Ernst Jünger: Fuoco e sangue. Breve episodio di una grande battaglia, trad. di A. Iadicicco, Guanda, pagg. 180, 16 euro
Risvolto
Il 21 marzo del 1918 l’esercito tedesco sferra la prima delle grandi
offensive di primavera sul fronte occidentale, con l’obiettivo di
sfondare le linee alleate e penetrare in profondità. Dopo l’estenuante
guerra di trincea, la prospettiva della battaglia in campo aperto esalta
e atterrisce soldati e ufficiali, consapevoli di giocarsi il tutto per
tutto in un inaudito dispiegamento di truppe e mezzi, che sembra
assegnare alla tecnica un ruolo decisivo. È un’esperienza unica, «che
coinvolge la carne e il sangue» e forgia destini individuali e
collettivi. In questo romanzo del 1925, Ernst Jünger, pluridecorato
sottotenente della Wehrmacht, rielabora i propri ricordi in una prosa
nitida e solenne, prestando la propria voce all’io narrante e dando modo
al lettore di ripercorrere quei tremendi istanti in tutta la loro
drammatica fatalità. Sebbene l’entusiasmo del 1914 sia ormai
irrimediabilmente perduto, cresce in prossimità dell’attacco la
consapevolezza della superiorità dell’uomo sul «materiale» e della sua
sorprendente capacità di resistenza. Così, alla vigilia della battaglia,
si può ancora assaporare un momento di perfetta solitudine nella
natura, incantevole per l’imminente risveglio stagionale, ma anche un
ultimo brindisi con i camerati, «nella fratellanza del sangue». E dopo
aver combattuto, regna la sensazione di un «pieno compimento», come al
«cospetto di una morte indolore dopo una lunga vita».
In "Fuoco e sangue" e negli scritti bellici l'autore tedesco non nega il conflitto Lo rappresenta dall'interno e riesce a salvaguardare se stesso dalle atrocità
Stenio Solinas Giornale - Mer, 27/04/2016
L’Apocalypse Now del soldato Jünger
Esce in Italia il romanzo autobiografico “Fuoco e sangue” un altro epico affresco nelle trincee della Grande guerra
di Franco Marcoaldi Repubblica 20.4.16
Erano
i primi anni novanta del secolo scorso ed Ernst Jünger (1895- 1998)
stava entrando nella cerchia dei grandi patriarchi: veleggiava ormai
verso i cento anni, in buona forma fisica e piena integrità mentale.
Dopo una lunga stagione segnata da un generalizzato ostracismo verso la
sua opera e i suoi forsennati osanna alla bellezza
della guerra
che, si diceva, avrebbero fatto da concime ideale al futuro regime
nazionalsocialista (dimenticando però la sua avversione a Hitler), da
tempo il pendolo si era spostato nella direzione opposta. E adesso il
suo romanticismo antiborghese, le visionarie riflessioni sul nichilismo
trascinato dalla forza irresistibile della tecnica, la prefigurazione
profetica di uno “Stato mondiale”, la figura stilizzata dell’Anarca che
aristocraticamente si ritira nel bosco per sfuggire alla massificazione
dilagante, suggestionavano frange di pubblico via via più estese. Anche,
e soprattutto, nell’ambito di una variegata area culturale di sinistra.
Ma
all’intervistatore che si recò trepidante nella sua casa-museo in stile
Biedermeier ai bordi di Wilflingen, piccolo borgo dell’Alta Svevia, si
presentò l’uomo distaccato e imperturbabile di sempre. Stellarmente
lontano da polemiche politiche contingenti. Completamente disinteressato
ad esse. Più propenso, semmai, a disegnare eterei scenari
cosmico-astrali o a concentrare l’attenzione, da bravo entomologo e
studioso dei coleotteri, su minuscoli dettagli — meglio se inerenti al
mondo naturale.
L’arrivo nel salottino dove Jünger riceveva — con
al centro una poltrona su cui, come amava ricordare, si erano seduti
Borges, Heidegger e Schmitt, era preceduto da un cerimoniale che presumo
si ripetesse immancabilmente per tutti gli ospiti che arrivavano qui
dal mondo intero. Accompagnati dalla seconda moglie Liselotte, si
passava rapidamente davanti alle tante collezioni di clessidre, serpenti
impagliati, idoli scolpiti in zanna d’elefante e soprattutto a quella,
mirabile, dei famosi coleotteri; poi una breve sosta per rimirare lo
scaffale dedicato alla sua monumentale Opera (saggi, romanzi, diari,
libri di viaggio) e infine ecco il celebre elmetto della prima guerra
mondiale, «sforacchiato in più punti », che gli avrebbe consentito di
uscire indenne dal conflitto e con in tasca la massima decorazione
dell’esercito, l’Ordre pour le Mérite. Ora tutto era pronto per
l’entrata in scena del Grande Tedesco, il mago di Wilflingen: piccolo,
compatto, altero — due occhi chiarissimi, di ghiaccio, come di ghiaccio
era il suo temperamento. Ragione non secondaria, forse, della sua
straordinaria longevità.
Jünger sarebbe morto il 17 febbraio 1998,
all’età di 103 anni: dopo tanto oscillare, il pendolo della sua fama
malinconicamente si fermò. Sulla sua figura calò un lungo, interminabile
silenzio, che per anni ha di fatto cancellato il suo nome dalle pagine
dei giornali.
Per questo ora che Guanda, uno dei suoi editori storici, pubblica Fuoco e sangue. Breve episodio di una grande battaglia
nella
redazione definitiva del 1978 (traduzione di Alessandra Iadicicco),
dopo la prima pubblicazione del 1925, cogliamo al volo l’occasione per
tornare su una delle figure più controverse e discusse del Novecento
letterario. Anche perché il libro, grosso modo coevo al celeberrimo
Nelle tempeste d’acciaio e a Boschetto 125, ci ripropone lo Jünger di
gran lunga più noto: lo “scrittore-guerriero”, impegnato stavolta sulle
trincee della prima guerra mondiale, che con la sua oggettiva prepotenza
stilistica ha finito per offuscare tanti altri versanti della sua
opera.
Fuoco e sangue incentra il suo racconto sul 21 marzo 1918,
giorno prescelto dall’esercito tedesco per lasciare le trincee e
attaccare in campo aperto le postazioni nemiche. Il pluridecorato
sottotenente della Wermacht restituirà con precisione chirurgica ogni
singolo aspetto di quella operazione militare, nel contesto umano di
un’ebbrezza generalizzata e furiosa, incontenibile.
La lettura del
libro conferma quanto già si sapeva: nel descrivere i campi di
battaglia, Jünger non ha eguali — nel bene e nel male. La sensibilità di
chi ha in qualche modo introiettato il tabù della guerra, rimarrà
ferita — insofferente alla dichiarata fascinazione per la «selvaggia
azione virile» di corpi che cozzano, granate che esplodono, feriti che
gemono. Ma è difficile negare che quella fascinazione per il fuoco e il
sangue alberghi da sempre nell’animo umano. E allora bisogna riconoscere
che, nel descriverla, il giovane Jünger è un assoluto maestro. Perché è
pervaso dallo stesso fascino («è la terra che ama i combattenti »).
Perché la considera l’incarnazione inevitabile di un’idea eroica mutuata
dalle pagine della grande letteratura classica. Perché la indaga con la
freddezza e la precisione dell’entomologo. Perché vi coglie i grandi
cambiamenti d’epoca.
La gioia febbrile dei primissimi scontri,
«l’incantesimo delle armi lampeggianti» e del «sangue schiumante»,
sembra trascorsa. Dal 1914 al 1918 molto è cambiato. Prima tutto si
giocava con fucile, baionetta e un paio di granate. Ora «i materiali»
hanno preso il sopravvento, la macchina domina sull’uomo: «Il
combattimento è una spaventosa misurazione delle industrie e la vittoria
è il successo del concorrente che sa lavorare in modo più veloce e
spietato». Resta comunque stupefacente che non siano tanto gli ordini,
bensì un obiettivo comune e sottotraccia a unire tutti questi
combattenti «in apparenza spinti dal caso », e mossi invece dalla
stessa, irresistibile «corrente di forza». Come presi da uno stato di
possessione collettiva.
Frattanto, via via che scorrono le pagine,
si ha la sensazione che il giovane soldato-scrittore si muova sempre
lungo un doppio binario. Mentre combatte, annota mentalmente quanto
scriverà sul suo diario alla prima pausa degli scontri. E tale
sensibilità stereoscopica raggiunge il suo acme quando Jünger descrive
il momento in cui viene ferito: «La pallottola, sotto la croce di ferro,
ha perforato il petto per la lunghezza di una spanna». Il sottotenente
osserva dunque il suo corpo come se fosse un oggetto estraneo; come un
materiale letterario, tra gli altri, utile ad arricchire le proprie
pagine.
E difatti: benché sanguinante, e sottoposto alle raffiche
del fuoco nemico, indugia ancora un momento prima di mettersi al sicuro.
Deve recuperare da terra un portacarte di pelle trafugato agli
ufficiali dell’esercito nemico il giorno precedente. C’è il suo diario,
lì dentro. E l’esperienza di questo inferno perderebbe ogni senso, se
non si trasformasse in pagina letteraria. In esercizio di stile.
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