domenica 15 maggio 2016
Le lezioni veneziane di Vittorio Gregotti
Risvolto
Nei suoi seminari tenuti presso lo IUAV, Vittorio Gregotti illustra
come le riflessioni intorno alla relazione tra teoria e prassi possano
ancora, nei nostri difficili anni, produrre un’architettura le cui
qualità siano un contributo positivo alla vita collettiva e alla
gerarchia dei suoi valori possibili e necessari: “Noi architetti usiamo
probabilmente la parola teoria in modo nello stesso tempo abusivo e
indispensabile. Abusivo perché il suo significato è assai distante
dall’uso che ne fanno scienza e filosofia […]
Mettere in scena il pensiero
sotto una forma dotata di intenzionalità sembra essere il compito
dell’architettura quando si parla di teoria. Si potrebbe dire che, in
qualche modo, le cose stesse dell’architettura sono in alcuni casi in
primo piano la sua teoria, o almeno del frammento di verità del presente
che esse intendono proporre.”
Vittorio Gregotti, architetto e saggista, protagonista
dell’architettura italiana e internazionale, è autore di numerosi volumi
di successo. Ha pubblicato con Skira, tra gli altri, L’ultimo hutong.
Lavorare in architettura nella nuova Cina (2009), Incertezze e
simulazioni. Architettura tra moderno e contemporaneo (2011) e
L’architettura di Cézanne (2011).
Vittorio Gregotti: progettare è (re)inventare il territorio
Corriere della Sera 7 mag 2016 Di Pierluigi Panza
Il Centre Pompidou di Parigi propone da qualche tempo un percorso di mostredossier dedicate a grandi figure della modernità. Dopo Barnett Newman, Gil J. Wolman, Chen Zhen e Hubert Damisch presenta in queste settimane Vittorio Gregotti. L’Invenzione del territorio (fino al 23 maggio), omaggio all’architetto italiano attraverso 26 disegni e 10 modelli, frutto di una recente donazione al museo parigino.
Sebbene la maggior parte dell’archivio di Vittorio Gregotti sia stato destinato al Castello Sforzesco di Milano, questo carnet arricchisce la collezione di architettura del Centre Pompidou, che è la più importante del mondo con 13 mila opere. Si tratta di assonometrie, planivolumetrici e plastici relativi ai progetti per le università di Firenze e della Calabria, agli alloggi popolari di Cefalù e alla riqualificazione del quartiere Bicocca a Milano nelle quali «Gregotti dimostra che la forma architettonica è la forma del processo che lo ha prodotto — dichiara il commissario del Beaubourg, Frédéric Migayroux —. Gregotti difende una coerenza metodologica per il progetto».
Questa osservazione di Migayroux si offre anche come chiave di lettura del nuovo libro di Gregotti, Lezioni veneziane (Skira, pp.134, 21,50), che raccoglie i seminari svolti anni fa allo Iuav di Venezia, dove nel 1978, direttore Carlo Aymonino (seguito a Carlo Scarpa), Gregotti era stato chiamato ad insegnare a fianco di Massimo Cacciari, Franco Rella (che introduce il volume), Manfredo Tafuri, Aldo Rossi, Bernardo Secchi, Francesco Tentori, Massimo Scolari…
Scopo del libro è quello di mostrare come, ancora oggi, la relazione tra teoria e prassi possa generare un’architettura in grado di fornire un contributo al miglioramento della vita collettiva secondo valori condivisi. Ciò si dispone come alternativa al proliferare di una architettura di maniera che nasce per rispondere a finalità finanziarie, di comunicazione o immagine.
Ma in che modo l’architettura mette in scena un pensiero? Allo stesso modo in cui lo ha fatto l’arte d’avanguardia, ovvero attraverso l’opera stessa. Come nell’arte d’avanguardia ogni opera risponde alla domanda «Che cos’è l’arte», analogamente l’architettura, attraverso la sua forma, i suoi particolari e le sue interrelazioni con il contesto si offre come frutto di un pensiero che risponde alle urgenze della società e della storia. Al di fuori di questa metodologia, l’architettura diventa mera risposta al soddisfacimento di esigenze che trovano consenso. Alcune volte queste risposte sono un rispecchiamento della realtà, testimonianza dei processi che le hanno generate; altre volte nemmeno questo. Solo quando è frutto di un pensiero, l’architettura diventa azione critica attraverso la sua forma che, come sosteneva Paul Valery, «determina con il suo stesso essere altre forme».
La teoria architettonica è parte dell’agire concreto («il pensiero della forma») e la sua prima materia generativa è il confronto tra il presente e la storia come spessore vivente, confronto da cui scaturisce una nuova pratica fattuale che interroga le contraddizioni dell’oggi. Le altre materie di confronto sono la politica, la religione e le incessanti tecnologie che spadroneggiano in un orizzonte liquido dove le nuove ideologie sono il non volere ideologie e il totalitarismo digitale. Proprio perché contrastano il conformismo contemporaneo, teoria, critica e storia sono tenute al di fuori del sacro recinto delle pratiche immediatamente esperibili. Ma il loro esilio è un’illusione, poiché funzionalismo ed estetica (intesa anche come riflessione sulle cose) «sono inscindibili» (Adorno).
Il libro declina questi temi in varie prospettive: ricognizioni nella storia delle teorie architettoniche, analisi del concetto di Modernità, metamorfosi della figura dell’architetto come garante di un processo e sfide che le tecnoscienze e la globalizzazione pongono. Con uno sguardo sull’urbanistica come progettazione critica per «modificazioni successive», che si oppone «al cinico e complice sviluppo odierno contro la città consolidata».
La sfida degli architetti? Costruire città più giuste
Dal tramonto delle archistar ai progetti innovativi per le periferie sudamericane Il grande storico Joseph Rykwert parla del futuro del nostro spazio urbano
FRANCESCO ERBANI Restampa 6 5 2016
Fa novant’anni (nato a Varsavia, vive a Londra, ha insegnato negli Stati Uniti). È a Bologna per ricevere, oggi, una laurea ad honorem, che premia una formidabile carriera di storico dell’architettura e di storico della città, in particolare. È una laurea in pedagogia, un riconoscimento alle sue qualità di didatta.
L’idea di città e La seduzione del luogo sono due fra i suoi titoli (editi in Italia da Adelphi ed Einaudi): entrambi propongono l’organismo urbano, dalla Roma antica alle metropoli contemporanee, siano esse Shanghai o New York, Kinshasa o Mumbai, come forma simbolica e non solo come aggregato edilizio, più o meno pianificato. «Per quanto volga in giro lo sguardo», aggiunge, «non scorgo politiche orientate a rendere la città più giusta. Soprattutto nel mondo occidentale».
Ci arriviamo. Intanto mi dica se la città esprime ancora valori simbolici, se rappresenta la visione del mondo di chi la abita?
«In un certo senso è così. Aggiungerei: deve essere così, deve esserlo sempre. Noi vediamo la città come un corpo, come un’entità civile. Questa verità rimane immutata».
Però qualcosa cambia. O no?
«È evidente. È cambiata con la rivoluzione industriale o con il trasporto pubblico non più a cavallo. Io ricordo ancora la Varsavia in cui sono nato: lo sterco dei cavalli per terra era un elemento fondamentale del paesaggio urbano. Poi sono arrivati l’ascensore e l’automobile...».
Ma ora è cambiato qualcosa di più sostanziale, la città ha perso il senso del limite, ha invaso il territorio, non è più distinguibile da esso.
«Non sappiamo come andrà a finire. Però anche in mezzo ai grattacieli di Manhattan o in una baraccopoli sudamericana ognuno ha in mente la pianta del luogo che abita. Non parlo solo di valori simbolici. Ma è presente in tutti una carta geografica del proprio habitat, degli spazi collettivi, dei nodi di scambio. Si riconosce una forma».
La tendenza di certa urbanistica e di certa architettura è di realizzare quartieri ed edifici che vadano bene in Asia come nel Nord America. Vince un linguaggio universale. Qui viene meno il valore simbolico?
«Un mio collega messicano ebbe l’incarico da un governo africano di realizzare un insediamento nella capitale. Ma il progetto fu respinto. Sa perché? Non aveva previsto una selva di grattacieli. Si era ispirato al contesto, ma loro volevano un pezzo di città come a Chicago».
I grattacieli, lei dice, sono il simbolo della potenza finanziaria e immobiliare. E aggiunge: fino agli anni Venti del Novecento erano costruiti lasciando vuoto il pianterreno perché fosse uno spazio pubblico, poi non più. Il grattacielo resta il veicolo di un’immagine?
«Senza dubbio. I grattacieli realizzati di recente a Londra hanno uno spazio aperto, una connessione con la città. Ma quanto effettivamente questi spazi siano pubblici è da vedere. Spesso sono luoghi che aggiungono prestigio al committente, ne offrono un profilo più benevolo».
Quanto è importante per una città garantire spazio pubblico, spazio di convivenza?
«È essenziale. Anche per ridurre le disuguaglianze. Bisogna stare però attenti ai camuffamenti: certo capitalismo finanziario ci tiene a far bella figura ».
Ridurre le disuguaglianze. Quali altri dispositivi possono realizzare l’architettura e l’urbanistica a questo scopo?
«L’architetto può fornire gli strumenti tecnici. Ma questo compito spetta alla politica. Negli Stati Uniti e in Europa non accade. Spesso è dominante un’architettura tendente all’oggetto vistoso. Osservando questi fenomeni matura il mio pessimismo».
Non ci sono eccezioni?
«Le esperienze da molti anni maturate in alcuni paesi del Sud America sono un’eccezione. È un’eccezione il caso di Curitiba, in Brasile, dove ha operato il sindaco-architetto Jaime Lerner, il quale ha progettato un sistema di trasporti che ha avvantaggiato le classi popolari. Lo stesso è accaduto in diverse città della Colombia. Ancora un’eccezione è il sindaco di San Paolo, che ha proibito di tappezzare con la pubblicità le facciate dei palazzi».
Sono esperienze di rilievo.
«Se si apre una breccia nel mio pessimismo è perché rivolgo l’attenzione ai tanti architetti, soprattutto giovani, che s’impegnano nelle periferie del mondo».
Mi fa qualche esempio?
«Si tratta di esperienze anche modeste, che però fronteggiano problemi elementari, il disagio abitativo, le drammatiche forme di disuguaglianza. In diverso modo si risponde a quei bisogni che erano al centro delle riflessioni già negli anni Venti del Novecento o, andando indietro nel tempo, erano presenti nel pensiero utopico».
Volge al declino la stagione delle archistar?
«Mi chiede un vaticinio. Il fatto è che la gran parte delle archistar non realizza architetture di qualità, ma oggetti per lo spettacolo visivo e per l’intrattenimento. E soprattutto non fa pezzi di città».
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