giovedì 30 giugno 2016

Desiderio individuale assoluto come unica legge: dopo il cristianesimo, la sinistra postmoderna destruttura anche l'Islam

Tahar Ben Jelloun: Il Matrimonio di piacere, La nave di Teseo

Risvolto1

Amir è un commerciante di Fès. È ricco, sposato con Lalla e ha 3 figli. Siamo negli anni 50. È felice, o meglio: tranquillo. Il suo matrimonio non è fatto di amore, di passione, ma di rispetto. Non si è mai posto il problema dei sentimenti, ma è affezionato a Lalla e la rispetta. Amir è un buon musulmano e quindi non tradisce Lalla. Tuttavia, poiché il lavoro lo tiene lontano da casa per mesi, quando è fuori (anziché andare a prostitute) stipula un contratto di “matrimonio di piacere” – previsto dall’Islam: per 1 mese, 2 mesi o quel che serve, si lega a un’altra donna, temporaneamente. La donna con cui stila questo contratto di matrimonio è Nabou, una senegalese statuaria e bellissima, con cui Amir inizia una relazione fatta all’inizio di solo sesso. Amir vive con lei una passione che con la moglie Lalla non ha mai avuto e che lo fa interrogare sul suo matrimonio. Poco a poco, tornando per diversi anni da Nabou, Amir si lega sempre più a lei, fino a che decide (una volta che compie il viaggio con uno dei suoi figli, Karim, handicappato ma non sciocco) di portarla a Fès: vuole darle lo statuto pieno di moglie, garantirle i diritti e il rispetto che merita. Ma a Fès la convivenza fra le due donne non è facile: oltre alla inevitabile competizione amorosa, Nabou subisce il peggiore razzismo, i marocchini di Fès si sentono bianchi, e superiori, rispetto ai negri dell’Africa profonda.
Il “matrimonio di piacere”, per non offendere la tua religione L'ultimo romanzo di Tahar Ben Jelloun racconta un’interessante possibilità per gli uomini musulmani già sposati ma bisognosi di svago 
di Annalena Benini Foglio | 15 Maggio 201

L’Islam che segue l’anarchia del desiderioPERCORSI. Quando Ben Jelloun è una suggestione per raccontare la tessitura dell’erotismo. Al di là delle categorie di puro e impuro, la quotidianità e i testi letterari della tradizione sono ammantati di ardore
Laura Marchetti Manifesto 30.6.2016, 17:35 
L’ultimo, struggente, libro di Tar Ben Jelloun (Il matrimonio di piacere, La Nave di Teseo) fa riemergere un’immagine sopita del cosiddetto Oriente, la stessa che ci portiamo dentro dalla lettura delle Mille e una Notte, meraviglioso catalogo di avventure erotiche dove è assai più facile che un personaggio muoia come martire dell’amore piuttosto che in un attentato suicida. È un’immagine che, con Said, si potrebbe dire ammalata di «orientalismo», frutto cioè della percezione europea dell’Oriente, di una «visione dell’Oriente senza l’originale», scaturita da un bisogno, che è il contraltare coloniale, di inseguire il proprio rimosso proiettandolo in un mondo esotico più libero, più permissivo e sensuale. 
Passeggiando per le strade di Marrakech, inseguendo le voci che ancora si affollano nelle taverne del sottoproletariato di Damasco o nei caffè dei ricchi sfaccendati del Cairo, fra i quassas e meddah dei libri di Mafhuz e di Canetti, si può però pensare che questa immagine sia reale. Qui si ascoltano ancora storie arabe di truffe e di crimini, di una comicità da trivio, di un erotismo esplicito e disinvolto, ma anche storie d’amore delicato e intenso, cariche di magia, di dolce trasognamento, di speranze tradite e possibilità di destino, frutto di una coscienza più tollerante, pluralista ed ottimista, portatrice di un Islam assai diverso dall’Islam cupo delle cronache quotidiane con i suoi lugubri riti di morte. 
Protagoniste assai spesso sono le donne, per quella capacità negativa tutta femminile di provocare fitna, un caos di natura sessuale misto alla sedizione e all’anarchia. Donne che l’arabo maschio che si crede teneramente amato e invece viene ingannato e umiliato, non esita a uccidere o a imprigionare, per vendicare l’onore (a-charaf), per assicurare la purezza del nasab, il principio di discendenza per via patrilineare e agnatica che è il fulcro di quella società patriarcale, e anche per esorcizzare la paura di non essere sessualmente adeguato, come ipotizza Benslama (La psychanalise à l’epreuve de l’Islam). 
Donne che però anche quando sono confinate, sono maestre d’amore, come un tempo lo fu la giovane Sharazàd, la «liberatrice», l’eroina che, in una precoce primavera pre-musulmana, salvò tutto il suo popolo usando l’arte del Samar (la capacità di narrare) per combattere la morte e un potere fondato sul terrore. Lei, giovanissima, non aveva passato il tempo nelle discoteche ma nelle biblioteche, studiando i classici della letteratura araba, persiana, indiana, oltre alle mille e mille storie popolari; aveva lì imparato, ricordandolo all’assassino-sposo, che la civiltà araba di cui era Sultano, era stata forgiata non nella violenza ma nella sapienza d’amore. Lo aveva scritto, del resto, nel XIII secolo, anche il grande filosofo Ibn’ Arabi (L’interprete degli ardenti desideri), e lo aveva ribadito, un secolo dopo, il grande poeta Ibn Qayyim Al Zawjiya ne Il giardino degli amanti, un classico della letteratura in cui si declinano più di sessanta modi della lingua araba per dire ti amo. 
Forte più della morte, inseparabile dall’erotismo – ovvero dal sesso immaginato, aspettato, differito, raccontato, oltre che agito tramite l’arte di eccitare pianificando il maglis, il piacere – l’amore rimane importante anche nella civiltà musulmana, venerato dalla religione. Come sostiene Abdelwahab Bouhdiba (La sessualità nell’Islam), l’erotismo arabo viene rafforzato dallo stesso Corano che ritiene la sessualità umana una «dotazione» originaria data all’uomo dal Dio, nonché uno dei segni attraverso cui si riconosce la potenza divina di creazione e di rigenerazione. Grazie all’amore l’uomo è estasiato (intilaq) e si mette sulla stessa lunghezza d’onda del cosmo, ristabilendo l’armonia. 
L’amore abita perciò da protagonista il Paradiso (Janna): luogo assai diverso dall’asessuato Paradiso cristiano, luogo di piacere sessuale infinito, dove ogni credente maschio potrà avere per sé esseri femminili bellissimi dal profumo di zenzero che lo ricompenseranno con una esperienza di orgasmo infinito e prolungato; e dove verrà ricostituita ogni comunità matrimoniale dell’amante e dell’amato in quanto anche le coppie formatesi sulla terra si ritroveranno e, giovani e abbellite, faranno l’amore come sulla terra, ma con ogni piacere centuplicato. Nessuno dovrà sopportare il celibato che regna nell’Inferno (Ghenna), che è solitudine, non-presenza nei confronti del prossimo, mancanza di sesso, di sensi, vuoto d’amore. 
Perciò il Paradiso arabo vive e risplende nel quotidiano, come una specie di «banca dati» dell’immaginario, fornendo fondamento teologico al rinnovamento del desiderio e alla creatività. Se il bacio, il profumo, le frasi sussurate, i giochi preliminari (mula’aha) sono fortemente raccomandati dal Profeta, se Egli più volte ha ribadito che è un bene «assaggiare il miele dell’altro», vuol dire che l’amore fisico deve essere praticato e che bisogna legarlo non solo alla procreazione, ma alla fantasia, all’avventura, alla libertà, a una conoscenza e spiritualità estetica raffinata. 
Erotiche sono dunque le visite settimanali all’hammam, preannuncio del godimento. Erotica è la cucina araba. Erotici sono i vestiti, le tuniche e i veli, e, soprattutto, erotica è la voce, perché non è concepibile un amplesso silenzioso e furtivo: l’amore non può essere silenzioso in quanto è la voce che veicola la tenerezza (reqqa) ed esprime sentimenti reciproci, facendo in modo che il desiderio possa essere condiviso e l’altro possa essere ospitato.

Vino e amori efebici Così la poesia araba lodava il peccato 
La libanese Hanan Al-Shaykh al festival di Capri “Elogio del grande Abu Nuwas, oggi in disgrazia” 
Hanan Al-shaykh Busiarda 1 7 2016
La prima volta che ho sentito pronunciare ad alta voce la parola che in arabo significa diversità è stato durante una discussione su Abu Nuwas, un poeta arabo dell’ottavo secolo proveniente dalla Persia, che alcuni consideravano un genio, altri una minaccia. Per gli adolescenti come me era un autore piuttosto divertente.
Nel nostro palazzo di Beirut avevamo un vicino a cui piaceva bere arak, un liquore molto forte ricavato dall’uva e aromatizzato con l’anice. Come l’ouzo e il Pernod, mescolato con l’acqua l’arak diventa bianco latte. Quindi con la moglie e i figli il nostro vicino fingeva di bere un tipo particolare di latte. Noi chiamavamo questo tipo Abu Nuwas, per via di un aneddoto riguardante il poeta e il suo mecenate, il califfo Haroun al Rashid.
Il latte rosso
Una sera il califfo vide Abu Nuwas che beveva del vino rosso e lo rimproverò. «Ma, comandante dei fedeli», rispose il poeta, «quello che mi vedete bere è solo latte, che è arrossito in presenza di sua maestà!»
Abu Nuwas nacque col nome di al-Hassan bin Hani nel 756 ad Ahwaz, in Persia, da madre persiana e padre arabo. Il padre morì poco dopo la sua nascita e la madre si risposò a Bassora, in Iraq, e mandò il figlio adolescente a una scuola coranica, dove il ragazzo imparò a recitare il Corano e gli hadith (detti e atti del profeta Maometto e dei suoi compagni), mandando tutto a memoria.
Abu Nuwas rimase incantato dalla lingua del Corano e si mise a scrivere poesie. Il suo maestro Waliba ibn al-Hubab gli consigliò di leggere e memorizzare mille poesie antiche e poi dimenticarle. Solo allora avrebbe dovuto cimentarsi a scriverne di sue. Abu Nuwas seguì fedelmente il consiglio del maestro. Quando arrivò a recitare le proprie poesie, la gente comune e i poeti famosi rimasero affascinati dal giovane esordiente. Aveva assimilato la tradizione poetica preislamica ma i suoi versi erano originali, fantasiosi e innovativi.
I ragazzi
Se da ragazzina amavo Abu Nuwas era per la sua aura e il suo nome, Abu Nuwas, l’uomo con due boccoli d’oro che gli scendevano da sotto il turbante fino alle spalle. Per la sua fissazione per il vino, i ragazzi e le ghulamiyat (ancelle che la regina Zubayda, madre del califfo al-Amin, obbligava a vestirsi da maschi prima di presentarle a corte, con l’intento di persuadere il figlio, attratto solo dai ragazzi, a innamorarsi delle loro forme snelle, dei lunghi riccioli e del fisico androgino).
Quando infine lessi gran parte delle sue poesie e delle sue altre opere mentre adattavo dei racconti delle Mille e una notte, restai stregata e incantata, non tanto dalla sua vita anticonvenzionale quanto dal suo umorismo e dal suo genio. Scriveva del deserto e della città, di Baghdad, di cose antiche e di cose nuove. Metteva in discussione col suo solito cinismo i valori sociali più rigidi e coraggiosamente riusciva a separare la poesia dalla religione e dalla moralità. Ruppe con la tradizione della malinconia e della tragedia e con l’insistenza, tipica della poesia araba, sul fatto che l’illuminazione sia raggiungibile solo tramite la sofferenza. Abu Nuwas era invece convinto che la salvezza, sua e di chiunque, si potesse raggiungere attraverso il piacere.
Mai mostrò di credere al peccato o di temere una punizione per la franchezza con cui si esprimeva, nelle poesie e in generale, anche se fu imprigionato da due califfi uno dopo l’altro. Uno di questi, però, Haroun al-Rashid, amava la compagnia del poeta, specie di notte, quando giravano insieme per la città in compagnia del visir del califfo, Jaafar al-Barmaki, in modo che il califfo potesse osservare coi propri occhi la prosperità dei suoi sudditi e ascoltare le lamentele di chi subiva trattamenti ingiusti.
La ribellione
Il poeta e critico letterario siriano Adonis ha scritto di Abu Nuwas: «È il poeta del peccato, perché è il poeta della libertà, come se il peccato fosse una necessità esistenziale, un simbolo di libertà, ribellione e salvezza. Quando i cancelli della libertà si chiudono, il peccato diventa qualcosa di sacro. Abu Nuwas rifiuta di sentirsi appagato a meno di non praticare e gustare ciò che è proibito. Il peccato gli offre il benessere che lui glorifica».
Le poesie che scrisse sui ragazzi erano ispirate alla sua epoca, quando i poeti cantavano le lodi dei giovani imberbi. Alcuni erano studenti di religione, musulmani, zoroastriani o cristiani. Erano vagabondi, portantini, massaggiatori, e perfino lo stesso califfo al-Amin, che secondo alcuni critici è un personaggio di questa poesia:
«Sono innamorato ma non posso dire di chi
Ho paura di lui che non ha paura di nessuno
Quando penso al mio amore per lui
Mi tocco la testa e mi chiedo se sia ancora attaccata».
La mancanza di inibizione è strabiliante, e deve aver aiutato Abu Nuwas a creare le sue poesie erotiche, indecenti, equivoche:
«Sedevo di fronte a un ragazzo sottile come una spada
Con il miraggio del desiderio che gli scintillava sulla guancia
E ho formato tutto da solo una schiera in preghiera [...]
Ora, se non trovo una scusa per questo il giorno del Giudizio
Dovrei essere già in lutto per lo spirito e il carisma».
I sensi
A parte i versi sull’amore maschile, nella sua poesia Abu Nuwas celebrava l’amore per il vino, bevanda che esisteva da prima dell’Islam e fu di uso comune specialmente in seguito, sotto gli abbasidi, nella cosiddetta epoca d’oro del rinascimento arabo e musulmano. Il Corano lo bandiva ma la gente lo consumava, in particolare i califfi, gli altri governanti e le loro corti.
«Mia madre ora è nella vite», confessava il poeta. «Il vino è la medicina per la seduzione».
Una delle sue poesie più famose nel corso della storia ha raggiunto uno status quasi proverbiale e ha trovato posto perfino nella lingua degli analfabeti, specie i primi versi:
«Non sgridarmi, perché mi tenta ancora di più
Cura me piuttosto che la causa del mio male
Un pallido [vino] la cui casa non è visitata dai dolori
Che infonde gioia perfino al sasso che lo tocca;
E poche righe dopo:
Non rimproverarmi per il vino, amico mio,
Non disprezzarmi imbronciato se bevo
Dio misericordioso ha decretato che dovessi amarla
E ancora:
[Quindi] bevi il vino, anche se proibito,
Perché Dio perdona anche i gravi peccati.
Un vino bianco che mescolato forma bollicine – perle nell’oro;
Era sull’Arca ai tempi di Noè –
Il più nobile dei carichi quando la Terra venne allagata...».
Abu Nuwas era un poderoso rappresentante della diversità, ma in Egitto le sue magnifiche poesie sono state messe al rogo, non ai suoi tempi ma nel nostro secolo, perché i suoi elogi del vino e dell’amore maschile hanno fatto infuriare le autorità religiose. Ha ampliato il campo della poesia araba, ma mi chiedo se la diversità della sua opera sia nota e ammirata in tutta la sua estensione quanto le poesie sul vino e sull’amore erotico. Ci sono, ad esempio, le poesie sulla caccia e quelle sul polo, le tigri, i cavalli, i cani, e altre ancora sull’amore platonico, gli angeli, i demoni, e ancora gli elogi funebri e le elegie. 
La sdegnosa
Abu Nuwas si innamorò di una donna di nome Janan, ma il suo amore non era corrisposto. Una volta che lei lo prese a male parole, lui rispose: «Insultami quanto ti pare. Non chiedo altro che di sentir uscire il mio nome dalle tue labbra».
Abu Nuwas apre una porta su un passato che non è quello che potremmo aspettarci: un passato che contiene una sorprendente scelta di temi e riflette la diversità di questo autore.
(Traduzione di Martina Testa)
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