venerdì 13 maggio 2016

La narrazione della morte di massa dei sottouomini nella società neocoloniale dello spettacolo

Dal tragico all’osceno
Antonio ScuratiDal tragico all'osceno. Raccontare la morte nel XXI secolo, Bompiani

Risvolto
Nel paesaggio mediatico contemporaneo il tragico è stato sostituito dall’osceno. Il trionfo dell’oscenità di massa sull’arte tragica rende impossibile una rappresentazione partecipe e catartica della sofferenza umana. Questo profondo rivolgimento culturale precipitò negli ultimi decenni del Novecento. Mai come a partire da quel momento le occasioni di assistere allo spettacolo della sofferenza altrui sarebbero state tanto quotidiane e immediate. Ben presto l’uomo che abitava il mediascape di fine millennio si trasformò in un animale anfibio, capace di vivere simultaneamente in due ambienti opposti: all’asciutto del proprio mondo pacifico e protetto ma anche immerso nella palude insanguinata da vittime di apocalissi lontane. La nostra pelle squamata si sarebbe presto dimostrata perfettamente impermeabile a entrambi gli ambienti. Qualsiasi tragedia altrui ci sarebbe scivolata addosso. Analizzando e comparando romanzi, film, fotografie e televisione, questi saggi di Scurati scavano sotto il fasullo senso umanitario di una società gaudente, ludica, stupidamente euforica, arrogantemente dimentica dell’angoscia del morire, una cultura che nella panacea della visibilità elettronica s’illude di poter mettere a morte la morte.
Un orrore al giorno leva il rimorso di torno 
Le grandi tragedie del nostro tempo ci appassionano perché investono la nostra facoltà immaginativa lasciando inattiva quella morale: dal nuovo saggio di Scurati 

Antonio Scurati  Busiarda 10 5 2015
Nella primavera del 2007 è accaduto che molti cittadini degli Stati Uniti d’America, comodamente seduti ai tavolini di Starbucks, abbiano sorseggiato il loro finto espresso macchiato-caldo mentre leggevano di corpi dilaniati su cui volano sciami di mosche «talmente eccitate e intossicate che vanno a morire gettandosi nelle pozze di sangue».
Il libro più venduto negli Stati Uniti nella primavera del 2007 fu, infatti, Memorie di un bambino soldato, di Ishmael Beah, in cui l’autore rievocava la sua adolescenza di guerriero e assassino, arruolato a forza dai ribelli durante la guerra civile del 1993 in Sierra Leone. Beah aveva tredici anni quando, nel silenzio della comunità internazionale e dei mass media, i ribelli s’impadronirono della zona diamantifera e v’instaurarono un regno del terrore, amputando gambe, braccia, orecchie e naso a più di trentamila persone. Quattordici anni dopo, le sue memorie appaiono in Usa con un’impressionante prima tiratura e scalano immediatamente le classifiche di vendita. Perfino la catena Starbucks, uno dei simboli internazionali dell’iperconsumismo gaudente - pur vendendo caffè, non libri - ne prenota 100.000 copie. 
Come si spiega un paradosso del genere? Con un risveglio della coscienza di un popolo fino ad allora indifferente alle tragedie africane e poi, tutto a un tratto, attento e partecipe? 
Salman Rushdie ha una sua spiegazione per lo straordinario successo che, sempre più spesso, ottengono negli Stati Uniti e nel resto del mondo occidentale i libri che raccontano le sofferenze di popolazioni coinvolte in guerre o in tragedie umanitarie lontane e dimenticate: gli occidentali sopperirebbero al loro bisogno di sapere, disatteso da giornali e tv, ricorrendo alla letteratura. Auguriamoci che Rushdie abbia ragione, ma qualcosa non torna nella sua spiegazione.
I criteri di notiziabilità
È risaputo, oramai, che i criteri di notiziabilità - quel complesso di requisiti che gli eventi devono avere per diventare notizie - non sono relativi soltanto al fatto in sé ma anche, e soprattutto, al modo in cui è organizzato il lavoro giornalistico, al linguaggio specifico del mezzo che presenta la notizia, alla notizia in quanto prodotto da vendere sul mercato dell’informazione. La «nazionalizzazione» e la «personalizzazione» aumentano il valore di notiziabilità di un accadimento perché suscitano l’interesse del pubblico e perché consentono di inserire il fatto in una struttura narrativa drammatica. 
Per questi motivi, si parla di una malattia africana solo se colpisce un italiano, o s’informa efficacemente sulla tragedia di un popolo solo se riconducibile al dramma di un solo individuo come nel caso del povero, piccolo Aylan per la tragedia del popolo siriano. Ma, anche stando così le cose, sorprende che i mezzi d’informazione non trovino il modo di raccontare in forme avvincenti la crisi alimentare in Etiopia che spinge masse di migranti verso l’Europa o l’endemica emergenza criminale in Campania; stupisce che i direttori di giornali e tg siano più cinici dei loro lettori e spettatori, i quali poi corrono a centinaia di migliaia a comprare i libri di Beah o di Saviano.
Verosimilmente, il problema sta altrove. La faction, oggi tanto di moda, l’impasto di artifici drammaturgici e materia narrativa ad alto tasso di contenuti informativi, forse non indica un desiderio del pubblico di essere messo di fronte alla tragedia dell’Africa, della Siria o della camorra. Al contrario, l’esperienza che si fa, a livello di consumo di massa, di guerre, pandemie, crisi umanitarie, quando filtrate da un docudrama o da un romanzo-verità, forse rientra anch’essa in quella diffusissima cultura del diniego che consente a tutti noi di restare inerti di fronte alle immagini del dolore trasmesse ogni giorno dai mass media e ai nostri governi di negare le loro responsabilità di fronte agli orrori, accadano essi in luoghi remoti del mondo o entro i confini del «nostro» mondo. 
La denegazione
Forse si tratta ancora di quel meccanismo psichico che Freud definiva denegazione: un ritorno soltanto parziale del rimosso. Le grandi tragedie del nostro tempo, rimosse per decenni dalla coscienza collettiva perché oscurate dai mezzi d’informazione, avrebbero nella faction un ritorno solo affabulatorio. Investirebbero, cioè, in pieno la facoltà immaginativa dei lettori, lasciando però inattive le facoltà intellettive e morali. 
Gli orrori reali supererebbero, così, il doppio filtro di rifiuto e disinteresse ma a patto di essere fruiti con le modalità dei prodotti di finzione. Le accorate denunce verrebbero in soccorso al diniego funzionando come «allucinazioni positive» (fantasie, miti, favole), rischiando così di fornirci un alibi per continuare a rimanere inerti sul piano dell’agire politico e civile. Come a dire: dopo che la mia nazione, e io stesso, abbiamo colpevolmente ignorato le tragedie africane o mediorientali, e continuiamo a farlo anche ora, mi purifico la coscienza appassionandomi al singolo caso, ben raccontato, di un ex bambino guerriero o di un bambino cadavere. Insomma, una forma più sottile, e più perversa, di rimozione. 
Questa sofisticata forma di remissività nei confronti della sofferenza mediatizzata di popoli stranieri, la ritroveremmo poi all’opera anche di fronte alla sofferenza del nostro popolo. Non si spiegherebbe altrimenti come la coscienza europea abbia potuto digerire nel giro di pochi mesi il presunto trauma per le stragi di Parigi dello scorso novembre e stia facendo lo stesso con quelle di Bruxelles dello scorso marzo.

SIMULACRO E RIMOSSO, È LA MORTE 2.0Corriere della Sera  10 giu 2016 Di Pierluigi Panza
Dal tragico all’osceno di Antonio Scurati (Bompiani, pp. 268, 13) esce nella collana «Agone» (curata dallo stesso), che è una palestra di critica culturale intermedia tra l’accademismo iperspecialistico che non interessa a nessuno e l’opinionismo tv che interessa ancora meno. Agli intrepidi visitatori di questo spazio, Scurati rivolge caustiche osservazioni sulla fruizione della morte nella contemporaneità, quasi un sequel al libro di Philippe Ariès Storia della morte in Occidente.
La domanda sottesa al testo è questa: come può, la morte, essere una (ultima) passerella mediatica? Quali sono le forze che favoriscono il consumo del simulacro della morte?
Anzitutto, sono coloro che giocano con il piacere degli individui nell’osservare «lo splendore della vittima». A questo proposito Scurati critica quegli scrittori «apocalittici e integrati» come Littell o Nothomb (ma anche le pubblicità di Toscani o film come Schindler’s List) che desacralizzano il tragico sostituendolo con l’osceno.
Le conseguenze dell’11 Settembre — «il nostro Vietnam» — hanno mostrato come i media siano capaci di anticipare persino gli esiti delle guerre e delle distruzioni future, trasformando il domani in un déjà vu senza apertura di possibilità. Ciò ha generato una società di individui per i quali anche le morti (il futuro per eccellenza) sono già narrate.
Acuta l’individuazione del nostro come tempo che premia la fictual, un genere a metà tra la fiction e il factual (il ritorno alle cose di Ferraris). Ne è testimonianza quella letteratura in cui l’esperienza personale della violenza viene amplificata da accentuazioni mitopoietiche che attraggono il lettore-spettatore: sono i casi di Ishmael Beah, Khaled Hosseini, Azar Nafisi... C’è però benevolenza, con acrobazie semantiche («concretezza escrementizia di uno sfogo fisiologico», «cavità coscienziale»), per la «non-fiction novel » di Saviano.
Anche il consumo delle immagini della morte sui media digitali è un simulacro che, al pari dell’iperrealismo mordi e fuggi della cronaca e degli ologrammi che compaiono sui display degli aerei che scaricano bombe, tiene i partecipanti al sicuro, agli antipodi dal confronto autentico con la morte.
Mai lo sguardo sulla morte è stato così vicino (come simulacro) e, insieme, così rimosso (come autenticità), come nella nostra epoca. Da un lato registriamo l’eccesso di pulsioni voyeuristiche (film come La Passione di Cristo di Mel Gibson), il diffondersi di programmi dove dominano gli anatomopatologi, il reificare in se stessi personaggi come Scarface, l’indifferenza tra vittima e carnefice…; dall’altro registriamo le rimozioni del corpo del defunto (cremazione con spargimento di ceneri), quella dei suoi atti dalla memoria affettiva (magari per delegarla a un database) e delle artes moriendi. Quella contemporanea è una società gaudente e dimentica dell’angoscia del morire, passata dal tragico all’osceno e caratterizzata da un fasullo senso umanitaristico, sebbene io credo contrastata da alcuni «resistenti» che visitano i cimiteri, assistono malati terminali (come il Vidas) o anziani negli ospizi.
Ma di chi è la responsabilità? Forse nell’abbandono della pedagogia, del senso della storia e, per Scurati, anche nella cronaca che trae vantaggio da questo nichilismo autoreferenziale fregandosene di alzare «lo sguardo all’orizzonte» (sebbene il ruolo della cronaca sia quello di fermarsi al fatto). Soprattutto quella che è venuta a mancare è la mediazione simbolica svolta dall’arte e dalla letteratura, che nascono (come sosteneva Régis Debray) quali giganteschi apparati funerari di mediazione tra vivi e morti. Senza la mediazione estetica di Omero, dei tragici greci o di Caravaggio, le morti e le decollazioni non vengono più osservate al di fuori dei pochi secondi di consumo voyageristico dell’orrore riservato a Kenneth Bigley.

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