Alla fine della guerra di Otranto non ci saranno vincitori, se non la peste. Si cercherà di recuperare gloria almeno dai resti delle vittime, facendone dei ‘martiri della cristianità’, contro ogni evidenza e testimonianza. Su tutto, l’indifferenza del potere nei confronti degli umili, degli ultimi, degli inermi, costretti a pagare il prezzo delle altrui ambizioni.
martedì 17 maggio 2016
Otranto 1480: non c'è mai nessun conflitto ontologico tra le "civiltà" ma sempre e soltanto un contenzioso che è anzitutto materiale e geopolitico
Risvolto
Nel 1480 l’impero ottomano era in prepotente espansione verso l’Europa e
il Mediterraneo. Sulla sua traiettoria, l’Italia lacerata da congiure e
lotte intestine fra le più splendide signorie rinascimentali. In questa
storia c’è il sogno di un sultano affascinato dai fasti dell’antichità,
che intende riunificare l’impero romano. Ci sono gli interessi della
Repubblica di Venezia. Lorenzo il Magnifico, appena scampato alla
congiura dei Pazzi. Un ex gran visir caduto in disgrazia. Le mire di
dominio sulla Penisola del re di Napoli. Un pontefice che, mentre pensa
alla decorazione della Cappella Sistina, briga per favorire i propri
nipoti. Condottieri al servizio del miglior offerente, il coraggio dei
Cavalieri di Rodi. Un grandioso mosaico che profetizza l’avvento del
Male.
Alla fine della guerra di Otranto non ci saranno vincitori, se non la peste. Si cercherà di recuperare gloria almeno dai resti delle vittime, facendone dei ‘martiri della cristianità’, contro ogni evidenza e testimonianza. Su tutto, l’indifferenza del potere nei confronti degli umili, degli ultimi, degli inermi, costretti a pagare il prezzo delle altrui ambizioni.
Alla fine della guerra di Otranto non ci saranno vincitori, se non la peste. Si cercherà di recuperare gloria almeno dai resti delle vittime, facendone dei ‘martiri della cristianità’, contro ogni evidenza e testimonianza. Su tutto, l’indifferenza del potere nei confronti degli umili, degli ultimi, degli inermi, costretti a pagare il prezzo delle altrui ambizioni.
TROPPE OMBRE SU OTRANTO
Un libro di Vito Bianchi (Laterza) fa luce sul massacro di 800 prigionieri inermi canonizzati di recente come martiri della fede. In realtà gli ottomani li uccisero perché non si erano arresi subito, non perché rifiutarono di convertirsi all’Islam
Corriere della Sera 17 mag 2016 di Paolo Mieli
Il 14 agosto del 1480, a Otranto, gli uccisi dai turchi furono più di ottocento. Le loro ossa vennero recuperate l’anno seguente allorché la città pugliese fu riconquistata dagli aragonesi e conservate, ben visibili, nella cattedrale. In tempi relativamente recenti quei «martiri» hanno ispirato uno splendido romanzo di Maria Corti, L’ora di tutti (Bompiani), e uno straordinario film di Carmelo Bene, Nostra Signora dei Turchi (1968). Il loro esempio fu evocato in tutte le occasioni di scontro tra europei e musulmani: dalla battaglia di Lepanto (1571) all’assedio di Vienna (1683). Nel 1539, papa Paolo III (Alessandro Farnese), insidiato a un tempo, in Europa, dai luterani e, nel Mediterraneo, dagli ottomani di Solimano il Magnifico, inizierà il processo canonico per attribuire ai «decollati di Otranto» lo status di santi e autorizzarne il culto. Si dovranno però attendere due secoli e mezzo prima che, nel 1771, papa Clemente XIV li dichiari beati. E altrettanto tempo a che nel 2013 papa Francesco li canonizzi definitivamente. Ma, già dal 1668, il pontefice Clemente IX aveva concesso l’indulgenza plenaria per i devoti che avessero reso un «cristiano omaggio ai corpi martirizzati» di Otranto. E in quello stesso 1771 la Sacra congregazione dei riti, su sollecitazione di Ferdinando IV di Borbone, li aveva proclamati «servi di Dio, confessori della fede e martiri gloriosi di Gesù Cristo».
Perché allora c’è voluto oltre mezzo millennio per dichiararli santi? Per il fatto che quando, nel 1539, iniziò il processo canonico, furono interrogati una decina di otrantini sopravvissuti e, come puntualizza Vito Bianchi in Otranto 1480. Il sultano, la strage, la conquista, di imminente pubblicazione per i tipi di Laterza, venne fuori che «l’ecatombe, per ammissione pressoché unanime, era stata determinata dal rifiuto della cittadinanza di arrendersi e non dalla rinuncia all’abiura». Quanto al resto della vicenda, al termine di un’accurata indagine storica ci troviamo in presenza di quella che Bianchi definisce «una vittoria abortita, una ben misera storia di errori, sotterfugi, umiliazioni e pestilenza». Un tema, questo, già individuato dallo stesso Vito Bianchi assieme a Silvia Sanjuán Ledesma in Bari, la Puglia e l’Islam (Mario Adda editore), da Giancarlo Andenna in un saggio contenuto in Otranto nel Medioevo tra Bisanzio e l’Occidente (Congedo) e nel volume, curato da Hubert Houben, La conquista turca di Otranto tra storia e mito (Congedo).
Gli abitanti di Otranto furono vittima sì dei musulmani di Maometto II, soprannominato Fatih, il «conquistatore», dopo che nel 1453 si era impadronito di Costantinopoli. E dell’uomo, Gedik Ahmed Pascià detto «lo sdentato», che aveva guidato quell’esercito islamico dal porto albanese di Valona fino alla terra di Puglia. Ma gli otrantini non avevano nessuna intenzione di immolarsi per la fede e probabilmente il loro «martirio» va messo nel conto anche delle esitazioni di tutte le potenze italiche, veneziani e fiorentini in testa, che avrebbero dovuto andare a difenderli. Compreso il Papa. E se Otranto era poi tornata in mano agli aragonesi, lo si doveva non a una riconquista militare, bensì alla morte improvvisa del Fatih e alla guerra fratricida tra i suoi due figli, Bayezid e Cem, che li avrebbe distolti da ogni attenzione alla penisola italica.
Ma come si era giunti allo sbarco dei turchi sulla costa pugliese? Nei decenni precedenti, i pontefici si erano molto allarmati: negli appelli della Sede apostolica, nota Bianchi, «il sovrano turco era diventato prefigurazione dell’Anticristo, l’apocalittico dragone rosso che andava debellato con la forza della fede, del denaro e degli anatemi». Già a metà del Quattrocento erano state promesse indulgenze a chi, contro i turchi, si fosse «arruolato nel nome di Cristo». Erano state altresì reclamate le decime dai cristiani, minacciate scomuniche per coloro che avessero in qualunque maniera favorito gli «infedeli». Niccolò V (Papa dal 1447 al 1455) aveva nominato una commissione cardinalizia per discutere le modalità con cui fronteggiare il «mostro ottomano» e il 30 settembre 1453, a quattro mesi dalla presa di Costantinopoli, aveva emanato la bolla di crociata Etsi Ecclesia Christi;»: Callisto III (1455-1458) — allarmato per le avanzate musulmane in Ungheria, Albania ed Egeo — aveva investito enormi quantità di denaro nella costruzione di una flotta papale, la quale aveva conseguito un’importante vittoria contro le navi turche al largo di Lesbo (1457).
Il senese Enea Silvio Piccolomini, ancor prima di diventare Papa con il nome di Pio II (14581464), proprio in relazione a tali accadimenti fu il primo a definire il concetto di «patria europea «Nel passato», scrisse, «siamo stati feriti in Asia e in Africa, cioè in Paesi stranieri. Ma, ora, siamo colpiti in Europa, nella nostra patria, nella nostra casa. Si obietterà che già un tempo i Turchi passarono dall’Asia in Grecia. I Mongoli stessi si stabilirono in Europa e i Saraceni occuparono una parte della Spagna dopo aver superato lo stretto di Gibilterra. Mai avevamo perduto però una città o un luogo paragonabile a Costantinopoli».
Per la prima volta, scrive Bianchi, il «neutro contenitore» europeo si era riempito di «un contenuto culturalmente qualificante e omogeneo». Ed «europei» erano stati espressamente considerati «tutti coloro che potevano raccogliersi sotto il nome cristiano». Una novità importante, se si pensa che ancora un secolo e mezzo prima Dante Alighieri nel De Monarchia aveva saputo benissimo definire gli asiatici e gli africani, ma aveva avuto qualche problema a identificare «quelli che abitano l’Europa». Adesso, nel Quattrocento, il riconoscimento di un’identità euro-cristiana «nasceva dal ridimensionamento delle aspirazioni universalistiche della Sede apostolica».
Il processo di «europeizzazione» della Chiesa romana derivava sostanzialmente «dal fallimento del progetto di ecumenismo coltivato dal papato e dalla consapevolezza che la dottrina di Cristo fosse ormai relegata ai margini dei territori asiatici e africani». L’espansione ottomana aveva ridotto gli spazi d’azione del cattolicesimo e «se nel Quattrocento poté elaborarsi una sincronia fra i concetti di Europa e di cristianità, il merito fu dell’avanzata turca, di quel nemico che aveva permesso di consolidare o dissotterrare radici comuni, di riferirsi o appigliarsi a percorsi identitari nascosti». Ma le divergenze e le rivalità — sia tra gli «europei» che, prima ancora, tra gli «italici» — erano talmente tante che non ne risultò affatto una qualche forma primordiale di unità del continente.
Tanto
più che a divergenze e rivalità si aggiunse l’insopprimibile istinto a
«flirtare» tatticamente con Maometto II. Persino da parte di qualche
pontefice (non certo Pio II che nel 1464 si mise addirittura alla guida
di una spedizione armata contro i turchi che avrebbe dovuto muoversi dal
porto di Ancona, se il Papa non fosse morto proprio alla vigilia della
partenza). Nel 1470, poi, la caduta di Negroponte in mano turca fu uno
shock.
Trascorsero dieci anni e i
maomettani sbarcarono a Otranto. Adesso era papa Sisto IV (1471-1484),
in rapporti assai tesi con Lorenzo il Magnifico che a sua volta aveva
relazioni conflittuali con lo Stato senese, con Ferrante d’Aragona
regnante sul Mezzogiorno e con il duca di Urbino Federico da
Montefeltro. I quali, per di più, avevano tra loro legami inficiati da
reciproci sospetti. Maometto II si era infilato in queste rivalità
offrendo un aiuto a Firenze (nel mentre dispiegava una politica di buone
relazioni con Venezia). Fu quasi una fortuna che, come scrisse Niccolò
Machiavelli, «Iddio fece nascere un accidente insperato, il quale dette
al re ed al Papa ed ai Veneziani maggiori pensieri che quelli di
Toscana». Fortuna altresì che, proprio alla viglia dello sbarco di
Otranto, Ferrante d’Aragona si fosse rappacificato (a dispetto di papa
Sisto IV) con Lorenzo il Magnifico. Altrimenti, quando i
turchi espugnarono la cittadella pugliese, un qualche intervento
«straniero» in soccorso del re d’Aragona sarebbe stato addirittura
impensabile. E invece fu possibile, anche se poco determinante agli
effetti del respingimento dei turchi. I quali turchi sbarcarono a
migliaia nell’estate del 1480 sulla costa pugliese, sotto la guida dello
«sdentato».
Chiesero alla città di
arrendersi, prospettando condizioni per l’epoca più che dignitose, ma
ottennero come risposta un colpo di bombarda. Al che i musulmani
reagirono con una carneficina tra le più crudeli. E non fecero nulla per
nasconderla. Anzi: «l’enfasi sull’ecatombe» rispose, secondo Bianchi, a
una «precisa strategia di deterrenza terroristica diretta a inibire
psicologicamente le popolazioni delle località da aggredire nelle
settimane seguenti».
A Napoli Ferrante
d’Aragona pensò che fosse l’inizio della fine e richiamò il figlio
Alfonso accampato nel Senese. A Roma — terrorizzata — si prese in
considerazione un nuovo trasferimento del Papa ad Avignone. Stavolta i
turchi sembravano avercela fatta e facevano arrivare da Valona la calce
per fortificare le murature in vista di una controffensiva aragonese.
Che non fu tale da consentire la riconquista di Otranto, Le ossa dei
martiri di Otranto, recuperate dopo la riconquista della città da parte
delle forze napoletane nel 1481, sono conservate nella stessa Otranto in
una cappella della cattedrale di Santa Maria Annunziata (foto Laurent
Massoptier). I martiri sono stati canonizzati nel 2013
ma
diede a Lecce la forza per respingere l’assalto turco (le teste mozzate
degli uomini del sultano, conficcate sulle lance, furono esposte tra
canti e balli per le vie della città).
Qui
Bianchi segnala un atteggiamento del Pontefice che, dopo lo spavento
iniziale, divenne «profondamente equivoco». A Roma si diffondevano voci
che minimizzavano la minaccia turca e i quattromila soldati promessi da
Sisto IV a Ferrante non arrivarono mai (ma forse fu il re aragonese a
preferire un sostegno consistente in ottomila ducati). In ogni caso fu
evidente, scrive lo storico, che «da un lato il Papa predicava l’intesa
universale e la sospensione di ogni contrasto in atto o in potenza;
dall’altro persisteva nel risentimento personale e manteneva saldo il
proposito di umiliare Lorenzo de’ Medici e magari anche di eliminarlo
dallo scenario toscano».
Fu così evidente
che gli intrighi centro italici ebbero la prevalenza sull’«emergenza
otrantina»: «la diffidenza fra signorie soverchiava inesorabilmente
l’unità cristiana». Gedik Ahmed Pascià comprese che un’autentica
controffensiva, ancorché fossero giunti in loco soldati inviati da Sisto
IV, non ci sarebbe mai stata e propose a Maometto II un ambizioso piano
che prevedeva uno sbarco a Napoli, in Sicilia e in Sardegna per poi
espugnare l’intera penisola. Compresa Roma. Ma il «conquistatore»,
impensierito dalla nascente rivalità con il figlio Bayezid, esitò. E lo
«sdentato», capita l’antifona, nel febbraio 1481 decise di tornare a
presidiare la sua postazione di Valona. Con una giusta intuizione, dal
momento che di lì a breve il sultano sarebbe passato a miglior vita e
Ahmed Pascià avrebbe avuto, a fianco di Bayezid, un ruolo nella guerra
di successione. Che però non gli risparmierà d’essere sospettato di
complotto e non lo salverà dall’essere giustiziato.
A
Otranto nel frattempo gli aragonesi erano riusciti ad aver ragione dei
turchi grazie a una sorta di guerra batteriologica. La peste giocò un
ruolo di primo piano allorché i napoletani presero a catapultare sugli
islamici assediati carcasse di animali imputriditi, cadaveri infetti,
escrementi umani. Nel giugno del 1481 furono introdotte in città quattro
bellissime prostitute con «vestiti infetti di peste». E il morbo
(assieme al mancato ritorno di Ahmed Pascià e alla notizia della morte
del sultano) convinse i turchi a mollare la presa. Il re di Napoli
avrebbe voluto inseguire i nemici in Albania, ma la milizia papale
capitanata dal cardinal Campofregoso rifiutò di imbarcarsi.
Ferrante
cercò ugualmente di trarre un qualche profitto politico dalla
«vittoria»: già nelle feste di carnevale del 1482 la corte partenopea
avrebbe messo in scena, a propria gloria, il «riscatto di Otranto» e il
«sacrificio dei decollati». Nel Settecento, Ferdinando IV di Borbone
valorizzerà le reliquie otrantine e accorderà alle spoglie il patrocinio
regio. La Chiesa riscoprirà quei martiri nei tempi di cui si è detto
all’inizio. Anche i laici Francesco Crispi e Giovanni Giolitti, nell’ora
delle imprese coloniali italiane, si rifaranno a quel «luminoso
precedente» storico. Un precedente di cui però, nel libro di Bianchi, si
intravedono, assieme alle luci, le molteplici ombre.
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