La crescita Usa Un’economia in debito di ossigeno
di Domenico Lombardi Il Sole 4.6.16
Il dato rilasciato ieri dal Dipartimento del Lavoro americano racchiude in due soli numeri tutta la fragilità della ripresa americana. Nel mese di maggio, gli Stati Uniti hanno generato solo 38mila nuovi posti di lavoro, eppure il tasso di disoccupazione è ulteriormente sceso al 4,7 per cento, registrando un nuovo minimo.
Dopo il picco dell’ottobre scorso, la dinamica nella creazione di nuovi posti di lavoro ha cominciato a mostrare un declino, ma il dato di maggio si discosta significativamente dalle aspettative di mercato che si collocavano al di sopra di 160mila e dalla soglia di attenzione della Fed pari a 100mila nuovi posti di lavoro al mese necessari per tenere il passo con la dinamica demografica della società americana.
Apparentemente in contrasto con il dato di cui sopra, il tasso di disoccupazione è sceso più delle aspettative. In realtà, avvertendo crescenti difficoltà nella ricerca di un posto di lavoro soddisfacente, alcuni segmenti della popolazione stanno uscendo dalla forza di lavoro. Il tasso di partecipazione è, infatti, ulteriormente diminuito. Cumulando tale diminuzione con quella registrata in aprile, essa annulla il miglioramento osservato nel primo trimestre.
Eppure è prematuro stabilire se questi sviluppi introducono un nuovo elemento strutturale nella dinamica del quadro congiunturale americano: i consumi in aprile hanno segnato il più grosso incremento in sei anni, l’inflazione è in aumento anche se sotto la soglia del due per cento e le previsioni per la crescita del Pil nel secondo trimestre dell’anno sono pari al 2,9 per cento secondo la Fed di Atlanta.
Le famiglie si aspettano un miglioramento del proprio reddito nel prossimo futuro ma, al tempo stesso, alcuni indicatori di fiducia hanno subito una battuta di arresto lo scorso mese. Nel complesso, si intensifica una situazione di incertezza sulla robustezza della ripresa negli Stati Uniti che fra le economie avanzate hanno fornito un significativo contributo alla domanda mondiale negli anni successivi alla crisi finanziaria internazionale.
In ogni caso, tali sviluppi rischiano di produrre almeno due conseguenze a breve. In primo luogo, introducono un elemento di (ulteriore) dissonanza nella valutazione del quadro congiunturale da parte della Fed e della presidente Janet Yellen che solo l’altro giorno aveva confermato la possibilità di un imminente rialzo dei tassi di interesse. Ora, invece, appare assai improbabile che nella riunione del prossimo 14 giugno venga deciso tale rialzo.
Del resto, nel rapporto congiunturale rilasciato dalla Fed mercoledì, i suoi economisti non celano le difficoltà della ripresa in atto, definita nel medesimo rapporto modesta o moderata, mentre i nuovi dati danno apparentemente ragione alla Yellen nell’aver optato dall’inizio della sua presidenza per un approccio “data dependent”, le cui decisioni, cioè, si basano su un apprezzamento olistico e pragmatico degli sviluppi dell’economia, stante la difficoltà di stabilire relazioni strutturali tra le sue innumerevoli variabili nel contesto post-crisi.
Sul fronte esterno, tali sviluppi aumentano la pressione con cui le autorità americane seguono le dinamiche congiunturali e le politiche economiche delle altre economie sistemiche che potenzialmente compromettono l’accesso degli esportatori americani ai rispettivi mercati interni. Sotto la lente di ingrandimento, vi sono politiche del cambio, barriere non tariffarie ma anche politiche macroeconomiche che generano un eccesso di risparmio limitando il contributo alla domanda aggregata mondiale. Non è un caso che la visita asiatica del segretario al Tesoro, Jack Lew, appena cominciata, ha previsto una sosta in Corea del Sud, la cui economia è già sotto lo scrutinio dell’amministrazione per gli interventi che le autorità monetarie hanno effettuato sul mercato dei cambi.
Lunedì, a Pechino, il segretario Lew intende discutere con la sua controparte cinese la caduta di tensione nell’agenda riformista di Pechino e le implicazioni per l’economia mondiale di tale rallentamento. Imprese americane lamentano di una crescenta difficoltà per le imprese straniere a penetrare i mercati cinesi nonostante dichiarazioni pubbliche vadano esattamente in senso contrario. Per proteggere la fragile dinamica interna, le autorità di Pechino nicchiano sulla riforma delle aziende statali nonostante sia stata annunciata ormai da vari anni, perché timorose delle significative conseguenze occupazionali e sulla crescita dei consumi che la chiusura di molte di queste aziende improduttive genererebbe nel breve periodo. La conseguenza è che la sovraccapacità dell’industria cinese permane e, con essa, si accrescono gli incentivi a vendere sotto costo sui mercati internazionali e americani. Questo è proprio ciò che l’amministrazione vuole evitare.
Visto da Washington, l’accesso alla domanda estera si misura anche rispetto a quelle politiche che producono un eccessivo surplus di parte corrente, limitando, per tale via, il contributo alla domanda aggregata mondiale. È il caso dell’Eurozona e, in particular modo, della Germania, il cui surplus corrente rispetto al pil ha toccato il record dell’8,5 per cento del pil lo scorso anno. Se la ripresa americana dovesse stabilmente indebolirsi, le tensioni con l’Eurozona e con quelle economie che ne guidano il suo surplus sono destinate ad intensificarsi. Pertanto, la prospettiva per una ragionevole conclusione e in tempi relativamente brevi di un accordo transatlantico di libero scambio, il Tttip, rischierebbe di essere definitivamente compromessa.
Negli Usa creati solo 38 mila posti, ma c’è piena occupazione
Le stime ne prevedevano 158 mila I senza lavoro scendono al livello minimo del 4,7%. L’impatto sulle decisioni della Federal Reserve di Giu. Fer Corriere 4.6.16
Gli ultimi dati sul mercato del lavoro Usa pubblicati ieri alimentano il rompicapo della disoccupazione americana e complicano la decisione della Federal Reserve su un nuovo rialzo dei tassi, che la presidente Janet Yellen e altri governatori della Banca centrale considerano «appropriato».
A maggio sono stati creati 38 mila posti di lavoro, meno dei 123 mila nuovi posti di aprile (il dato è stato rivisto) e ancora meno dei 158 mila attesi dagli economisti. A dispetto del drastico rallentamento - è il peggior risultato dal settembre 2010 - la disoccupazione Usa è scesa dal 5 al 4,7%, un tasso che molti considerano piena occupazione. Si tratta del livello più basso dal novembre 2007. Negli anni precedenti la crisi finanziaria la media dei senza lavoro era stata del 4,6%, una percentuale salita fino a un picco del 10%, nel 2009, in piena crisi.
Sembrano numeri in apparenza contradditori. La spiegazione è che molti americani, non trovando un’occupazione idonea alle loro capacità, hanno smesso di cercarla, e sono usciti dalla forza lavoro. La conferma è che la partecipazione alla forza di lavoro il mese scorso è scesa al 62,6%, il livello più basso dell’anno.
Un’altra spia che desta preoccupazione sulla reale salute del mercato del lavoro americano è data dal numero dei lavoratori con un impiego part-time perché non riescono a trovarne uno a tempo pieno: il mese scorso sono aumentati di 468 mila unità, con un tasso stabile al 9,7%, agli stessi valori del 2008.
Sui dati pubblicati dal Bureau of Labour Statistics pesa lo sciopero di circa 31.500 lavoratori di Verizon, tanto che l’occupazione nel settore delle tlc a maggio ha perso 34 mila posti. L’accordo siglato il mese scorso tra azienda e sindacati, se ratificato, potrebbe riflettersi sui dati di giugno. Un segnale positivo arriva però dalle retribuzioni orarie nel settore privato, salite in media del 2,5% rispetto a un anno fa, a 25,59 dollari. Con due implicazioni importanti: salari che crescono ben più dell’inflazione implicano più reddito per i consumi, e quindi una nuova spinta all’economia. Ma se le retribuzioni aumentano forse significa che la disoccupazione americana è strutturale e mantenere i tassi vicini a zero per un prolungato periodo di tempo non solo no aiuterà a creare nuovi posti, ma potrebbe aumentare i danni collaterali indesiderati.
Ecco perché il compito della Fed è così complicato e le decisioni su un possibile rialzo dei tassi per nulla scontate.
La malattia cronica dell’economia europea
di Paul Krugman Repubblica 10.6.16
LA situazione dell’economia europea nel suo complesso è terribile, ma non così terribile com’era un paio di anni fa. E questa è la buona notizia. La brutta è che a distanza di otto anni da quando si ipotizzava che questa dovesse essere una crisi finanziaria passeggera, la fiacchezza economica prosegue, va avanti, senza che se ne intraveda la fine. E questa dovrebbe essere una notizia preoccupante per tutti, in Europa e altrove.
Prima parliamo dei fattori positivi: nel primo trimestre dell’anno i diciannove Paesi che hanno adottato la valuta unica hanno fatto registrare una crescita dignitosa. Anzi, per una volta essa è stata superiore alla crescita negli Stati Uniti.
L’economia europea è, in conclusione, leggermente più grande rispetto a prima della crisi finanziaria, e la disoccupazione è scesa dai livelli del 2013 pari a poco più del 12 per cento a poco meno dell’attuale 10 per cento.
Tuttavia, è significativo che questa passi per una buona notizia. A buon motivo ci lamentiamo del ritmo lento della ripresa americana, ma la nostra economia in ogni caso è già cresciuta del 10 per cento rispetto a prima della crisi, mentre il nostro tasso di disoccupazione è tornato sotto il cinque per cento.
Il fatto è, come ho detto, che non si intravede una fine per questo ormai cronico risultato inferiore alle aspettative. Guardate un po’ che cosa ci dicono i mercati finanziari.
Quando i tassi di interesse a lungo termine sugli asset sicuri sono molto bassi, stanno a indicare che gli investitori non vedono una solida ripresa all’orizzonte. Beh, i bond quinquennali tedeschi attualmente rendono meno 0,3 per cento. In verità, i rendimenti sono negativi da otto anni.
In che termini dovremmo pensare a questi tassi di interesse così inverosimilmente bassi? Di recente l’ex presidente della Minneapolis Fed, Narayana Kocherlakota, ha offerto una brillante analogia: rispondendo a chi critica la politica dell’easy money e i bassi tassi di interesse tacciandoli di essere “artificiali” — perché le economie non dovrebbero aver bisogno di mantenere tassi così bassi — ha suggerito di considerarli alla stregua delle iniezioni di insulina di cui i diabetici hanno bisogno.
Queste iniezioni non rientrano in un normale stile di vita, e possono avere brutti effetti collaterali; tuttavia sono indispensabili per tenere sotto controllo i sintomi di una malattia cronica.
Nel caso dell’Europa, la malattia cronica è la persistente debolezza della spesa, che conferisce all’economia del continente una persistente tendenza deflazionaria perfino quando, come adesso, vive alcuni mesi relativamente positivi. L’insulina del denaro a buon mercato contribuisce a contrastare quella fiacchezza, anche se di fatto non fornisce una cura.
Mentre però le iniezioni monetarie hanno contribuito a contenere le calamità dell’Europa — vengono i brividi a pensare come sarebbero potute andare male le cose senza la leadership di Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea — esse non hanno portato a niente di comparabile a una vera e propria cura. In particolare, malgrado gli sforzi della Bce, l’inflazione di fondo in Europa sembra immobile ben sotto l’obbiettivo ufficiale del 2 per cento.
Nel frattempo, in Europa la disoccupazione è ancora a livelli tali da infliggere danni enormi sul piano umano, sociale e politico.
È importante notare che in Spagna, portata a esempio come una storia di successo, la disoccupazione giovanile resta a un’inammissibile 45 per cento.
E non c’è nulla da parte, di riserva, per affrontare un nuovo shock. Supponiamo che la Grecia esploda ancora una volta, o che gli elettori britannici votino a favore di un’uscita dall’Unione europea, o che l’economia cinese precipiti nell’abisso, o altro del genere. Che cosa potrebbero o sarebbero disposti a fare i policymaker europei per contrastare un simile sconvolgimento? Nessuno sembra averne la più pallida idea.
Il fatto è che non è poi così difficile vedere ciò che l’Europa dovrebbe fare per contribuire a curare la sua malattia cronica. Più di qualsiasi altra cosa, sarebbe il caso di aumentare considerevolmente la spesa pubblica, soprattutto in Germania, ma anche in Francia, Paese in condizioni fiscali di gran lunga migliori di quanto i suoi leader sembrano rendersi conto.
Ci sono enormi esigenze infrastrutturali non soddisfatte e ci sono investitori che in pratica stanno supplicando i governi di accettare i loro capitali. Ho già detto da qualche parte che il tasso di interesse decennale reale, il tasso sui bond protetti dall’inflazione, è meno 0,8 per cento?
Per di più, ci sono buoni motivi per ritenere che spendere di più nel cuore dell’Europa apporterebbe grossi vantaggi anche alle nazioni periferiche.
Fare la cosa giusta, però, sembra politicamente fuori questione. Lungi dal dimostrare la volontà di invertire la rotta, la classe dirigente tedesca critica di continuo la Banca centrale, l’unica istituzione europea di rilievo che pare avere una vaga idea di ciò che sta accadendo.
Mettiamola in questi termini: visitare l’Europa può indurre un americano a sentirsi bene al riguardo del suo Paese.
Mi piacerebbe molto vedere l’Europa emergere da questa situazione di grande depressione. Il mondo ha bisogno di più democrazie vibranti e vive. Al momento, però, è difficile avvistare qualche segnale positivo.
(Traduzione di Anna Bissanti) © 2016 New York Times News Service
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