Tutto il contrario rispetto a ciò che combinano Usa e Ue in Libia.
«Lì
il problema è che nell’est del Paese ci sono Egitto e Francia che
perseguono obiettivi differenti rispetto a Stati Uniti e Gran Bretagna:
Parigi mira ai campi petroliferi, gli altri invece a distruggere l’Isis.
La Comunità internazionale è ancora divisa su quali fazioni locali
debbano essere appoggiate nella lotta a Daesh». E l’Italia? «Fino ad ora
abbiamo mantenuto una posizione molto cauta e del tutto logica, che
forse sarà vincente. Evitiamo che i libici considerino l’intervento
internazionale come una specie di conquista coloniale. L’Italia persegue
i suoi obiettivi indirettamente, appoggiandosi agli Stati Uniti: per
noi il problema fondamentale non è l’Isis, ma l’immigrazione. Per questo
è decisivo il controllo delle coste, che si può raggiungere solo
stabilizzando la Libia e con l’aiuto dei libici: ciò spiega la cautela
del nostro governo».
Lei dice che per
l’Italia, più dell’Isis, il problema saranno i flussi migratori. Dopo le
sue considerazioni sulla Libia ne deduco che ci attende un periodo
drammatico.
«Il punto è che l’Ue non è in
condizioni di gestire le ondate migratorie: servirebbero una forte
coesione politica e responsabili all’altezza delle sfide da affrontare.
Poiché tutto ciò non esiste, e poiché la politica estera non si può fare
con le lacrime della Mogherini, ogni paese deve provvedere da solo,
secondo i suoi interessi».
Pare chiaro il
riferimento all’Austria: prima gli scontri al Brennero, poi la minaccia
di chiudere il confine. Arriveremo a quel punto?
«Sì,
per un semplice motivo: si tratta del confine che porta la rotta
Mediterranea dei migranti verso l’Europa centrosettentrionale. Anche la
Svizzera, infatti, sta mobilitando l’esercito. E per l’Italia, a
peggiorare il quadro, c’è il fatto che con la quasi completa chiusura
della rotta Balcanica, quella del Mediterraneo centrale e quella
Adriatica acquisiranno maggiore importanza». Soluzioni? «La priorità è
creare una barriera libica, selezionare e respingere i migranti
economici. Detto in termini più brutali, sia chiaro si tratta di una
provocazione, far morire gli aspiranti migranti nel deserto, dove
nessuno li vede, e non nel Mediterraneo: altrimenti il polverone che si
alza, anche a causa di un Papa che si agita un po’ troppo, impedisce di
gestire l’emergenza. Per creare questa barriera servono accordi con
Tunisia ed Egitto, nonostante l’assassinio di Giulio Regeni».
Ecco, il caso Regeni: dovremmo chiudere un occhio per interesse?
«Assolutamente
no. E comunque l’interesse è congiunto: l’Egitto non vuole avere
problemi con il suo maggiore partner economico. Con il richiamo
dell’ambasciatore, però, abbiamo fatto una figuraccia: non pos- siamo
imporre un’escalation, anche perché oggi l’Egitto, per i nostri partner
occidentali, è strategicamente più importante. Siamo isolati».
Un’idea su ciò che è successo a quel ragazzo se l’è fatta?
«Nei
regimi autoritari agiscono molti attori differenti, nessuno ha le mani
pulite. Pensi a quanti italiani ha fatto fuori il tribunale speciale di
Mosca, il cui segretario era Togliatti. Non so cosa sia accaduto a
Regeni, ma chi lo ha spedito là senza protezioni e vie di fuga è stato
un disgraziato. Lo ha mandato allo sbando».
Parla della sua professoressa di Cambridge, Anne Alexander?
«Esattamente.
Fino a oggi la sua responsabilità è stata considerata molto poco: lo ha
mandato a sfrugugliare gli affari più sporchi di un governo
autoritario. È come spedire qualcuno in Corea del nord a protestare
contro gli esperimenti nucleari di Kim Jongun».
Perché nel Regno Unito si parla del ruolo di questa signora e in Italia invece no?
«Andava
contro l’emozione e l’opinione pubblica, da cui la Farnesina,
soprattutto in periodo elettorale, è troppo dipendente. E l’opinione
pubblica ha subito deciso che a uccidere Regeni siano stati i servizi
segreti egiziani: non ha voluto sentire argomenti differenti e non ha
voluto individuare altri colpevoli. Ma quella donna sapeva che Giulio
era in pericolo: perché non lo ha fatto rientrare, e subito? Per capirci
qualcosa, però, dovremmo indagare anche sui referenti locali di Giulio,
sull’italiano che ha telefonato all’ambasciatore subito dopo la
scomparsa. Era legato alla rivista di Cambridge per cui scriveva Regeni,
rivista diretta da un ex agente della Cia...».
Chi accusa l’Italia di una reazione troppo blanda sbaglia?
«Cosa
dovremmo fare, bombardare il Cairo? Di sicuro, però, stiamo facendo una
figuraccia. Pensi al discorso di Al Sisi di pochi giorni fa: in
sostanza ci ha detto di non rompergli i cosiddetti, perché l’Egitto non è
la Svizzera. E in effetti quando si fanno certe cose in certi paesi
bisogna essere consapevoli dei rischi che si corrono. E chi sostiene che
l’Italia possa piegare l’Egitto con sanzioni economiche è ridicolo».
Torniamo
in Europa, agli attacchi in Belgio. Lei ha criticato chi accusa di
incapacità l’intelligence di Bruxelles. Un’altra opinione
controcorrente: nulla da rimproverare?
«(Sbuffa)
Ancora quest’affare delle colpe dell’intelligence... Ricorda il detto
di Napoleone? La qualità maggiore di un generale non è l’intelligenza,
ma la fortuna. Ovvero: il rischio non è mai zero, può capitare di tutto.
Anche in Italia: fino ad ora siamo stati capaci, ma anche fortunati».
Mi sta dicendo che la prevenzione è impossibile?
«Esiste
un’asimmetria strutturale tra attacco e difesa. Il terrorismo sceglie
l’obiettivo e il tempo dell’attacco, e se l’obiettivo è protetto ne
sceglie un altro. Inoltre le reti operative, in Europa, sono già
strutturate e pronte a colpire: per organizzare un attacco co- [Ansa] me
quello di Bruxelles basta una telefonata. Le forze di sicurezza
dovrebbero difendere tutto per 24 ore al giorno: mi spiega come è
possibile?». E dunque? «La cosa migliore da fare è quella che fu decisa
dagli Usa al tempo di Bush: eliminare le centrali del terrorismo
all’estero per non soffocare i nostri Paesi con le misure di sicurezza».
Ma con i foreign fighters, che sono già qui, come la mettiamo?
«Il
punto fondamentale è che i loro attacchi sono ispirati a una
particolare escatologia, che fa riferimento alla profezia di Maometto
relativa alla vittoria finale dell’islam a Dabiq. Per sconfiggere il
terrorismo dobbiamo vincerne l’ideologia, colpirla al cuore. Oggi Daesh
ha una scarsa capacità operativa, ma quella simbolica è ancora
fortissima: una volta che verrà distrutto lo Stato islamico in Siria e
Iraq la profezia di Maometto si rivelerà per quello che è, ovvero un
apocalittico bidone. Decadrebbe la possibilità che giovani frustrati si
radicalizzino trovando una nuova identità nell’essere terroristi».
Ne deduco che per lei quella combattuta dall’Isis sia esclusivamente una guerra di religione.
«Rispetto
a quasi tutte le altre guerre non vedo motivazioni strettamente
economiche. Le malefatte sono ispirate da una particolare lettura del
Corano».
Cosa risponde a chi dice che i morti in Siria sono come quelli di Parigi e Bruxelles?
«Che sbaglia: se loro sono così contenti di andare nel paradiso di Allah, aiutiamoli a farlo. E in fretta».
Massimo Fini ha detto che il kamikaze islamico ha una sua nobiltà. Cosa ne pensa?
«Come
battuta va bene. Di sicuro tutti i fanatici disponibili a sacrificare
la propria vita hanno una loro nobiltà. Mi spiego: ci credono davvero,
sono convinti dell’interpretazione coranica che ispira il loro martirio.
Se per questo intendiamo nobiltà, ha ragione Fini».
Passiamo agli Usa, Donald Trump: e se vincesse?
«Non
cambierebbe assolutamente nulla. Chi parla di minaccia planetaria
sbaglia: quali sono, realmente, i poteri del presidente americano in
politica estera? La politica estera viene stabilita dall’establishment: è
quasi immutabile, per variarla servirebbe un nuovo evento traumatico
come il crollo delle Torri».
Cala il sipario su Obama. Un brevissimo bilancio?
«Ha
combinato molti guai. Il surge in Afghanistan è stato quello che è
stato. È andato in giro a esaltare le cosiddette primavere arabe,
sostenendo che si trattasse di una specie di democratizzazione dal
basso, ma non sapeva neppure di cosa stava parlando. Poi l’Iraq: il
ritiro è stato ideologico, frettoloso, non ha tenuto conto né della
realtà né del parere del Pentagono. Ha lasciato i sunniti in balia di
al-Maliki, e il risultato è stato la nascita dello Stato islamico».
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