domenica 3 aprile 2016
Gnoli intervista un farmacista che purtroppo non amava i profilattici
ANTONIO GNOLI Restampa 3 4 2016
Ci sono vite che non passano mai. Più invecchiano e più sono ferme. Non desistono da quella immobilità tipica di alcuni animali quando cacciano o quando avvertono di essere diventati una preda. È tardi a Ro Ferrarese, quando arrivo nella casa di Giuseppe Sgarbi, di professione farmacista, cui si aggiunge un tardivo talento di scrittore. La vita di questo signore, a modo e di 95 anni, scorre fiutando il pericolo dei giorni che passano. Lo trovo seduto in cucina mentre attende la cena: «Vuole della salama da sugo? C’è un modo per cucinarla che solo qui conoscono». Il sapore leggermente violento, dopo il primo boccone, rinvia alle umide nebbie di queste terre. «Perché sia buona, va avvolta come un bambino nelle fasce, e cuocerla a lungo. Senza che tocchi il fondo della pentola», precisa Sgarbi. Penso alla forza di gravità e al modo in cui una cultura contadina ha provato bene di vincerla: «Non saremmo mai sopravvissuti a questo clima se non avessimo applicato certi principi di leggerezza». Quali? «La musica nelle balere, i valzerini, le donnine, gli sguardi, il buon vino lieve e tormentato».
C’è un mondo dietro a queste parole pronunciate con nostalgia pagana. La stessa, mi pare, che ha governato lunghi tratti del cammino di quest’uomo che ha avuto in sorte una moglie straordinaria, da poco scomparsa, e due figli, Vittorio e Elisabetta, che più diversi non potrebbero essere.
Sono così diversi come appaiono?
«Lo sono, lo sono. Vittorio è impetuoso, sorprendente, ha lo stesso atteggiamento per la vita che un assetato avrebbe per l’acqua. Elisabetta è discreta, pragmatica, permanentemente legata ai risultati visibili della sua intelligenza. Mi ha stupito che due ragazzi partiti dalla provincia abbiano fatto così tanta strada senza dimenticare le loro origini, mostrando il loro attaccamento a questi luoghi».
Secondo lei perché?
«Alla fine una qualche identità la devi pur avere. Si chiamano radici. Ferrara con i suoi dintorni è il loro mondo. È quello che Dio o la natura ti ha dato. Il resto sono conquiste o disfatte provvisorie».
Nella sua vita più conquiste o più disfatte?
«Mi vede, no? Sono un uomo semplice che pensa che il passato abbia un solo grande vantaggio: non passa più».
Passa nella nostra testa.
«Soprattutto di notte mi assalgono i ricordi. A volte me ne allontano spaventato. Altre me ne avvicino come uno sprovveduto e gioisco. È come stare su di un ottovolante: tutto si mescola, con rabbia e dolcezza».
È strano sentir parlare così un farmacista.
«Perché come parlano i farmacisti?»
Penso a certe figure rassicuranti, dedite alla cura altrui.
«Ho svolto la professione per più di sessant’anni. Sia io che mia moglie Rina, abbiamo esercitato. Ma in modo diverso. Lei era l’intelligenza, l’inquietudine, il desiderio di non fermarsi a Ro. Io incarnavo la resistenza, la pazienza, la calma. Non avrei mai cambiato con nulla di diverso questi posti. Mi bastava questo mondo: le persone che vi abitavano, le lente stagioni, il fiume e i suoi argini, dove andavo a pescare».
È nato qui?
«Non distante. Esattamente a Stienta. Nel 1921. I miei avevano un mulino. Studiai non per riscatto sociale, ma come diversivo. Non avevo la vocazione del farmacista. Ma era la laurea più breve. Con Rina Cavallini ci sposammo nel 1950. Arrivammo a Ro nel 1951, prendemmo in affitto la farmacia qui accanto e il resto della casa. Non c’erano soldi e non potevo immaginare che saremmo riusciti a comprare il tutto. Il 1951 fu anche l’anno dell’alluvione».
Quando tutto il Polesine andò sott’acqua.
«Fu più devastante della guerra. Anche perché la gente si stava appena riprendendo dai bombardamenti, dalla fame, dai rastrellamenti. Arrivò la botta terribile, una notte di novembre. Restammo increduli. Come è possibile che il fiume, fino a quel momento fonte di vita, ci portasse via tutto? Ebbi una sensazione stranissima. Vidi non tanto il Po che esondava, ma la terra finirvi dentro. Come inghiottita dall’acqua».
Lei come reagì?
«Provavo stupore, disperazione, impotenza. Pensavo a coloro che erano rimasti intrappolati nelle case, o in alcuni punti del fiume. Mi preoccupai dei miei che vivevano a Stienta, sull’altra sponda. Ma era rischiosissimo attraversarla. Alla fine fu una donna a traghettarmi. Ancora la ricordo: la Nena. Fu lei, anima di fiume, a portarmi con la sua barca. Disse solo: si faccia il segno della croce e puntò dritto con i suoi grandi remi verso il centro del fiume. Pensai che fosse pazza. L’acqua ribolliva. Un gorgo. Attorno arrivava ogni cosa: i cadaveri delle bestie, le suppellettili delle case, i tronchi. E lei schivava tutto. Con calma e forza. Pensavo che non ce l’avremmo fatta. Poi, come per miracolo, toccammo l’altra riva».
E sua moglie?
«Rina era rimasta a gestire la farmacia. Portando un po’ di soccorso a chi ne aveva bisogno. Il medico l’aveva consigliata di non strapazzarsi. Era incinta di Vittorio».
Com’era suo figlio da bambino?
«Mostrava la stessa esuberanza di oggi. Capitava che si azzuffasse con quelli della sua età. Già allora non era facile gestirlo. Quando mia moglie era in attesa di Elisabetta, decidemmo di mandarlo in un collegio. L’idea fu di dargli un’educazione solida ma anche segnata da regole. Di fatto l’esperimentò fallì».
Perché?
«Anche nel collegio dei salesiani riuscì a portare scompiglio. Scappava per andare a Este, inseguito dal guardiano. Poi un giorno il canonico del collegio mi disse che Vittorio leggeva dei libri messi all’indice e che per questo sarebbe stato punito. Io dissi: non può punirlo per un libro. Dovrebbe premiarlo. Il canonico mi guardò e disCos’è per lei il conformismo?
«Dare un senso discreto e ordinato alle cose che si fanno. I miei
figli hanno preso moltissimo dalla madre. Rina era fondamentalmente una
ribelle. Lei la nomade io il sedentario. Non a caso credo di avere
amato sopra ogni cosa la pesca sul fiume».
Solo la pesca?
«In queste zone di confine ci siamo sempre sentiti un po’ liberi. Fermi
ma capaci di muoverci con la fantasia e con i sensi. Ricordo mio padre
aver molto vissuto nel libertinaggio. Ma qui in queste zone il sesso
non ha mai comportato drammi o gelosie. In provincia, tutto quello che
riguarda l’amore furtivo diventa sogno o pettegolezzo. Anche la cosa
più proibita si ammanta di parole che vanno sussurrate o ammiccate».
Cos’è la fedeltà?
«Dovrebbe somigliare a una linea retta. Ma la vita ti porta a
deviazioni che a volte neppure immagini. La mia esistenza non è stata
un’odissea ma neppure un viaggetto. La guerra in Grecia e in Albania.
Poi l’esercito in rotta. La fame. Ero ufficiale nel reparto guastatori.
Dopo la firma dell’armistizio, da Ventimiglia con un camion di fortuna,
tornai a Stienta. I tedeschi rastrellavano. Gli inglesi bombardavano. I
cannoni britannici decapitarono il campanile di Stienta
che risaliva al tardo Quattrocento. I fascisti richiamavano gli
ufficiali in servizio. Mi nascosi. Seppi in seguito che alcuni amici
furono deportati in Germania. Ho avuto fortuna. Non sono stato un eroe.
Ma neppure un vile».
Ferrara, con la sua comunità ebraica a pochi chilometro da Ro, subì molte e terribili persecuzioni. Ne fu a conoscenza?
«Sapevamo delle leggi razziali, inique, umilianti, violente. Sapevamo
delle difficoltà, delle deportazioni. Ma senza poter immaginare fino in
fondo la vastità e la tragicità della persecuzione. Ricordo che lessi
con molto pathos
Le storie ferraresi
e poi
Il giardino del Finzi- Contini
di Giorgio Bassani, avendo la sensazione netta che nulla agli ebrei fosse stato risparmiato».
Ha conosciuto Bassani?
«Sì, bene. Ricordo anche una partita a tennis, a poche decine di metri
dalla farmacia su un campo di terra rossa. Era un avversario forte,
determinato. Mi batté con superiorità evidente. Capitava che venisse
qualche volta in casa. In un’occasione era presente anche Valerio
Zurlini. Ci fu una discussione tutta incentrata sul film che era stato
tratto da Il giardino dei Finzi- Contini.
Bassani non era affatto contento del modo in cui De Sica aveva trattato
il romanzo. Zurlini disse che quel film avrebbe dovuto girarlo lui. Ci
fu improvvisamente come un’alterazione del clima».
In che senso?
«Nel senso che la conversazione era andata avanti in modo tranquillo.
In quel momento appresi che Bassani aveva preferito che il film fosse
affidato a De Sica e non a Zurlini e quest’ultimo glielo rinfacciò, con
un tono secco e risentito. Erano come degli artisti che misuravano la
loro reciproca frustrazione. Bassani si congedò e Zurlini restò ancora
un poco. In silenzio avvolto in un maglione nero a collo alto. Non so
se era più l’eleganza della figura a colpirmi o la malinconia».
Malinconia perché?
«Perché al fondo credo che fosse un uomo che non amava il mestiere che
aveva scelto. Gli piaceva l’arte. Amava la pittura senese. Amava Giotto,
Masaccio. Mi raccontò che da giovane aveva conosciuto Morandi e che da
quell’incontro era nata un’amicizia con il grande artista. Lo disse
fissando il muro della stanza dove eravamo. Lo disse alzando il
bicchiere con il vino. Per un brindisi immaginario».
Oggi a chi brinderebbe lei?
«A mia moglie Rina, è stata una grande donna; al successo dei miei figli; un po’ meno a me».
C’è malinconia nelle sue parole.
«No, è solo la discesa verso qualcosa che ci chiama. Ogni tanto mi è
capitato di rimpiangere la famiglia come luogo della tradizione, dove
tutto è pace e ordine».
Come
si trova a vivere in una casa museo, stracolma di quadri, di sculture,
di libri. Non c’è angolo o parete che non rinvii all’arte.
«Mi sembra di aver vissuto di riflesso questo concentrato di bellezza e
di mondo antico. Stare in mezzo a tutte queste opere d’arte un po’ mi
spaventa. Certi giorni ne sento l’oppressione. Mi pare di non
conoscere quasi più nulla».
Si rimprovera qualcosa o rimprovera qualcosa ai suoi figli?
«Non mi rimprovero nulla. E dei miei figli sono orgoglioso. Vittorio mi
crea ansia. La sua bulimia di vita, di esistenza, sempre spinta al
massimo, avrebbe bisogno di qualche correttivo. Mi dà apprensione
sapere che è stato male e che fa ben poco per riguardarsi».
Quanto a Elisabetta?
«È una donna apparentemente normativa ma in realtà curiosa e perfino
più imprevedibile del fratello. Credo che lei abbia in qualche modo
sofferto e però accettato, di prendersi, ad esempio, una laurea in
farmacia. È stato un sacrificio, un dovere, nonostante avesse alle
spalle un liceo brillante. Lei era la figlia che non doveva esprimere
certe cose, doveva soltanto ristabilire l’equilibrio dopo il passaggio
del ciclone Vittorio. C’è stato come un patto non scritto tra di noi:
io e la mamma ci occupavamo di Vittorio e lei avrebbe fatto quello che
doveva fare».
Intende dire che ve ne siete disinteressati?
«Intendo dire che quasi tutte le forze le abbiamo convogliate sul
fratello. È come se Elisabetta sia vissuta in una libertà assoluta. Un
giorno mi ha detto: sai papà, ho ubbidito per trasgredire. Ecco, in
questo piccolo paradosso c’è lei. C’è un’indipendenza totalmente
diversa da quella di Vittorio».
Le dispiace che non abbia fatto la farmacista?
«No, ciascuno deve seguire il proprio corso. Il fatto che abbia scelto
l’editoria è la prova suprema di un’intelligenza, non di un ripiego».
Mi viene da pensare a una cosa.
«La dica tranquillamente».
Non deve essere stato facile per lei tutto questo?
«Mi viene in mente il verso di un uomo che non ha mai scritto nulla. Un
uomo intelligentissimo, a cui Vittorio si è spesso ispirato: Bruno
Cavallini, suo zio. Quando morì trovai queste parole, erano l’inizio di
una breve poesia: “Voglio vivere pescando”. Ho talvolta pensato all’ozio
che un gesto del genere nasconde. Alla calma e alla serenità che
trasmette. Anch’io avrei voluto vivere pescando. E per un po’ ci sono
riuscito: senza clamori, senza avventure, un farmacista al servizio del
proprio piccolo paese che quando poteva andava sul Po ad ammirare il
tramonto. E a perdersi nei suoi pensieri».
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