Psicoanalisi. Dieci incontri in forma di saggio con il maestro francese: un libro di Alex Pagliardini
lunedì 2 maggio 2016
Il revival di Lacan: un altro libro
Alex Pagliardini: Il sintomo di Lacan. Dieci incontri con il reale, Galaad edizioni, pp. 382, euro 16,00
Risvolto
La psicoanalisi deve toccare il reale, in caso contrario è una farsa, oppure, detto altrimenti, una psicoterapia. Il sintomo di Lacan
si misura – in dieci “incontri” che sono altrettante forzature e
scomposizioni della stessa domanda – con questo interrogativo: la
pratica analitica può toccare il reale? E se sì, quando e in che modo
riesce a farlo? Il reale, comunque lo si voglia intendere – come uno dei
registri della vita, come esperienza pura, come insopportabile, come
esigenza pulsionale acefala, come problema insolubile, come impossibile,
come cosa in sé, come realtà grezza, come nuda vita, come evento –, è
senz’altro il “punto” sul quale Lacan ha insistito maggiormente nel
corso del suo lavoro. Per questo egli ha concepito l’analisi come una
prassi nella quale far accadere il reale, nella quale incontrarlo, per
consentire all’analizzante di stabilire con esso, anziché patirlo, un
diverso rapporto. Così intesa, la pratica analitica si allontana dai
suoi consueti percorsi, rassicuranti ma asfittici, per dirigersi verso
altri territori, verso un orizzonte impossibile; mentre l’analista è
costretto a collocarsi in una nuova posizione, che sia all’“altezza” del
reale – una posizione per certi versi insopportabile e insostenibile.
Qui si incontra un secondo interrogativo cruciale, che attraversa il
libro prendendo gradualmente corpo tra le pieghe del ragionamento: fino a
che punto l’analista può forzare la propria posizione, fin dove può
spingersi, affinché un’analisi arrivi a toccare il reale?
Jacques Lacan, incandescenza del realePsicoanalisi. Dieci incontri in forma di saggio con il maestro francese: un libro di Alex Pagliardini
di Rocco Ronchi il manifesto Alias 1.5.16
Da tempo, ormai, intorno all’opera di Jacques Lacan si è andato
concentrando un interesse che va ben oltre i confini della psicanalisi,
di cui Lacan è stato un impareggiabile maestro. Lo si deve, senza
dubbio, al fatto che alla formazione di quel pensiero hanno concorso in
modo determinante altri saperi: dall’antropologia alla linguistica, alla
filosofia, per arrivare, infine, alle matematiche e alla biologia.
Tuttavia, non è soltanto in ragione di questa ricchezza di riferimenti
teorici che la psicanalisi lacaniana è così trasversalmente presente nel
dibattito intellettuale: la sua centralità si deve a un’altra ragione,
una ragione speculativa. Per quanto possa essere forte la tendenza a
evadere i problemi essenziali, ogni epoca è infatti chiamata prima o poi
a una resa dei conti. Ci sono urgenze che non dipendono dalla buona
volontà degli uomini ma sono inscritte nella natura delle cose. Ci sono
domande che devono essere poste. Anche le epoche, come gli esseri umani,
percepiscono che il tempo è scarso e che, come disse Seneca, la vita
rischia esaurirsi in una vana attesa, senza mai essere stata veramente
vissuta.
La domanda speculativa è allora quella che chiede cosa sia veramente
reale per noi, cosa «valga» per noi come indiscutibilmente reale. Per un
lunghissimo periodo della storia questa domanda ha avuto come risposta:
Dio. Dio era il massimamente reale per un uomo del Medioevo. La
modernità gli ha sostituito la storia, l’uomo al lavoro, artefice del
proprio destino. Quanto ai tempi attuali, i post-moderni” ci hanno
insegnato che è il senso dell’irrealtà a prevalere. Neanche le
catastrofi sembrano sfuggire a questa dimensione immaginaria. Ma nessuna
epoca, nemmeno la nostra, può differire all’infinito la questione del
reale. Prima o poi lo deve incontrare. Jacques Lacan diceva di sé, come
teorico, di aver inventato un solo concetto: quello di «reale». Per
questo è diventato un imprescindibile punto di riferimento del pensiero
speculativo contemporaneo. Ne è prova anche l’ultimo lavoro di Alex
Pagliardini, Il sintomo di Lacan Dieci incontri con il reale (Galaad
edizioni, pp. 382, euro 16,00). L’autore è uno psicanalista, non un
filosofo, dunque la sua è una preoccupazione soprattutto clinica,
riguarda la domanda che viene posta da qualcuno che si presenta nel suo
studio portando con sé un disagio di cui ignora la causa. Tuttavia, se
leggiamo la definizione di pratica analitica alla fine del primo
capitolo, dedicato alla nozione di trauma, non abbiamo dubbi
sull’intenzione speculativa che attraversa il testo di Pagliardini. «La
pratica analitica – scrive – deve produrre l’impossibile, incontrarlo
come tale». Lo stile espositivo è perentorio: invece di nascondersi
nelle pieghe della sfuggente scrittura lacaniana o, ancora peggio, di
mimarla, Pagliardini osa dire in modo diretto, prendendo posizione.
In quella secca definizione si dice innanzi tutto che la meta della
pratica analitica è incontrare il reale come tale; e si dice anche che
il reale è quell’impossibile che bisogna produrre nel corso
dell’analisi. L’analisi, infatti, non è dialogo, non è conversazione,
non mira alla produzione di un senso condiviso. L’analisi non è
«esperienza vissuta». Tutte queste interpretazioni, care a una certa
psicanalisi «umanistica», perdono di vista l’elemento propriamente
traumatico, il valore di «evento» che una buona analisi dovrebbe invece
sempre comportare e che lo psicanalista, soprattutto se lacaniano, deve
sapere produrre. «Impossibile» è così una buona approssimazione alla
natura del trauma, perché indica l’accadere di qualcosa che eccede la
capacità rappresentativa del soggetto: non è l’irreale, ma il reale
portato al suo punto di incandescenza, un reale così massimamente reale
da non essere più nemmeno a misura del soggetto (non più «possibile»,
quindi), un reale che incide il soggetto, marchiandolo a fuoco. La
filosofia speculativa questo impossibile se lo era figurato nella forma
del sublime, che – dopotutto – non è altro se non l’eccesso del reale
all’opera. Per questo Pagliardini non considera il trauma nella sua
dimensione empirica: non è un fatto – scrive – non è un accadimento nel
tempo lineare (la cosiddetta scena primaria che segnerebbe l’esistenza
del nevrotico).
Il suo piano è, come direbbero i filosofi, trascendentale. In alcune,
intense pagine, Pagliardini mostra come il trauma non smetta mai di
accadere nel corso di «una vita», proprio perché esso, come tale, ha la
forma dell’accadere «puro» e non della cosa «accaduta». La cattiva
psicanalisi è invece quella che confonde i due piani mettendo il
blablabla del «senso» dove c’è «evento» e cercando di addomesticare
l’impossibile. Le parole che nel testo di Pagliardini ricorrono con più
insistenza nei momenti topici della sua argomentazione provengono tutte
dalla filosofia: l’inconscio, scrive, è atto e, precisamente atto in
atto, la sua dimensione non è quella della materia ma quella della
energheia, dell’attività. Esso va colto sotto il profilo del divenire,
ma è un divenire, scrive Pagliardini, che non è uno scorrere bensì un
fieri, vale a dire una causalità creatrice di effetti imprevedibili. Non
è solo questione di echi evocati bergsoniani o gentiliani, peraltro
insoliti tra gli psicanalisti lacaniani, ma di una proposta (indiretta)
di revisione della metafisica sottesa dalla psicanalisi: se la pratica
analitica incontra il reale, corrispondendo in tal modo a un’urgenza che
l’epoca sente ormai come indifferibile, dovrà dotarsi di una
concettualità adeguata a questo scopo speculativo.
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