venerdì 1 aprile 2016

Un "romanzo ammaliante" o un pesce d'aprile?

Eugenio Scalfari: Il Labirinto, Einaudi pagg. 200, euro 19

Risvolto
Un romanzo ammaliante che, muovendosi tra fiaba e mito, mette a nudo le contraddizioni dell'animo umano e celebra il potere creativo della mente. Un romanzo suggestivo che torna in libreria dopo diciotto anni dalla sua prima uscita.
In un vasto e bizzarro edificio a metà tra il mare e la campagna, vive un'immensa tribú famigliare guidata dall'eccentrico patriarca Cortese dei Gualdo, amante delle recite e della teatralità. Per il giovane Andrea, quel susseguirsi irregolare di stanze, corridoi, scale e passaggi è un labirinto in cui far correre libera la fantasia, per conoscerne ogni anfratto e ogni segreto. Finché un giorno nella vita immobile dei Gualdo irrompe una pittoresca compagnia di girovaghi e il vento del cambiamento incomincia a soffiare. Quando don Cortese allestisce la sua ultima recita in occasione della propria morte, arriva il momento per Andrea di abbandonare il labirinto per esplorare il mondo fuori. Ma è possibile uscirne davvero? E se fosse solo una costruzione della mente? Una storia ricca di quelle profonde implicazioni morali e filosofiche cui l'autore ci ha abituati. Un romanzo suggestivo che torna finalmente in libreria dopo diciotto anni dalla sua prima uscita.
Il ritorno in libreria del “Labirinto” di Eugenio ScalfariRestampa 6 4 2016
di Eugenio Scalfari (Einaudi Supercoralli, pagg. 214, euro 19). Pubblicato per la prima volta diciotto anni fa, il libro torna in una nuova edizione con un’introduzione di Scalfari stesso, che nelle prime pagine spiega il valore di un simbolo sempre più attuale: «Col passare degli anni – scrive Scalfari – la nostra civiltà è diventata in tutto il mondo più labirintica che mai».
Nel romanzo Scalfari racconta la storia di una famiglia molto numerosa, i Gualdo, guidata da un patriarca eccentrico che si chiama Cortese. I Gualdo vivono in una casa enorme, fatta di tante stanze, corridoi, passaggi e anfratti. Insieme a Cortese, amante delle recite e della teatralità, ci sono il figlio Stefano e il nipote Andrea. Finché un giorno nell’immensa dimora, tra il mare e la campagna, arriva una pittoresca compagnia di girovaghi a portare un vento di cambiamento. Ma cos’è il labirinto del titolo? Certo non è solo una figura architettonica, ma è il mito che dall’antichità ai nostri giorni è riuscito a descrivere meglio la condizione dell’animo umano. Scrive Scalfari: «Tutti noi viviamo dentro un labirinto e non c’è filo di Arianna che riesca a farcene uscire, non c’è Teseo che vi riesca, non c’è Dedalo che lo costruisca e non c’è Minotauro che lo abiti».
Il labirinto siamo noi, suggerisce Scalfari. Siamo noi con tutte le nostre umanissime e aggrovigliate contraddizioni. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

L’uomo perso nel suo eterno labirintoTorna in libreria con una nuova introduzione il romanzo filosofico di Eugenio Scalfari

PAOLO MAURI Restampa 1 4 2016
Un verso, un verso dantesco, mi è tornato alle labbra mentre leggevo “Il Labirinto”di Eugenio Scalfari: un romanzo uscito quasi vent’anni fa e ora riproposto con una nuova introduzione. Il verso sta nel Paradiso e dice: «prende l’image e fassene suggello». L’immagine è quella del labirinto e diviene dunque il suggello o sigillo di una narrazione che vuole essere specchio del vivere, ovvero indagine sul significato della vita e della morte, integrandosi perfettamente nella riflessione che l’autore va facendo da molti anni e pubblicamente fin dal ’94, anno di uscita di “Incontro con io”. Ma perché scegliere la via del
romanzo dopo aver sperimentato la via del saggio? In realtà Scalfari, in qualunque veste scriva, è sempre un eccellente narratore e persino quando discute un concetto sfumato come la fine della modernità non esita, per esempio, a mettere in scena un suo dialogo con Diderot. Comunque la narrazione permette, se mi si passa l’immagine, di vestire di carne i pensieri e di porli nella mente di un preciso personaggio, lasciandogli poi un po’ di briglia sciolta, perché i personaggi son fatti così e spesso sono sorprendenti anche per chi li crea.
Dunque il labirinto. Ce lo portiamo dietro da millenni, ma, avverte Scalfari nel prologo, non è necessario pensare a Minosse, Teseo e Arianna. Il labirinto è sopravvissuto a loro, è diventato un emblema a sé stante e lo possiamo persino trovare, l’esempio lo fa Scalfari stesso, in un baraccone di un luna park dove il visitatore si perde tra gli specchi deformanti.
Scalfari tenta dunque una lettura dell’enigma uomo e apparecchia una immensa casa abitata da una famiglia molto ampia, di oltre settanta persone, i Gualdo, con un patriarca che si chiama Cortese, un figlio di lui, Stefano, e un nipote, Andrea. Ci sono molti altri Gualdo nella casa che affaccia da un lato verso la marina e dall’altro sulla campagna e alcuni il lettore li incontrerà nelle pagine del romanzo. Che è, possiamo dirlo subito, un romanzo fortemente simbolico nel senso che i protagonisti non hanno bisogno di vivere una storia: essi sono per quello che sono, si autorappresentano. Certamente, nel progettare la casa-labirinto dei Gualdo, Scalfari ha avuto in mente la casa della sua famiglia in Calabria, tra l’altro, come narra nel
Racconto autobiografico scritto per il Meridiano che raccoglie parte delle sue opere, un suo quadrisavolo si chiamava proprio Cortese. E non trascurerei neppure l’influsso letterario di un’altra illustre dimora: quella del Gattopardo.
Cortese Gualdo è, a suo modo, un Gattopardo, capo di una famiglia benestante e autosufficiente, perché il labirinto nel quale questa famiglia vive è un regno tranquillo, immobile nel tempo, legato com’è ad una solida economia rurale. Siamo ai primi del Novecento, ma il tempo storico conta poco: il mondo è fuori e quasi non se ne hanno notizie. Il vero labirinto, lo si intuisce subito, non è solo quello costituito dalla casa e con le sue mille articolazioni, scale, anfratti, il vero labirinto è dentro i personaggi: sta, ancora una volta, nella decifrazione o scomposizione dell’Io. Del resto, scrive Scalfari nell’introduzione a questa nuova edizione del suo romanzo, «Il labirinto non è altro che il groviglio di contraddizioni che vivono dentro di noi, alimentano la nostra vita, la rendono felice e infelice». E molti dei Gualdo erano portati all’introspezione, altri ad osservare la vita fuori di sé. Dunque Il Labirinto è un romanzo filosofico e i personaggi sono funzionali alle domande di fondo alle quali l’autore cerca una risposta. L’ottantenne Cortese Gualdo è un uomo appagato che vuol delibare fino in fondo i piaceri della vita. Per questo si veste, per cenare con il figlio Stefano, come un Grande di Spagna; per questo accetta volentieri che una compagnia di guitti si fermi sulle sue terre e si esibisca nella casa. Nella cena consumata con il figlio Stefano, che è invece introverso e solitario, per quanto il padre ama la compagnia e il gioco, il tema è di nuovo filosofico: la felicità. Se il romanzo contemporaneo nel suo lungo percorso forse declinante predilige ormai i piccoli sistemi, il quasi nulla della quotidianità, possiamo dire che Scalfari va volutamente controcorrente e punta invece ai massimi sistemi, mettendo in scena la Ragione che discetta e fa ricorso volentieri a pagine antiche: Alceo, Platone e poi ancora Agostino, Nietzsche, Shakespeare e Villon. La compagnia di attori detta dei lunatici che chiede asilo ricorda l’Amleto e credo sia una citazione voluta. Mascherare, smascherare, essere, non essere… Che cosa accadrà in una mente colpita dalla follia? È una delle indagini che il romanzo si propone: Daniele, figlio di Stefano, è il matto e vive in solitudine, in una stanza che fa sempre parte del Labirinto. Dunque i vari personaggi si incontrano, chiacchierano, fanno musica insieme. La Ragione indaga e il Corpo pretende. Non si sa bene chi comandi su chi e d’altra parte è antica questione. Una parte notevole è governata da Eros, ed è un tema ricorrente, per non dire centrale, nei libri di Scalfari. E la riflessione si fa dunque felicemente, intensamente narrazione. Ora si può essere attratti da questo mondo arcaico o esserne sazi e cercare una via di fuga. Dopo aver esplorato il Labirinto, Scalfari assegna al personaggio di Andrea, giovane nipote di Cortese, il compito di andarsene lontano, dall’altra parte del mondo. Andrea ci va nel momento in cui è preso dall’amore per Cristina con cui ha avuto un incontro memorabile. Bene: per viaggiare Andrea si serve del pensiero. Non c’è mezzo più veloce che in pochi secondi lo possa trasportare in un nuovo mondo, tecnologicamente evoluto e assoggettato a criteri di vita straordinariamente nuovi, ma anche sterili. Sarebbe piaciuto a Swift questo paese dove la gente ha sempre fretta e si fa governare da una Rete presieduta da cinque magistrati che risolvono ogni problema. In pratica l’umanità ha reso se stessa schiava, negandosi il piacere di vivere. Ma il romanzo di Scalfari, pur prevedendo il dolore e la Morte, è anche un inno al piacere di vivere e alla libertà di inventarsi la propria vita. Un piacere che non potrebbe esistere senza il pensiero che lo amministra e lo filtra, lo centellina e lo proietta nel gran mare del Tempo. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Da Arianna a oggi il mito che descrive la nostra condizione 

MAURIZIO BETTINI
Un viluppo di corridoi, scalette, ballatoi passaggi, abbaini, cantine, soffitte: ecco la casa dei Gualdo. Da questo incredibile intrico se ne sviluppa però un secondo, ulteriore, fatto stavolta non di ambienti, ma di parentele, ascendenze o discendenze; talmente complesso che nessuno riesce più a raccapezzarcisi, e solo l’Io che narra questa storia ne possiede la chiave. Un simile proliferare di grovigli quasi inevitabilmente conferisce a questo romanzo di Eugenio Scalfari il titolo che porta: Il Labirinto. Così come subito suggerisce al lettore, anche al più distratto, il ricordo di Teseo, di Arianna, del Minotauro e di Dedalo. Ma per quanto ciò possa sorprendere, l’autore non aveva pensato al mito greco. Ce lo rivela Scalfari stesso, nel saggio premesso a questa seconda edizione del suo romanzo: narrando la storia dell’intricata casa dei Gualdo, il mito del Labirinto cretese non si era affacciato alla sua fantasia. La memoria di Teseo e del filo di Arianna è emersa in lui solo “dopo”, a cose fatte, quando, a distanza di vent’anni, ha deciso di rileggere la sua opera. Singolare vicenda di letteratura, che potremmo descrivere ricorrendo alla lezione di Umberto Eco: in altre parole, al momento in cui scriveva il proprio romanzo, il mito del Labirinto era rimasto estraneo alla “intenzione dell’autore”; ma evidentemente non era estraneo alle “intenzioni della sua opera”, che conteneva comunque questo ulteriore significato, a prescindere da ogni consapevole scelta. Il racconto mitico, dice del resto lo stesso Scalfari, non è semplicemente “una favola tramandata dai millenni”, ma “crea e inventa fin dai primordi dell’esistenza”: nessuna meraviglia perciò che sappia ricrearsi anche in nuove narrazioni che di esso sono inconsapevoli. Ma in che cosa consiste, per Scalfari, questo labirinto ritrovato, se possiamo chiamarlo così? Il Labirinto, spiega l’autore, «è il mito per eccellenza, perché è quello che meglio descrive la condizione umana. Noi siamo tutti in un labirinto dal quale è impossibile uscire». Questa antica figura dà forma simbolica al viluppo delle nostre contraddizioni – provocate dal potere, dall’amore, dal desiderio, dal narcisismo, dalla malinconia – quelle che ci stringono in una rete dalla quale è impossibile districarsi. Unicamente i miseri e gli ebeti restano fuori dai corridoi di questa eterna prigione, per gli altri non c’è scampo. «Solo quando la morte arriva e ti tocca la spalla, il labirinto scompare insieme a te». Così avviene allorché Stefano Gualdo, uno dei protagonisti del romanzo, lascia la vita convinto che, per vivere la propria morte, bisogna che la sua mente sia vuota d’ogni pensiero; così avviene allorché, dopo un commiato protrattosi per tre giorni, la Regina porta fuori dal labirinto Cortese Gualdo, il patriarca. Man mano, sotto i nostri occhi il labirinto secondo Scalfari si viene configurando come un cammino intricato che può avere la stessa durata dell’esistenza; un lungo e protratto passaggio – contraddittorio, laborioso – che dal territorio della vita conduce a quello della morte. A questo punto, però, il mito torna a riaffacciarsi. Stavolta non solo nella memoria dell’autore, ma anche in quella del lettore. Quando Enea si trova di fronte alla porte dell’Ade, ciò che vede scolpito sui battenti è proprio (con le parole di Virgilio) “l’inestricabile errare” nella buia dimora cretese. L’immagine del Labirinto la troviamo dunque raffigurata esattamente sulla soglia che separa il regno dei vivi da quello dei morti – in Virgilio l’intrico delle linee e degli spazi marcava già l’estremo passaggio. A questo punto possiamo chiederci: questa scelta del poeta romano fu casuale, o c’è qualcosa d’altro? In realtà, già da tempo egittologi e studiosi del vicino oriente hanno messo in luce come, anche in queste civiltà, la figura del labirinto si associ alla soglia che separa la vita dalla morte. Ma il caso forse più impressionante ci viene dai racconti di Malekula, un’isola della Melanesia: secondo i quali il defunto, per accedere al regno oltremondano, deve districarsi di fronte a un intrico di linee – detto “La via” – che corrisponde a un vero e proprio labirinto. Questa complessa figura geometrica gli viene presentata, tracciata sul suolo, da un’ombra guardiana, che cercherà di metterlo in imbarazzo cancellandone una metà allorché il defunto si sforzerà di venirne a capo: solo una conoscenza completa degli intrichi che compongono “la Via” permetterà al nuovo arrivato di accedere al regno dei morti, altrimenti ne resterà escluso. Sono molte dunque le tradizioni culturali nelle quali il labirinto si configura come un simbolo del passaggio – laborioso, contraddittorio – dalla vita verso la morte. Il fatto è che, come abbiamo già ricordato con Scalfari, il racconto mitico «crea e inventa fin dai primordi dell’esistenza». E attraverso il gioco del narrare, ieri come oggi, continua creare.

IL LABIRINTO DELLE OPPOSTE FELICITÀCorriere della Sera 19 May 2016 Di Pierluigi Battista
La mitologia non è», scrive Eugenio Scalfari nell’introduzione alla nuova edizione Einaudi del suo primo romanzo Il labirinto (pagine 240, 19), «una favola tramandata attraverso i millenni, e neppure una religione, sebbene alcune religioni abbiano utilizzato i miti a piene mani. La mitologia è il senso della vita, cerca e inventa fin dai primordi dell’esistenza». Il romanzo, che Scalfari ripropone a vent’anni dalla sua prima uscita, è impregnato di mitologia sin dal titolo e non solo perché il labirinto «è il mito per eccellenza che meglio descrive la condizione umana» e «noi siamo tutti in un labirinto dal quale è impossibile uscire». Non solo perché la famiglia dei Gualdo, con il suo patriarca Cortese, vive volontariamente segregata «in una disordinata accozzaglia di stanze, saloni, bugigattoli, scale, soffitte, circondata da una campagna recintata da un muro», in un labirinto claustrofobico spezzato dall’irruzione di una confraternita di Lunatici. Ma soprattutto perché nel microcosmo labirintico raccontato da Scalfari si consumano le contraddizioni e le fratture dell’animo umano. Prendono forma i modelli della vita e della morte, la passione del dominio e del potere, il potere e il dominio dell’amore e nell’amore, la fisicità in irriducibile contrasto con la fantasia («la fuggitiva fantasia») e l’immaginazione, i caratteri in perenne contrasto tra di loro.
Quello di Scalfari è il romanzo filosofico il cui fulgore raggiunse l’apice nel secolo dei Lumi, quando Voltaire e Diderot davano sostanza umana alle loro idee e alla loro filosofia incarnandole in un Candide o in un nipote di Rameau. In uno dei dialoghi più intensi tra don Cortese dei Gualdo, ottantenne, e suo figlio Stefano, di vent’anni più giovane, affiora un contrasto senza tregua tra il carattere del padre, «ingordo» avido di sapori, odori, dell’«affondare i denti nella polpa», vitalista, insaziabile, e quello del figlio, «circospetto» persino nel mangiare. Il padre dice al figlio: «Tu centellini, io divoro, tu fai felice il tuo stomaco, io tutto me stesso». Lo sprona, lo esorta a seguire l’inesauribile ricerca paterna della felicità: «Sì, fatti forza, ed esci dal guscio». Ma la risposta del figlio è di pura impronta filosofica: «Io parlo con la mia mente. Essa mi seduce, mi porta sui suoi sentieri, mi propone i suoi enigmi, m’introduce in un mondo fantastico. Voi pensate che io sia un gelido ragionatore, di logica e di astratti concetti. Ma la mente può crearvi intorno un mondo figurato, stupendo, musicale, sentimentale, magico».
Sono due idee di felicità che si contrappongono e non possono trovare composizione in uno stretto e asfissiante labirinto da dove si può uscire solo come Arianna nel mito, trasformata e sublimata in una costellazione, mentre per terra «resta soltanto il filo, senza più alcuna mano che lo tenga». Sono, in definitiva, due ideali di libertà: la libertà naturale e dei suoi istinti ingordi e la libertà della mente che sa giocare con le idee e con la filosofia, un perfetto connubio di ascetismo intellettuale e libertinismo mentale che da sempre appare l’ideale regolativo della filosofia morale di Eugenio Scalfari. Un ideale che si esprime anche, nel romanzo, nelle atmosfere del Caffè degli Incostanti, dove «il tempo veniva dissipato senza risparmio» e i clienti, «tanto più lo dissipavano tanto più sembravano gustarne la consistenza». Fuori del labirinto c’è la dissipazione. Dentro, invece, la grande e fastosa cerimonia che don Cortese inscena per celebrare e rappresentare in modo memorabile la sua morte, quando «un rantolo si spense in un lamento» e il vecchio «restò impietrito sui cuscini». Una morte come tutte le altre, ma diversa «perché era soltanto sua»: l’ennesima e ultima contraddizione.

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