lunedì 30 maggio 2016
Il Rousseau di Giglioli
Feticci. Si moltiplicano i richiami al filosofo francese, additato a
esempio di trasparenza e rigore. Ma così facendo ci si allontana dal
cuore del suo pensiero, che era intrinsecamente contraddittorio e che,
un secolo e mezzo prima di Nietzsche e Max Weber, mostrò l’origine infondata e irrazionale di ogni istituto razionale
di Daniele Giglioli Corriere La Lettura 29.5.16
Su Rousseau circola da due secoli una vulgata che sarebbe caritatevole
chiamare liberal-conservatrice, quando invece è francamente reazionaria:
pura propaganda. Suona così: Rousseau è il cattivo maestro dei
giacobini. Un precursore del totalitarismo. Da Rousseau si va diritti al
gulag. Fosse per lui cammineremmo tutti a quattro zampe (questa a dir
il vero era di Voltaire, e infatti almeno fa ridere). Ricostruzione che
non sta né in cielo né in terra: se i giacobini fecero quel che fecero
non fu per fanatismo rousseauiano, ma perché costretti a inventarsi
soluzioni in fretta e furia nella brutale emergenza in cui versavano.
Chi voglia comunque farsene un’idea può ricorrere al libro di un vecchio
arnese da Guerra Fredda come lo storico israeliano Jacob Talmon, Le
origini della democrazia totalitaria (il Mulino, 1952) screditatissimo
tra gli studiosi, ma incredibilmente citato ancora oggi come autorità in
molti articoli di giornale: i luoghi comuni non muoiono mai.
Ma il buffo è quanto il falso Rousseau dei reazionari somigli, nella
pratica se non negli intenti, almeno espliciti, al Rousseau cui il
Movimento 5 Stelle ha intitolato la sua nuova piattaforma informatica in
omaggio al cofondatore Casaleggio recentemente scomparso, il quale
considerava Jean-Jacques «il padre della democrazia diretta». Ora, a un
movimento che si pretende rivoluzionario e però chiama «direttorio» il
suo organismo dirigente (laddove il Direttorio non segnò l’inizio, ma la
fine della Rivoluzione francese), non si ha cuore di chiedere troppe
pezze d’appoggio filologiche. E poi la politica cerca il suo bene dove
lo trova e ha tutto il diritto di non andare troppo per il sottile.
Ciò che sorprende non è dunque questo, ma lo scarto tra le dichiarazioni
(Rousseau profeta di una democrazia «più democratica» di quella
rappresentativa) e la prassi: decisioni inappellabili dall’alto,
trasparenza pretesa solo in basso, autorità carismatica dei fondatori,
ossessione per una corruzione che alberga non tanto nel sistema, ma nel
cuore stesso degli esseri umani, tutti criminali in potenza da
sorvegliare in ogni singolo aspetto della vita, quando Rousseau diceva
invece che l’uomo nasce buono ed è la società che lo perverte. Più che
Rousseau questo è De Maistre, un reazionario della più bell’acqua; o al
massimo, appunto, il Rousseau sfigurato (forse perché segretamente
desiderato?) dalla propaganda reazionaria. Da cui la domanda: cosa
accomuna le due interpretazioni?
Non certo il piatto adagio che gli estremi si toccano. Piuttosto il
rifiuto, il rigetto, l’orrore per la contraddizione. Il pensiero di
Rousseau è contraddittorio. Lui stesso lo sapeva. Non ha mai preteso di
spacciare formule pronte per l’uso. Le soluzioni che avanzava servivano
più a criticare lo stato di cose che a proporne in concreto uno diverso
(è questa, da sempre, la funzione dell’utopia: additare le crepe del
presente, non indicare un ordine perfetto che, se realizzato, diverrebbe
un incubo incriticabile).
Il problema attorno a cui si è sempre arrovellato è il seguente: come
rendere gli uomini liberi se sono loro i primi a non volerlo? A questo
rispondono le finzioni teoriche e narrative del pedagogo nell’ Emilio ,
del legislatore nel Contratto sociale , di Wolmar in un romanzo come La
nuova Eloisa , che allestisce un microcosmo familiare dove la menzogna è
bandita e tutti vivono all’insegna di una trasparenza che implica
assoluta fiducia nella veridicità altrui.
Esperimenti di pensiero. Casi limite, così come un caso limite era per
Rousseau quello «stato di natura» originario di cui lui stesso diceva
che «probabilmente non è mai esistito e probabilmente non esisterà mai».
E così come altrettanto un caso limite è la pretesa, nelle Confessioni ,
di essere stato l’unico a tentare l’«impresa senza esempi» di mostrarsi
esattamente com’era, con tutto il suo bene e il suo male, episodi
vergognosi compresi. Pretesa in cui era trasparente un ricatto: se vi
racconto anche i miei lati più ripugnanti siete obbligati a credermi su
tutto. E del resto già nelle opere politiche Rousseau insisteva su
quanto il pedagogo e il legislatore debbano spesso ricorrere a
suggestioni, mezzucci e perfino imposture per conseguire i loro scopi:
il pedagogo che finge di smarrirsi con Emilio nella selva in modi che
questi impari a sbrigarsela da solo; Numa Pompilio che consulta la Ninfa
Egeria nella grotta o Mosè che chissà quanto a lungo si sarà girato i
pollici sul Sinai prima di ridiscendere con le tavole della legge.
Ciò che Rousseau, in altre parole, ha pericolosamente messo a nudo, un
secolo e mezzo prima di Nietzsche e di Max Weber, è l’origine infondata e
irrazionale di ogni istituto razionale, l’abisso inscrutabile che
presiede alla genesi di ogni soggettività individuale e collettiva. E
tutto ciò in pieno Illuminismo, quando le migliori menti della sua
generazione si beavano di credere che la ragione fosse un processo
naturale, progressivo e irreversibile che avrebbe finito per imporsi da
sé. Un ottimismo che Rousseau non ha mai condiviso: non a caso l’utopia
di Wolmar nella Nuova Eloisa finisce male; lui stesso diceva che nessun
popolo europeo avrebbe mai potuto mettere in pratica il Contratto
sociale ; in un abbozzo di continuazione dell’ Emilio , cioè Emilia o I
solitari , il suo pupillo viene tradito dalla sposa che il precettore
gli aveva allevato come anima gemella; mentre nelle opere
autobiografiche successive alle Confessioni ( Rousseau giudice di
Jean-Jacques , Le fantasticherie di un passeggiatore solitario ) è
costretto ad ammettere che la trasparenza promessa era impossibile e non
aveva potuto fare a meno di abbellire, integrare, ritoccare.
Contraddizioni penetrate nelle fibre più intime della sua psiche, negli
anni sempre più minata dalla paranoia e dalla mania di persecuzione,
fino all’ipotesi di un complotto universale ai suoi danni che vedeva
coinvolti i suoi ex amici enciclopedisti e i gesuiti, i magistrati di
Ginevra e le corti europee…
Che cosa fanno invece i maldestri esegeti di Rousseau? Laddove
Jean-Jacques crea metafore geniali per mostrare quanto rischiosamente si
articolino desiderio e pericolo, loro prendono le metafore alla
lettera, scambiano le finzioni per verità, elevano a norma un
esperimento. Alla contraddizione preferiscono la paranoia. Qualcosa di
simile accadde a un altro sperimentatore abissale poi sprofondato nella
demenza come Nietzsche: tra il cantore della bestia bionda celebrato dai
nazisti e il conciliante fricchettone dei postmoderni (niente fatti,
solo interpretazioni, tana libera tutti) ci sono più punti di contatto
di quanto non si creda. La semplificazione è tanto necessaria in
politica — dove bisogna scegliere: repubblica o monarchia, divorzio sì o
no, nazionalizzare o privatizzare — quanto stupida nel pensiero. Ma più
stupido ancora è confondere i due piani: chi lo fa si condanna
all’impotenza o al disastro; nel migliore dei casi, al ridicolo.
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