, disabile, oppure ubriaca e drogata, come avviene adesso nello stupro da discoteca».
C’è molto dell’uomo in questo libro, c’è molto del figlio, c’è poco del padre, fatta eccezione per un episodio in cui entra in scena sua figlia. Si parla molto di sesso nel libro, di educazione o maleducazione sessuale. Voleva dire qualcosa anche a loro?
«I miei quattro figli… Una di loro, Adelaide, ha letto il libro e mi ha aiutato a correggerlo perché è una ragazza obiettiva, una grande lettrice. Sapevo che facendolo leggere a lei non l’avrei scandalizzata, ma avrei avuto un giudizio sul testo, sulla scrittura, sulla sua tenuta. Dagli altri attendo l’esito della loro lettura: è un libro così lungo… So che non sarà semplice per via di questa autorivelazione del loro padre in aspetti che non conoscono, ma anche lì credo che queste rivelazioni siano necessarie. Sarebbe come dire: “Mia madre fa la modella di costumi da bagno, devo abituarmi a vederla sui manifesti, seminuda, perché quello è il suo lavoro”. Ecco, il mio lavoro è anche farmi vedere seminudo o nudo, e mostrare la nudità degli altri, senza riguardo alle vite reali se non quello di darne conto con intensità e profondità. Il tradimento non è il racconto o l’invenzione, bensì la sciatteria. Se butto via un segreto, devo farlo in modo tale che sia letterariamente forte e risarcisca, eventualmente, il dolore che quella rivelazione ha provocato».
Ci sono tantissime donne in queste pagine, si immagina qualcuna realmente esistita… Cosa hanno detto, si sono arrabbiate?
«Le donne che si riconoscono in presenza o in assenza (o perché c’erano o perché non c’erano, o non c’erano abbastanza), si lamentano di come sono state raffigurate. Quando dalla vita si passa alla letteratura nessuno è mai soddisfatto del risultato, anche Beatrice probabilmente si sarebbe lamentata di Dante, - “Quante esagerazioni su di me!”, avrebbe detto. Se però considero le lettrici in generale, be’, sono loro ad avermi comunicato maggiore entusiasmo. Molte mi hanno scritto che non si aspettavano, da parte di un uomo, un ritratto così spassionato e critico dell’identità maschile. “Era ora che un uomo scrivesse questo!, mi hanno detto”».
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI
Una briciola di coraggioanni 70, quattro compagni di liceo e la violenza di un gelato spiaccicato in faccia. Un racconto autobiografico dall’autore de “La scuola cattolica” di Edoardo Albinati Repubblica 19.6.16
SPESSO SI ESITA SENZA MOTIVO prima di procedere alla scelta dei gusti con cui comporre un cono gelato, sbirciando oltre la vetrina alla ricerca di chissà quale novità. Su quattro che eravamo quella sera, solo Arbus rispose senza incertezza, «Crema e cioccolato», «Con un po’ di panna?» «No, senza». Oltretutto, fino all’epoca in cui accadde l’episodio che mi accingo a narrare malgrado la sua quasi assoluta insignificanza, le gelaterie anche le più rinomate disponevano di pochi gusti-base, sempre quelli, sempre gli stessi, sette-otto al massimo, nascosti nel frigo di acciaio inossidabile: solo il gelataio sapeva quali fossero e per cavarli fuori a cucchiaiate stappava in sequenza rapidissima i coperchi tondi, chiudendone uno mentre ne apriva un altro con gesti professionali e gelosi, destinati a non lasciar fuoriuscire il freddo, ma anche a celare quale delle vaschette interne coi diversi gusti fosse piena e quale vuota o quasi vuota, il che era dato intuire solo quando ci sprofondava dentro il braccio.
Oggi l’offerta è di una varietà tale da dare il capogiro: Pistacchio selvaggio di Bronte, Mascarpone e pere allo zenzero, poi Dulce de leche salato, Cioccolato alle mandorle d’Avola… Maracuja… «La scelta provoca angoscia», disse Arbus, cominciando a leccare il gelato, mentre Marco Lodoli ed io, appunto, esitavamo, e Rummo si teneva in disparte, per educazione. Sapere attendere, lasciare il passo agli altri, servirsi ultimo era la morale praticata a casa Rummo, nella sua numerosa famiglia.
… perché portiamo la camicia nera hanno detto che siamo da catene, hanno detto che siamo da galera!
Girammo tutti la testa verso l’angolo di via Alessandria.
Provenienti da Corso Trieste, lo stavano svoltando proprio in quel momento tre persone, e venivano diritte verso di noi. Facevano risuonare la suola degli scarponcini sul marciapiedi. Non camminavano, marciavano, proprio come soldati, battendo il passo, e come soldati indossavano divise. Due erano uomini grandi e grossi, dalle spalle quadre e le maniche della camicia arrotolate sugli avambracci. L’altra era una ragazza anch’essa tarchiata, che spingeva in fuori i taschini cuciti sulla camicia cantando a squarciagola, come se volesse essere udita fino agli ultimi piani delle case di via Alessandria. Tutti e tre calzavano fieramente di traverso baschi neri. Capelli corti la donna, cortissimi gli altri due.
Arbus, Lodoli ed io eravamo sul marciapiedi fuori dalla gelateria mentre Rummo si attardava a pagare il suo cono, estraendo gli spiccioli dal fondo di una tasca. La paghetta a casa Rummo veniva distribuita in monete. «Anvedi questi…» mormorò Lodoli e scosse la testa riccia quando la ronda si trovava ancora a una ventina di passi da noi, poi si chinò sul suo gelato, che, a differenza di Arbus, aveva voluto alla fragola e pistacchio, con guarnitura di panna, e gli diede una leccata. Arbus stava studiando il suo cono e lo scolpiva con la lingua in modo che mantenesse, man man riducendosi di dimensioni, l’originale forma geometrica. Solo io non leccavo il gelato ma guardavo il gruppetto avvicinarsi. Il modo in cui oscillavano le braccia rigide avanti e dietro era marziale e al tempo stesso surreale. Ci scansammo per lasciarli passare. Proprio alla nostra altezza, batterono forte il passo in terra, e mi guardarono negli occhi tutti e tre. Sono sicuro ancora adesso, quarantacinque anni dopo, che guardarono soltanto me, dritto negli occhi, forse perché ero il solo che non fosse concentrato sul suo cono, o che mostrasse curiosità e stupore nei loro confronti.
O forse perché di noi quattro compagni di quarta ginnasio ero quello appena un poco sviluppato, che appariva grandicello insomma, dato che Arbus e Lodoli erano alti ma molto esili, mentre Gioacchino Rummo, che ci aveva finalmente raggiunto sul marciapiedi, pur avendo compiuto i quattordici anni sembrava ancora un bambino, con il taglio dei capelli biondi fatto in casa, le guance colorite, allegro, innocente.
Fatti altri tre o quattro passi e dato un pestone in terra per segnare il passo, uno della ronda girò la testa e mi squadrò di nuovo. I nostri occhi si incrociarono. Non feci in tempo a distogliere lo sguardo che lui stava tornando indietro. Mi venne vicino. I suoi camerati assistevano con le mani sui fianchi. Era appena più alto di me. Sorrise.
«Perché non canti anche tu con noi?» «Non so la canzone», mi venne da dire. Era una risposta buttata lì, una risposta ridicola, e infatti la donna scoppiò a ridere rovesciando la testa in modo teatrale.
«Vuoi che te la insegni?» Restai zitto. Qualsiasi cosa avessi detto, era sbagliata. Avrei voluto girarmi e cercare il sostegno dei miei compagni di classe, ma lo sguardo dello sconosciuto, i suoi occhi neri, le folte sopracciglia, la barba rasata che premeva sotto la pelle lustra, esercitavano su di me un controllo totale.
«Dai su, cantiamo insieme», e intonò: « Ce ne freghiamo. La Signora Morte/ fa la civetta in mezzo alla battaglia/ si fa baciare solo dai soldati… Dai, ripeti: ce ne freghiamo, la Signora Morte… ».
Rimasi zitto. Lui come se niente fosse continuò: « Sotto ragazzi, facciamole la corte!
Diamole un bacio sotto la mitraglia! » Se non avessi avuto il cuore che batteva all’impazzata avrei staccato una per una quelle parole, “morte”, battaglia”, “bacio”, “mitraglia”, e le avrei ricomposte in un ordine diverso, che ne avrebbe cambiato il significato. Ma non potevo. Ero in apnea.
«Allora?» Scossi la testa e così vidi i miei compagni, che io pensavo lontanissimi come se una ventata lì avesse fatti rotolare giù per via Alessandria, come se il canto di guerra intonato dalla ronda li avesse spazzati via dalla scena, e invece erano lì, accanto a me: ma non facevano nulla. Forse negli occhi di Lodoli si poteva leggere un disperato, e impotente, desiderio di intervenire in mia difesa, forse in quelli di Arbus c’era il suo consueto glaciale distacco…. mentre sembrava che Rummo, incredulo o ingenuo, non avesse ancora capito bene in che frangente ci trovavamo, anzi, in cui mi trovavo. Perché era proprio con me, era solo con me, che i camerati avevano deciso di prendersela, i miei compagni di scuola non si dovevano impicciare, la faccenda non li riguardava.
«Allora, non canti?» Tacqui.
«Ma sei fascista o no?» «No» La breve mia risposta anticipò come un lampo ogni pensiero. Non avevo fatto in tempo a calcolare l’opportunità di quella dichiarazione che essa, spontaneamente, uscì dalle mie labbra. Potrei dire che mi sfuggì e che corrispondeva al vero, ma potrei aggiungere che, se anche fossi stato fascista, gli avrei detto lo stesso di no. No. No. Il no è la risposta in cui si concentra la forza di un ragazzo specie quando è poca. Si può persino dire di no a se stessi.
Nel nostro quartiere, il quartiere Trieste, il QT, evidentemente si dava per scontato che i ragazzini di buona famiglia fossero camerati.
Dovevano esserlo. Ma non era così.
«Ah, capisco…», esclamò l’uomo in divisa, e delicatamente sfilò il cono dalle mie dita, come fa il gelataio quando ne prende uno dalla pila, «Peccato!», e iniziò a spiaccicarmelo in faccia. Fece questo, lo ripeto, con una certa delicatezza, tanto che il cono di ostia sottile non si spezzò, finché ebbi tutte le guance coperte di crema e cioccolato, cioè i gusti da me scelti per imitare Arbus. Se spesso faccio cose per distinguermi, più spesso ancora le faccio ricopiando qualcuno, prendendolo a modello, e a quei tempi il mio era Arbus, il genio della classe. Lo imitavo quasi senza accorgermene, per questo avevo preso un gelato uguale al suo così come leggevo i libri che leggeva lui e ascoltavo affascinato la Notte trasfigurata di Schönberg senza distinguerne una sola frase musicale, solo perché la ascoltava lui.
Quando il gelato fu quasi per intero sparso sul mio viso, e cominciò a colarne giù, «ecco qui», disse l’uomo in divisa e premette il cono in modo che s’incastrasse sul mio naso. «Pinocchio! », rise, «Pinocchio, non dire più bugie… ». Fu quello il momento più umiliante, perché io, paralizzato, non osai scollarmi il naso finto e attesi che cadesse da solo per terra. I camerati risero, quello che mi aveva punito mi diede una pacca sulla spalla, e insieme si riavviarono, con la ragazza in mezzo, verso piazza Regina Margherita, stavolta tenendosi a braccetto come si fa nei cordoni delle sfilate. Una punizione dolce, molto zuccherata, quella che avevo ricevuto… Lodoli affettuosamente mi aiutò a pulirmi la faccia con vari tovagliolini di carta. Arbus mormorò: «Sono dei poveri coglioni».
Come ho già chiarito si tratta di un episodio alquanto trascurabile della vita mia, della vita di quegli anni, della vita di quegli anni nel nostro quartiere, percorso da ben altri brividi di violenza, che mi sono deciso a rendere pubblico, sfacciatamente, solo perché una certa persona, solo perché una certa persona a me molto cara, a cui l’avevo raccontato anni fa per farci insieme due risate, mi ha più volte chiesto perché mai non l’avessi inserito in un mio recente libro, che in effetti è zeppo di aneddoti del genere, di epoca scolastica, e di grandi o piccole o infinitesimali avventure di quartiere. Questa cara persona, che è convinta di conoscermi come le sue tasche, e forse in effetti è vero, insinuava che io avessi tenuto fuori la storiella del gelato dal mio sterminato libro perché io, a conti fatti, non è che ci faccia una gran bella figura… insomma, che mi vergognavo allora e ancora mi vergogno di quel gelato spiaccicato in faccia dai fascisti senza muovere un dito. Senza reagire.
Inutile ammettere che lei ha fondamentalmente ragione. Eravamo noi compagni di classe in superiorità numerica, e tra quegli altri una donna, per quanto torva e atletica. Avrei potuto almeno resistere allo spiaccicamento del gelato in faccia e guadagnarmi in cambio un paio di cazzotti, sarebbe stato senz’altro più onorevole. È altrettanto inutile invocare le attenuanti: noi eravamo ragazzini e loro uomini fatti (quello che mi spalmò il cono in faccia aveva forse trent’anni) e di sicuro bene allenati in palestra a darle e a prenderle. Inoltre ci avevano colto di sorpresa, mentre loro facendo la ronda per il QT andavano apposta in cerca dello scontro. Ma è inutile, le attenuanti sono processi intellettuali che intervengono a posteriori quando la sconfitta è irreversibile e la vergogna… la vergogna resta intatta.
E il nostro dopotutto non si elevava nemmeno al rango di uno scontro vero e proprio: piuttosto di una lezione, di una lezioncina impartita da un adulto a un ragazzino abbastanza orgoglioso da dire di no, ma non abbastanza da sopportare virilmente le conseguenze di quel “no”. Orgoglioso solo a parole, con le parole… Rummo fu l’unico tra noi a mostrare un sentimento diverso sia dalla paura sia dalla vergogna, sia dalla stizza. Rummo fu il solo a dimostrare una qualità che di rado si manifesta in forma pura e disinteressata: almeno un briciolo di essa, e cioè, un briciolo di coraggio. Raccattò da terra il mio cono, corse dietro al terzetto, che aveva tranquillamente ripreso a marciare e cantare, e gli tirò addosso il cono. Il quale cadde tra i piedi della ragazza, che lo sbriciolò col tallone dell’anfibio, senza nemmeno darsi la pena di girare la testa per manifestare scherno o disprezzo. E dire che Rummo sì era davvero un bambino, ancora lupetto agli scout o poco più, e solo l’anno seguente avrebbe cominciato a crescere, a crescere una spanna dopo l’altra, diventando grande e grosso come tutti i Rummo, genitori, fratelli e sorelle. Tutti alti, biondi, e bravi.
Ce ne freghiamo. La signora Morte Fa la civetta in mezzo alla battaglia…
Non so se sia interamente vero, ma voglio affermarlo lo stesso: preferisco sbagliarmi su questo che avere mille volte ragione in altre faccende: il vero coraggio si sprigiona solo quando si è dalla parte del giusto.
1 commento:
Beh anche questo si può ritenere un articolo, una recensione, non certo sintetica, in proporzione lunga 1300 righe
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