Il Piano quinquennale guarda alla stabilità economica più che ai consumi
La nuova transizione della Cina
di Stephen Roach Il Sole 11.4.16
A
differenza dell’Occidente la Cina prende la strategia economica molto
sul serio. Lo si è visto molto chiaramente al recente Forum per lo
sviluppo economico della Cina (Cdf) svoltosi a Pechino. Si tratta di un
vertice ai massimi livelli che si tiene ogni anno dal 2000, al termine
del Congresso annuale del Partito nazionale popolare. Voluto in origine
dall’ex premier Zhu Rongji – uno dei riformisti più attenti alla
strategia della Cina moderna –, il Cdf è diventato in poco tempo una
piattaforma di alto livello per attivare sinergie tra i massimi
responsabili politici cinesi e una sfilza di accademici, funzionari
stranieri e leader aziendali internazionali. In sostanza, si tratta di
uno stress test intellettuale che obbliga la leadership cinese a
difendere le strategie e le politiche formulate di recente davanti a un
pubblico esigente e rigoroso di esperti stranieri.
Non è sempre
facile estrapolare un unico messaggio da un evento di questo tipo,
specialmente perché il Cdf, un tempo vertice alquanto riservato, si è
trasformato in un evento dalle dimensioni e dai costi esorbitanti alla
stregua di Davos, con oltre 50 sessioni articolate in tre giorni. In
ogni caso, avendo assistito a 16 dei 17 incontri (a esclusione del
primo), mi sono fatto l’idea che il Cdf di quest’anno sia stato
particolarmente ricco di implicazioni strategiche per le enormi sfide
economiche alle quali la Cina dovrà far fronte. E, da quello che ho
visto, l’ovvio problema che si preferisce ignorare è quello
dell’identità centrale stessa del modello economico cinese, in
particolare se tale modello debba essere imperniato sull’offerta oppure
sulla domanda.
Il miracolo dello sviluppo trentennale della Cina –
una crescita reale del Pil annuo del 10% dal 1980 al 2010 – in
definitiva si deve alla bravura del paese a imporsi in qualità di
produttore finale. La Cina ha goduto di un potente dinamismo che non ha
uguali, trainato dal settore manifatturiero e da quello dell’edilizia.
Tuttavia
il modello imperniato sulla produzione non è stato la ricetta decisiva
per concretizzare le aspirazioni cinesi a diventare entro il 2020 una
società moderatamente prospera. Questa realizzazione è stata messa in
secondo piano dalle critiche degli ormai famosi “Quattro UN” (dalle
iniziali delle rispettive parole inglesi) profferite dell’ex presidente
Wen Jiabao, che nel 2007 correttamente aveva predetto che il modello
basato sulla produzione era «sbilanciato, instabile, scoordinato e
insostenibile». Ovviamente, queste erano parole in codice per alludere a
risparmi sproporzionati, investimenti sovrabbondanti, richiesta di
risorse a tempo indeterminato, degrado ambientale e crescenti disparità
di reddito. Un nuovo modello si rendeva dunque necessario non soltanto
per scongiurare simili insidie, ma anche per evitare la temibile
“trappola del reddito medio” che abbindola le economie a rapidissimo
sviluppo quando raggiungono quella soglia di reddito alla quale la Cina
si va rapidamente avvicinando.
La critica di Wen ha innescato un
acceso dibattito interno sfociato nella decisione strategica di
riequilibrare l'economia cinese orientandosi verso un modello basato sui
consumi, così come è stato messo a punto dal Dodicesimo Piano
Quinquennale per il periodo 2011-2015. Questo nuovo approccio si è
basato su tre componenti fondamentali: uno spostamento verso i servizi
per dare rinnovato slancio alla creazione di posti di lavoro;
un’accelerata urbanizzazione per aumentare i salari reali; una rete di
sicurezza sociale più robusta per offrire ai nuclei famigliari cinesi la
sicurezza necessaria a distogliere i loro nuovi redditi da un risparmio
improntato all’eccessiva cautela e a convogliarli in consumi
discrezionali.
I risultati del Dodicesimo Piano Quinquennale appena
giunto al termine sono strabilianti. Questo percorso, tuttavia, è lungi
dall’essersi concluso. Se gli obiettivi della Cina al riguardo di
servizi e urbanizzazione sono stati raggiunti con ampio margine, i
risultati finali si sono rivelati insufficienti, perché non sono
riusciti a creare una rete di sicurezza sociale più robusta (ovvero
finanziata in toto). Di conseguenza, i consumi personali sono aumentati
di pochissimo, passando dal 35% del Pil nel 2010 a solo il 37% circa nel
2015.
Malgrado l’operazione incompiuta di ribilanciamento verso i
consumi, sembra che di questi tempi la Cina stia abbracciando ulteriori
cambiamenti nella sua basilare strategia economica – spinta da una vasta
gamma di “iniziative sul fronte dell’offerta”. Quell’enfasi è stata
formalizzata nel recente “Work Report” del primo ministro Li Keqiang,
che ha presentato la nuova strategia del Tredicesimo Piano Quinquennale
(relativo al periodo 2016-2020) appena reso noto. Nell’individuare gli
“otto compiti prioritari” per il 2016, Li colloca le riforme sul
versante dell’offerta al secondo posto, subito dietro l’attenzione che
il governo dovrà dare alla stabilità economica per contrastare il
rallentamento della crescita nel paese. Al contrario, l’importanza data
alla necessità di accrescere la domanda interna – da tempo l’obiettivo
principale della strategia di ribilanciamento cinese basata sui consumi –
è stata retrocessa al terzo posto di quella che il governo chiama la
sua agenda di lavoro.
In Cina, dove i dibattiti interni sono
meticolosamente preparati in anticipo, nulla accade per caso. Nel
discorso inaugurale che ha fatto al Cdf di quest’anno, il vice primo
ministro e membro del Comitato permanente del Politburo Zhang Gaoli ha
sottolineato l’esigenza di dirigere iniziative imperniate sull’offerta
verso il “grande pericolo” cinese. Del ribilanciamento trainato dai
consumi, invece, si è fatta menzione soltanto in modo sporadico.
Forse
sono troppo cavilloso. Dopo tutto, nell’equazione della crescita ogni
economia deve concentrarsi sia sul versante dell’offerta sia su quello
della domanda. Nondimeno, questo cambiamento di attenzione – nel
Tredicesimo Piano Quinquennale come pure nel dibattito nazionale e nei
messaggi lanciati al Cdf – mi pare un segnale importante. Temo che possa
stare a indicare un allontanamento prematuro dal modello imperniato sui
consumi e il tentativo di tornare a un modello imperniato sulla
produzione, che rappresenta un ambiente sicuro per la Cina e che da
tempo ha ricevuto i favori della progettazione industriale e della
pianificazione centrale.
La strategia è il più grande punto di forza
della Cina, ciò che conferisce credibilità al suo impegno nei confronti
della trasformazione strutturale. Tuttavia, affinché in Cina emerga e si
affermi la domanda dei consumatori resta ancora molto da fare. Di
sicuro, si tratta di una sfida non indifferente. In ogni caso, ridurre
l’attenzione data all’impegno strategico potrebbe invitare a rimettere
in discussione lo spostamento essenziale dell’identità economica di
fondo della Cina, che oggi si rende in ogni caso necessario. (Traduzione di Anna Bissanti)
La Cina cresce, obiettivo sostenibilità
Pechino deve puntare su una maggiore qualità del suo sistema economico
di Giuliano Noci Il Sole 16.4.16
La
crescita del Pil cinese (+6,7%), è notizia di ieri, è un dato
apparentemente incoraggiante in quanto si inserisce perfettamente nella
forchetta obiettivo (+6,5%-7%) definita dall’Assemblea del Popolo lo
scorso marzo. I dati mensili evidenziano, in particolare, che l’economia
è accelerata in misura significativa questo marzo dopo una debole
partenza ad inizio anno. La crescita del settore dei servizi (+7,6%)
continua ad essere superiore a quella dell’industria (+5,8%).
E
così, apparentemente, la Cina sembra attestarsi nel corridoio di
crescita pianificato dalla sua leadership e il mondo può tornare a
tirare un respiro di sollievo: il motore economico globale con più
cavalli è ritornato in carreggiata. Tutto a posto dunque? Niente
affatto. Il tema chiave riguarda la sostenibilità di medio periodo di
questo percorso di crescita e una lettura più dettagliata dei dati
pubblicati non ci può fare dormire sonni tranquilli. Le ragioni sono
molteplici. In primo luogo, vi è da considerare che il risultato del
primo trimestre è stato ottenuto grazie al combinato disposto di una
forte crescita degli investimenti in asset fisici (+10,7%) e la
concessione di un ammontare enorme di credito al sistema industriale
(nel solo mese di marzo sono stati concessi nuovi debiti per 351
miliardi di dollari ). Hanno subito poi una improvvisa accelerazione sia
le vendite immobiliari (+33% nei primi tre mesi dell’anno) sia i nuovi
investimenti in proprietà immobiliari (+6,2%).
Segnali, in altre
parole, che evidenziano come in questo momento l’economia cinese sia
sotto l’effetto di una piuttosto vigorosa politica di stimolo ed il
rischio è che la crescita di breve periodo possa creare ulteriori
criticità sulla esigibilità dei debiti di medio-lungo periodo. Il piano
di azione adottato è in altre parole simile a quella avviato da Hu
Jintao nel 2008 quando in un momento di grave crisi si utilizzò il
bazooka del denaro facile.
Una strada, quella intrapresa,
probabilmente inevitabile nel breve – la Cina non può permettersi di
abbassare in misura troppo significativa la sua crescita – ma che
richiede di essere accompagnata da altre misure. Insistere in politiche
di stimolo che agiscono sul fronte dell’offerta non può che tradursi in
nuova capacità produttiva in eccesso. Già oggi il Partito cerca
faticosamente di combatterla attraverso la riorganizzazione del sistema
dell’offerta – secondo una logica di stampo reaganiano - ma il risultato
ed il rischio sono di creare una massa impressionante di disoccupati.
Che
cosa fare dunque? Una premessa prima di tutto: la Cina detiene ancora
oggi riserve monetarie enormi, che possono essere messe in circolazione;
ha avuto negli ultimi anni deficit di bilancio inferiori al livello di
crescita della sua economia e il premier Li Keqiang ha fissato un
deficit-obiettivo per il 2016 pari al 3%. Da qui occorre partire per
adottare una politica più aggressiva di deficit fiscale orientata alla
creazione di infrastrutture immateriali indispensabili per il Paese.
Introduzione
di un sistema di welfare e sanitario efficaci in primis: per
incentivare il livello di propensione al consumo delle persone, che ad
oggi risparmiano molto nella prospettiva di una vecchiaia insicura e
molto dispendiosa. Altrettanto importante è il sistema educativo nelle
sue differenti articolazioni: per formare così maestranze in grado di
far fronte alle nuove esigenze di imprese sempre più impegnate nella
realizzazione di prodotti a maggior contenuto di valore aggiunto, visto
che i costi della manodopera non sono più sostenibili; per fare in modo
che le università cinesi siano in grado di produrre laureati all’altezza
di un sistema industriale sempre più alla ricerca di innovazione; per
supportare l’agricoltura nel decisivo passaggio verso livelli di
automazione maggiori. È infine fondamentale lavorare sul rafforzamento
della capacità normativa delle istituzioni del Dragone: per la sicurezza
alimentare e dei farmaci, la piena affermazione dei diritti di
proprietà intellettuale, solo per fare alcuni esempi.
Si osservi
peraltro che l’incentivazione alla spesa e la creazione di una nuova
forza lavoro in grado di far fronte autonomamente ai propri bisogni, e
di creare così nuova domanda, produce due benefici: riduce
significativamente l’intensità delle riforme necessarie dal lato
dell’offerta (proprio perché gli interventi dal lato della domanda
ridurranno l’eccedenza di output del sistema industriale) e può creare
lo spazio per il Politburo per azioni volte a ridurre il degrado
ambientale, migliorare la qualità della vita nelle città e ridurre la
diseguaglianza che ancora attanaglia l’ex Impero di Mezzo.
In
conclusione, vista in questa prospettiva, la Cina deve introdurre una
forte discontinuità rispetto al suo recente passato. Un cambiamento
necessario perché per la prima volta si affaccia una crescita a
disoccupazione e disuguaglianze crescenti. E non deve certo imparare
dall’Unione Europea; una crescita sostenibile vale bene infatti qualche
punto di percentuale in più di deficit di bilancio. In questo modo, si
possono creare i fondamentali per una Cina che puntando sulla qualità
della sua economia e della società diventi stabilmente – grazie anche
all’enorme dimensione del suo mercato e della sua industria – un
affidabile motore economico del Pianeta. Leggendo il XIII° piano
quinquennale recentemente approvato possiamo certo nutrire qualche
speranza.
Nessun commento:
Posta un commento