martedì 21 giugno 2016

Citati su "La fiera della vanità" di Thackeray

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I non-eroi di Thackeray

Nel 1846 l’autore cominciava a scrivere «La Fiera della Vanità», strepitoso ritratto della società inglese in cui i protagonisti sono comici, infimi, contraddittori. Come nella commedia umana

Corriere della Sera  20 giu 2016 di Pietro Citati
La Fiera della Vanità, il grande romanzo che William M. Thackeray scrisse tra la fine del 1846 e il luglio 1848, ha un inizio meraviglioso. «È tutto un gran mangiare e bere, far la corte e separarsi, ridere e il suo contrario: tutto un gran fumare, frodare, litigare, ballare e strimpellare; ci sono smargiassi che avanzano a spintoni, zerbinotti che fanno l’occhiolino alle donne, ladruncoli che vuotano le tasche, poliziotti in vigilanza, imbonitori». Thackeray ci dice che il suo romanzo è una possibilità tra molte possibilità: avrebbe potuto scrivere in molti modi diversi: nobile, sentimentale, romantico, romanzesco; ma il lettore lo ha pagato per «assistere a una commedia», e lui ha scritto una Commedia. «Noi non siamo la Musa della storia, ma la domestica di Madame: la sua reggistrascico, il suo cameriere, per il quale nessuno è un eroe». La Commedia è misteriosissima; e se a tratti ama la pura buffoneria, a volte gronda di lacrime — quelle lacrime che le donne amano tanto e di cui lui si prende gioco. La Commedia è il Tutto: l’ineffabile totalità; la ripetizione, gli stessi discorsi, le stesse stoviglie d’argento, lo stesso filetto di bue e lo stesso bollito e gli stessi antipasti.
Il libro di Thackeray comincia «in una splendida mattina di giugno», agli albori del diciannovesimo secolo. Sono gli anni di Napoleone. Mentre Amelia Sedley si innamora di George Osborne, Napoleone lascia l’isola d’Elba, sbarca a Cannes, Luigi XVIII abbandona Parigi, tutta l’Europa si allarma, i titoli di Stato crollano e il povero John Sedley è rovinato. Come nella Certosa di Parma, assistiamo alla battaglia di Waterloo: ma, mentre nel libro di Stendhal Fabrizio del Longo vorrebbe combattere, qui scorgiamo i tranquilli campi fioriti del Belgio, ravvivati da una moltitudine di giacche rosse: Bruxelles è piena di inglesi che sono venuti a guardare uno spettacolo; ballano, danzano, banchettano, vanno a teatro, dove canta la meravigliosa Catalani. Le bande dei reggimenti suonano lietamente: i domestici delle famiglie inglesi, tutti partigiani di Napoleone, sono certissimi della sconfitta inglese: da lontano viene il suono cupo della battaglia: le donne pregano ad alta voce: sui campi qualcuno, quasi a caso, muore: la Guardia Imperiale fugge verso Parigi; i venditori ambulanti vendono spalline e impugnature di sciabole. I personaggi della Fiera della Vanità passano uno splendido inverno a Parigi: i cosacchi, gli spagnoli e gli inglesi, molti invalidi e scampati alla morte, gremiscono i salotti, cavalcano al Bois de Boulogne, e giocano a carte perdendo fortune.
Thackeray ama enumerare i moltissimi personaggi possibili della Fiera della Vanità: Mr Mango e Lady Mary Mango: il colonnello Bludyer dei Dragoni della Guardia, erede della banca Fratelli Bludyer di Mincing Lane: l’onorevole Mrs Bludyer: l’onorevole George Boulter, figlio di Lord Levant: il visconte di Castletoddy; l’onorevole James M’Mull e la consorte Mrs M’Mull, già Miss Swartz, oltre a un esercito di gente dell’alta società, spesso imparentata con i banchieri di Lombard Street e i droghieri della City. Molti di essi sono aristocratici: ma hanno le brache corte, vecchie giacche sudicie, luridi fazzoletti legati attorno al collo peloso. Si agitano, si ubriacano, picchiano le mogli: vanno a tavola col colletto bianco: ma non conoscono l’ortografia, non leggono mai un libro; ed offrono a Thackeray molto più divertimento dei noiosi borghesi.
La Fiera della Vanità proclama di essere «un romanzo senza eroe». Non è vero: tutti i personaggi potrebbero avere la qualifica di eroe, sia pure comico ed infimo. In primo luogo, Becky Sharp. Il padre era un pittore pigro ed intelligente, con una grande inclinazione a contrarre debiti e un amore eccessivo per le bettole: la madre, una ballerina francese. Becky è piccola e minuta, pallida, con capelli castano-chiari e occhi verdi grandi e scintillanti. A volte è graziosissima: indossa un fresco vestito bianco, ha le spalle nude, una collana, e una fascia azzurra alla vita — vera immagine della innocenza giovanile. A volte è un mostro di egoismo: il male incarnato.
Thackeray odia ed ama Becky Sharp. La ama sopratutto quando fa il verso, recita, deride, schernisce, racconta mirabilmente, mima: mima tutte le persone e tutte le cose; allora abbiamo l’impressione che Thackeray sia sul punto di affidarle la narrazione del grande romanzo, trasformandola in scrittrice. Egli vorrebbe che il suo libro fosse sopratutto una conversazione: un libero, fluido, spiritoso corso di parole che ammirano se stesse e riflettono se stesse. Ma di rado i personaggi sono all’altezza del desiderio di Thackeray: solo Becky sa parlare mirabilmente, sia in inglese sia in francese, affascinando i personaggi e i lettori.
Alla fine del romanzo, Becky Sharp crolla. Trascura la propria persona: non si cura della propria reputazione; abbandona il figlio avuto da un marito casuale. Abita in una pensione di Firenze, dove gli uomini le ridono in faccia, e non si tolgono nemmeno il cappello davanti a lei. Ma cerca di tenere la testa alta. Va regolarmente in chiesa, dove canta più forte degli altri fedeli; e si interessa alla causa delle vedove dei marinai morti in naufragio. Qualcuno racconta di averla incontrata a Pietroburgo, da dove è stata cacciata dalla polizia. Vive all’albergo Elefante: ama il movimento, il frastuono, il vino, il fumo, il brusio dei venditori ambulanti, le maniere spavalde dei saltimbanchi, il discorrere sournois dei giocatori di professione. Poi passa il suo tempo tra Bath e Cheltenham, dove un folto gruppo di signore rispettabilissime la ritiene la più calunniata di tutte le donne. Il suo nome figura in tutti i comitati di opere pie. La Misera Venditrice d’Arance, la Lavandaia abbandonata, il Negletto Venditore di Ciambelle trovano in lei la protettrice più generosa.
Mentre La Fiera della Vanità si avvia verso la fine, il racconto diventa sempre più multiforme. William Dobbin avanza in primo piano: assomiglia moltissimo a un personaggio di Dickens, che certo lo invidiò a Thackeray: è altissimo, dinoccolato: ha enormi piedi, enormi mani, enormi orecchie; legge le Mille e una notte, che occupano il fondo fantastico del libro. Dobbin si innamora di Amelia Sedley: protegge il suo amore per George Osborne, paga i loro conti, compra scatole di colori e libri illustrati per il figlio. Il suo amore rimane fresco e lieto come quelli della giovinezza: ottiene il permesso da Amelia di struggersi per lei di desiderio amoroso, «come il povero scolaro senza un soldo in tasca può sospirare davanti al vassoio della venditrice di ciambelle». Finalmente, dopo diciotto anni di attesa, ottiene il premio che per tutta la vita ha cercato di meritare: eccola lì, Amelia, con il capo sulle sue spalle, mentre tuba vicino al cuore di William Dobbin, con «le soffici aluzze spiegate».
Ecco Londra: New Gaunt Street, Gaunt Mews. Ecco l’Inghilterra: il castello di Stronglow, con i suoi boschi sulla spiaggia di Shannon: il castello di Gaunt nel Carmarthenshire, dove Riccardo II fu preso prigioniero; il castello di Gaunty, nello Yorkshire, dove ci sono duecento teiere d’argento per la colazione degli ospiti. Come è bello il «caro paesaggio inglese!», dice Thackeray. Al viaggiatore che torna in patria da lontano — come al lettore che sta per chiudere La Fiera della Vanità — «sembra così amico che quasi lo vede tendergli la mano e stringere la sua».

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