lunedì 18 aprile 2016
Il genere umano non è ancora uscito dall'epoca della fame e della schiavitù
La povertà non è solo un numero
La Banca mondiale vuole considerare altri fattori oltre al basso reddito
di Julia Corvalan Il Sole 18.4.16
Cos’è
la povertà? Per decenni l’abbiamo definita con un numero, che la Banca
mondiale attualmente riconduce a un reddito personale inferiore a 1,90
dollari al giorno. Ma un solo numero non riesce a catturare la
complessità della povertà. Bisogna andare oltre la misurazione del
reddito per comprendere appieno le necessità dei poveri e garantire
un’assistenza ottimale.
Dal momento che la Banca mondiale si
riunirà la prossima settimana a Washington, per le riunioni di
primavera, abbiamo l’opportunità di fissare altri parametri che
includano la dimensione sociale e ambientale della povertà. La Banca ha
riconosciuto che andrebbero considerati altri fattori oltre il reddito e
ha recentemente istituito una Commissione sulla povertà globale per
raccomandare altri parametri.
Sebbene molti gruppi pubblici e
privati si occupino già della raccolta di dati su una serie di tematiche
legate alle comunità povere, quali la nutrizione, la salute materna o
l’accesso all’istruzione, tali informazioni restano largamente
inutilizzate e raramente vengono condivise tra le istituzioni. Ci sono
però dei barlumi di luce, incluso il Social Progress Index, che fornisce
un quadro per individuare più segnali di povertà tra i Paesi e completa
le tradizionali misure basate sul reddito.
Quando ci affidiamo a
un singolo numero per misurare la povertà, non comprendiamo esattamente
le necessità dei poveri. Nel mio Paese, il Paraguay, collaboro con una
delle maggiori aziende umanitarie a livello nazionale, la Fundación
Paraguaya, che fornisce micro-finanziamenti, istruzione e formazione a
migliaia di nostri cittadini più indigenti. Osserviamo 50 parametri in
sei dimensioni della povertà, inclusi reddito, alloggio, istruzione e
infrastrutture.
Uno dei nostri clienti, Doña Mercedes, proveniente
da una comunità rurale non distante dalla capitale Asunción, è ora una
micro-imprenditrice di successo. Quando iniziò con la Fundación
Paraguaya, viveva in una casa con una camera con altri 16 familiari e
cucinava su un piccolo focolare sul pavimento sporco. Ora ha un
pavimento in cemento, una casa di mattoni, una cucina separata e circa
500 dollari di risparmi personali. Utilizzando l’auto-valutazione sulla
povertà della Fundación Paraguaya, ha potuto capire meglio i propri
bisogni e affrontarli uno per volta. Mentre gli approcci tradizionali
puntano soprattutto a valutare le fonti relative alle uscite e alle
entrate delle famiglie, l’auto-valutazione della Fundación Paraguaya ha
aiutato Doña Mercedes a suddividere le sue necessità in 50 aree
specifiche su cui poter lavorare, pezzo per pezzo, e da poter monitorare
nel tempo.
La Fundación Paraguaya è stata in grado di replicare
questo tipo di successo in altre parti del mondo. In Tanzania, dove ho
lavorato per tre anni nelle comunità rurali, abbiamo aiutato i villaggi
negli altopiani meridionali ad adattare i nostri indicatori sulla
povertà al contesto locale, allo scopo di affrontare le necessità legate
all’acqua, ai servizi igienico-sanitari e all’elettricità. Simili
condizioni sono state applicate in Sudafrica, Nigeria, Uganda, Cina e in
altri Paesi.
Potremmo compiere altri passi avanti anche con il
supporto del settore pubblico. La Fundación Paraguaya raccoglie molti
dati su più dimensioni, tracciando oltre 8.700 famiglie ogni anno solo
in Paraguay. Se queste informazioni riuscissero a raggiungere il governo
del Paraguay – che dispone dei propri metodi per la raccolta dei dati –
potremmo identificare prima le sacche di povertà e creare programmi
personalizzati per aiutare ogni singola famiglia. Poiché le informazioni
sono riferite dai soggetti stessi, questa sorta di collaborazione
potrebbe fornire aiuti mirati e segnalare specifici servizi pubblici.
Inoltre, se la Commissione sulla povertà globale della Banca adotterà
misure multidimensionali per la povertà, spingerà altre organizzazioni a
produrre e condividere maggiori dati dettagliati sulla povertà. Ciò
darà agli operatori umanitari una mappa del mondo più esaustiva sulla
povertà, contribuendo a incentivare ovunque l’efficacia delle iniziative
contro la povertà.
Non sarà semplice scegliere quali misure
includere e nemmeno come fissare i criteri universali, ma anche
l’adozione di pochi criteri di base basterebbe a stimolare i progressi.
Per troppo tempo le misure monodimensionali come la linea guida
dell’1,90 dollari al giorno hanno mal diagnosticato i problemi dei
poveri – e cosa più importante, le loro cause. Sappiamo che il parametro
di 1,90 dollari al giorno non cattura appieno le battaglie cui devono
far fronte i poveri in luoghi come il Paraguay.
Fortunatamente la
Banca mondiale ora sembra riconoscere i limiti del suo indicatore basato
sul reddito. Garantire che coloro che sono più in difficoltà ricevano
il giusto tipo di aiuto in modo tempestivo ed efficace richiede ai
politici che si occupano di sviluppo di abbracciare la tipologia di dati
multidimensionali sulla povertà che le organizzazioni umanitarie come
la Fundación Paraguaya hanno imparato a raccogliere.
(Traduzione di Simona Polverino)
© PROJECT SYNDICATE 2016/VISIONARY VOICES
Tra i migranti nel mondo 30 milioni diventano schiavi
Dalle miniere in Congo ai vestiti cuciti dai bambini in Asia: gli oggetti della nostra vita quotidiana passano dalle loro mani
di Antonio Maria Costa La Stampa 18.4.16
Milioni
di sofferenti cercano rifugio in Europa fuggendo da guerre,
persecuzioni, povertà. Tra essi ci sono rifugiati (siriani e afghani in
cerca di asilo) e migranti (africani e asiatici in cerca di lavoro). Una
terza coorte, più dolorante, è meno nota: gli schiavi. Abuso e
sfruttamento per guadagno altrui non sono orrori del passato: secondo
l’Onu al mondo ci sono oggi 19 milioni di rifugiati (politici), e 30
milioni di schiavi - uno su dieci dei 300 milioni di migranti (in cerca
di lavoro), per un giro d’affari annuo di 150-200 miliardi di dollari.
In
Europa e America prevale la schiavitù sessuale: l’Ue, che fornisce i
dati migliori, ha identificato schiave provenienti da un centinaio di
Paesi. In Africa e America Latina l’asservimento prevale
nell’agricoltura (60%) e nei servizi domestici. In Asia il fenomeno è
diffuso nelle manifatture (oltre il 50%) e nella pesca (25%).
Nei
Paesi poveri il legame sesso/crimine è stretto. Lo sfruttamento delle
donne avviene specialmente in località remote, dove gli uomini
sfacchinano in miniere, foreste, piantagioni e allevamenti. La Cina è il
maggiore Paese di origine delle vittime sfruttate da aziende (in
Africa) che provvedono conforto femminile ai dipendenti.
Negli
ultimi anni, conflitti (lungo le frontiere russe e nel mondo arabo) e
crisi (globalizzazione, disoccupazione) hanno causato esodi diversi. Chi
fugge da guerre e miseria (rifugiati e migranti) lo fa deliberatamente,
assistito da intermediari. Gli schiavi invece sono trafficati contro
volontà: al cuore della loro tragedia c’è lo sfruttamento, non la
dislocazione. A differenza del passato, quando gli schiavisti erano
stranieri (arabi, inglesi, belgi e olandesi), oggi gli aguzzini sono
della stessa nazionalità delle vittime (70%). Altra novità è il ruolo
crescente delle donne nello sfruttamento: non appena le circostanze lo
permettono, le vittime diventano matrone, ansiose di recuperare quanto
appropriato da altri.
Circonvenzione (in Europa e Usa),
indebitamento (Asia), povertà (Africa), discriminazione (Africa, Asia)
perpetuano un crimine che la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo avrebbe
dovuto stroncare. Le tecniche di arruolamento variano. Agenzie di
reclutamento fraudolente ingaggiano le vittime in Europa. Affaristi
legati al Jakuza (Giappone) e al Tria (Cina) dominano in Asia. Parentela
e affinità etnica asserviscono le vittime in Africa, dove riti vudù (in
Nigeria e Costa d’Avorio) le soggiogano psicologicamente. A volte
prevale la cupidigia individuale: quando un genitore vende, o affitta,
un famigliare (tipico nei Balcani, in Romania, India e Africa
occidentale). In Afghanistan le famiglie indebitate nel commercio
dell’oppio, cedono un figlio (che poi finisce tra i talebani). A volte
la dipendenza è generazionale: una persona è schiavizzata per servire il
debito contratto da antenati (comune in Asia). Lo sfruttamento termina
non per risoluzione contrattuale, ma per le condizioni della vittima: la
prostituta invecchiata è merce di scarto; il bambino soldato diventa
adulto e diserta; il lavoratore in servitù è fisicamente incapacitato;
il domestico evade.
Oltre ai vincoli fisici e psicologici, gli
schiavi sono incatenati soprattutto dall’onere di rimborsare
l’investimento fatto in essi per acquisto e trasporto. Per anni gli
schiavisti deducono capitale e interessi dai guadagni della vittima -
com’è emerso dai roghi a Prato, Los Angeles e Dhaka (Bangladesh). La
sottrazione del reddito (dello schiavo) si contraddistingue dall’onere
imposto dagli scafisti: il trasporto di migranti attraverso il
Mediterraneo, pur se criminale, coinvolge parti consenzienti e il
rapporto termina all’arrivo. La schiavitù non finisce a destinazione.
Guerre
e violenza creano altre opportunità di schiavitù. Bambini/ne soldato
sono la manifestazione bellica della tratta di persone, assoggettate con
ruolo di combattimento, logistica e conforto. La pratica è comune in
Africa centrale, dove gli insorti di Kony (partiti dall’Uganda)
schiavizzano adolescenti come combattenti e concubine. Il fenomeno è
comune nei territori assoggettati da Isis (Siria, Iraq, Libia), Boko
Haram e Aqm (in Africa occidentale). I belligeranti si avventano contro
donne ed etnie (gli Yezidi) che trasformano in bottino di guerra:
recentemente 5 mila schiavi nella sola città di Sinjar, nel Nord della
Mesopotamia, sono stati aggiudicati sulla base del prezzo appeso al
collo; 150 bambine (alcune di 8 anni) sono state trasferite dalla Siria
in Iraq e poi nel Golfo, dove la pedofilia è diffusa. I piccoli,
chiamati cuccioli del califfato, sono addestrati a missioni suicide.
In
Thailandia, le adolescenti Rohingya fuggite da Myanmar (3 milioni negli
ultimi anni) finiscono in bordelli, i giovani su pescherecci. Quando,
giorni addietro, una fossa comune con 30 corpi è stata scoperta, i
successivi arresti hanno causato altro dramma: migliaia di giovani sono
state abbandonate lungo i fiumi e in mare.
Che fare? Dal 2010,
oltre 50 mila vittime sono state identificate, a volte in grado di
testimoniare in tribunale (un migliaio l’anno), risultando in condanne.
Papa Francesco ha chiesto di porre fine alla schiavitù entro il 2020,
con una campagna basata su «3 P» - prevenire, perseguire, punire. Noi
cittadini possiamo aiutare: siamo il mercato. I nostri cellulari
contengono coltan e cassirite, estratti da schiavi in Congo e trafficati
in Belgio. Molti indumenti, scarpe e borse che indossiamo, sono
manufatti in Asia da minorenni. Il cioccolato che regaliamo contiene
cacao della Costa d’Avorio raccolto da bimbi a un dollaro al giorno. La
stellina al naso magari proviene dalle miniere di diamanti canaglia in
Sierra Leone. La cocaina sniffata in discoteca (222 ton l’anno in
Europa) ha forse viaggiato nello stomaco di una «mula» che, dopo averla
ingerita in Nigeria, l’ha defecata alla Malpensa. Quanto possediamo,
indossiamo o mangiamo è verosimilmente contaminato da sangue, lacrime e
sudore di schiavi. A noi la scelta.
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