Laura Sanguineti:
White, Seduzione e privazione. Il cibo nel Decameron, Maria Pacini Fazzi, Lucca, pagg. 129, € 15
di Lina Bolzoni Il Sole Domenica 15.5.16
Laura
Sanguineti White utilizza il cibo come strumento di attraversamento del
capolavoro trecentesco, mettendone in evidenza la sapienza narrativa,
la comicità, lo studio dei caratteri
Il cibo è tema onnipresente
nei programmi televisivi, declinato nei modi più diversi, a volte con i
toni impietosi e crudeli della competizione, che Crozza sa mettere così
bene alla berlina. È un piacere invece ritrovarlo nel libro di Laura
Sanguineti White, svolto con eleganza e precisione, usato come uno
strumento di attraversamento del Decameron, come utile cartina di
tornasole per metterne in evidenza la sapienza narrativa, la comicità,
lo studio attento dei diversi caratteri.
Il cibo, ci ricorda
l’autrice, è un grande tema culturale: riguarda l’antropologia, la
storia economica e sociale, il galateo, la cultura materiale, il gender,
le prescrizioni della dieta e della medicina (alcune eleganti immagini
tratte dai Taccuina sanitatis accompagnano il saggio), ha a che fare con
le pratiche della socialità, con la ricchezza e la miseria (e viene in
mente lo splendido, pioneristico lavoro di Piero Camporesi, il suo Il
pane selvaggio, ad esempio)
Questo approccio si rivela molto
fruttuoso per il Decameron: l’autrice lo lega infatti al grande tema
dell’importanza, della esaltazione dei sensi, al costruirsi di una
comunità che coltiva una socialità raffinata, in cui si cerca il piacere
insieme con l’eleganza e la misura. Una scelta di civiltà contro
l’abbandono all’eccesso cui altri si danno sotto l’incombere della
peste, sotto il trionfo minaccioso della morte
I cibi e le
bevande, il momento del convito accompagnato da canti, danze, musica,
rallegrato dai motti, intervallato dal narrare, costituisce infatti un
ingrediente essenziale della cornice dell’intera opera e delle singole
giornate. Questo è del resto uno dei temi portanti del libro: il nesso
fra il cibo e la narrazione, il fatto che l’incontro amicale, il convito
preludono «al banchetto verbale, al cibo spirituale offerto dalla
grande arte del narrare». E proprio la narrazione, e quindi la
letteratura, come la critica ha messo in risalto, avrà la funzione di
allontanare e in definitiva di vincere la morte: una nuova e eterna
reincarnazione della Sherazade delle Mille e una notte.
Ci sono
alcune immagini di cibo che hanno una forte qualità visiva, un impatto
memorabile, tale da rievocare con forza l’intera novella: pensiamo alle
’insalatuzze’ di ser Ciappelletto, che nella sua improbabile confessione
denuncia di aver troppo desiderato «cotali insalatuzze d’erbucce, come
le donne fanno quando vanno in villa», oppure alla montagna di
parmigiano evocata da Calandrino nella sua descrizione del paese di
Bengodi, e naturalmente al falcone che Federigo degli Alberighi
sacrifica al suo amore, o alla gru con una gamba sola, dato che
Chichibio, «vinizian bugiardo» e grande cuoco, ha fatto dono dell’altra
alla sua bella.
Alle metafore legate al cibo il saggio dedica
un’attenta analisi. Sono spesso di natura sessuale: tipico il caso del
digiuno, o della dieta, che indicano appunto una privazione sessuale;
modi di dire popolari, come ’rendere pan per focaccia’, vengono riusati
in questo senso. È interessante notare che le metafore di tipo
alimentare-sessuale si intrecciano con l’autorappresentazione della
scrittura: divertente il paragone con il porro, che ha la testa bianca
come i vecchi e le foglie verdi, come i giovani. Boccaccio lo usa nella
introduzione alla IV giornata, dove il famoso aneddoto delle
donne-papere serve a ricordare l’invincibile e naturale forza dell’amore
e Boccaccio rivendica, sulla scorta di esempi illustri come Dante e
Cavalcanti, il suo diritto di amare anche in età avanzata e di dedicare
alle donne le sue novelle. Il porro, con i suoi diversi colori, era già
apparso nell’ultima novella della prima giornata, dove un vecchio e
celebre medico, mastro, Alberto da Bologna, lo usa per rispondere a chi
lo prende in giro per l’amore che nutriva verso una giovane vedova. Il
porro funziona così da richiamo da novella a novella, a immagine
esemplare della diversità degli amori, a difesa di quelli senili (e
insieme della libertà del novellare).
Nel descrivere e nel
rievocare le bellezze delle donne il cibo svolge naturalmente una
funzione di primo piano. Monna Isabetta è «fresca e bella e ritondetta
che pareva una mela casolana»; nell’infernale beffa che un abate gioca
al povero Ferondo, per poter godersi liberamente sua moglie, gli fa
credere di essere in Purgatorio, e tra le sofferenze Ferondo rievoca la
bella consorte, «la più dolce: ella era più melata che il confetto».
E
a proposito di confetti l’autrice ci fa notare come il binomio vini e
confetti sia ricorrente, una specie di contrassegno dei momenti di
convivialità. I confetti, come leggiamo da una citazione di Claudio
Bemporat, erano composti di «un nucleo di zenzero, mandorle, noci,
cannella, semi di finocchio ricoperto da uno strato solido di zucchero,
serviti all’inizio e alla fine dei banchetti più lussuosi». La presenza
del cibo si delinea nel testo attraverso un gioco di varianti e di
articolazioni: se nella cornice il riferimento è generico (vini e
confetti, vivande buone e delicate), via via nelle novelle siamo meglio
informati di cosa si mangia e si beve, con attenzione alle varietà
regionali: così ad esempio la bella –e pericolosasiciliana offre a
Andreuccio da Perugia, arrivato a Napoli, del vino “greco”, mentre il
notaio attempato che nell’ultima novella della seconda giornata fa
fatica a consumare il matrimonio, ristora poi le sue forze, oltre che
con i soliti confetti, con una buona vernaccia.
I cibi si adeguano
infatti alle diverse prestazioni: nella prima novella della settima
giornata il marito mangia «un poco di carne salata», mentre il giovane e
prestante amante si concede, per prepararsi all’incontro amoroso, «due
capponi lessi, molte uova fresche e un fiasco di buon vino».
Il
cuore umano, in particolare il cuore della persona amata, entra in gioco
in alcune delle novelle più tragiche e visionarie: se Ghismonda
condisce con «erbe e radici velenose» il sangue dell’amato che il padre
geloso ha ucciso, Nastagio degli Onesti vede, nella caccia infernale in
cui viene punita la crudeltà della sua bella che rifiuta il suo amore,
il cuore di lei gettato ai cani.
Il tema del cibo si rivela così,
nel bel libro di Laura Sanguineti White, componente importante di quel
libro\mondo che è il Decameron.
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