martedì 28 giugno 2016
Il populismo di sinistra è la sinistra nazionale-popolare che non c'è
Perché è necessario un populismo di sinistra
La
sinistra è subalterna al liberismo. Quasi dappertutto la bandiera della
rivolta è brandita dalle destre. Bisogna parlare alle masse e opporsi
alle politiche delle élite
Gianpasquale Santomassimo il manifesto 28.6.16
Quando
una grande Utopia mostra le prime crepe profonde, quando sembra
avvicinarsi il suo crollo, quando le sue promesse sembrano ormai
evaporate lasciando presagire solo un futuro di miseria e di rancori, è
comprensibile che chi aveva creduto in essa tenda a negare la realtà.
Come è ricorrente il richiamo alle idee originarie, fondative, che
riesumate e attualizzate potrebbero invertire la tendenza. Solo a
distanza di tempo e a mente fredda potrà maturare la necessaria
riflessione sull’essenza stessa di quella idea iniziale, su quanto in
essa accanto a nobili visioni fossero presenti anche un eccesso di
semplificazione, un difetto di analisi realistiche, e un tasso
preoccupante di generoso pressappochismo.
E’ accaduto per altre
grandi Utopie novecentesche, sta accadendo ora per l’ideale
europeistico, che è stato il più grande investimento delle classi
dirigenti del continente in un arco ormai lunghissimo di anni. Era stato
fin dall’inizio un matrimonio di interessi, ma si volle che sbocciasse
anche l’amore tra i sudditi, e si organizzò la più massiccia opera di
indottrinamento mai perseguita dalle élites, dalla culla alla bara, come
si conviene a ogni idea totalitaria: dai mielosi temi per gli alunni
delle elementari al martellamento quotidiano di politici, giornalisti,
mezzi di comunicazione di massa.
Nell’arco della sua storia
l’ideale europeistico ha conseguito risultati importantissimi, che non
andranno lasciati cadere nel progressivo disfacimento dell’Unione: si
pensi solo all’armonizzazione dei principi giuridici, all’abolizione
della pena di morte che continua imperterrita a restare in vigore in
molti Stati degli Usa; si pensi alle grandi conquiste sul terreno dei
diritti civili e individuali, che hanno rappresentato del resto la
frontiera pressoché unica della sinistra occidentale.
Ma da
Maastricht in poi il potere delle élites europee ha proceduto con
spietata determinazione a smantellare le fondamenta dello Stato Sociale
europeo, vale a dire la creazione più alta che i popoli europei avevano
conseguito nella seconda metà del Novecento, distruggendo quindi quello
che era ormai l’elemento caratterizzante della stessa civiltà europea.
Gruppi di potere che non sarebbero mai stati in grado di conquistare
egemonia per via democratica hanno usato spregiudicatamente il «vincolo
esterno» per conseguire quei risultati che i rapporti di forza in
passato negavano. Il caso italiano è esemplare da questo punto di vista.
L’acquiescenza
della sinistra a questo disegno, la sua rinuncia ad opporsi, e in molti
casi la sua partecipazione attiva al processo di «normalizzazione»
liberista, ha fatto sì che la bandiera della rivolta contro
l’establishment sia stata quasi dappertutto brandita dalle destre, che
hanno imposto come ossessione dominante il tema, da ogni punto di vista
secondario in termini realistici, delle politiche di immigrazione, col
rigurgito di xenofobia e nazionalismo risorgente. Sono populismi, si
dirà con quella punta di disprezzo delle «folle» che ormai caratterizza
il linguaggio delle sinistre come delle élites. Ma in realtà avremmo
bisogno di un serio populismo di sinistra, capace di parlare alle masse e
di opporsi alle politiche dell’establishment.
Credo che sia
illusorio e autolesionistico, per tutti, rilanciare a questo punto le
nobili idee originarie, alzare la posta proponendo Stati Uniti d’Europa
che non verranno mai e che – a parte piccole cerchie di adepti – nessuno
seriamente vuole. Ogni volta che un politico di sinistra dice: “Più
Europa”, un uomo del popolo vota Salvini o Le Pen. E ormai la mitica
Generazione Erasmus è sommersa dalla Generazione Voucher, che sperimenta
sulla sua pelle l’incubo della precarietà in cui si è convertito il
«sogno» europeo.
Nell’immane campionario di frasi fatte che
costituisce il nerbo dell’ideologia europeistica, accanto
all’affermazione ipocrita sull’Europa che avrebbe impedito 70 anni di
guerre (la guerra alla Serbia è stata fatta probabilmente dagli
esquimesi), spicca anche l’asserito superamento degli Stati-nazione. Si
tratta con ogni evidenza di una illusione ottica, perché gli stati
nazionali esistenti (e quelli che si aggiungeranno, a partire dalla
Scozia per finire probabilmente con la Catalogna) sono l’unica realtà in
campo, e ciò che chiamiamo Europa è il risultato della mediazione di
interessi ed esigenze tra essi, con una evidente penalizzazione degli
stati dell’Europa mediterranea dovuta ai rapporti di forza instaurati
dopo Maastricht. In attesa di fantomatici «movimenti europei» la
dimensione nazionale è del resto l’unica che può opporsi ai diktat
economici delle élites, come dimostrano le piazze francesi in rivolta
contro la loi travail che anche noi avremmo dovuto avere un anno fa, se
disponessimo ancora di sindacati liberi e combattivi.
È del tutto
falso e propagandistico affermare che un recupero di sovranità,
assolutamente necessario, porti a nazionalismi sfrenati o addirittura a
guerre. Come italiani non dovremmo certo proporci di tornare a Crispi e
Mussolini, ma dovremmo guardare piuttosto a Enrico Mattei.
Ciò che
resta della sinistra europea dovrebbe affrontare con realismo e con
umiltà il trauma del dopo-Brexit, in nessun caso confondendo le sue
ragioni con quelle dell’establishment dominante, e tentando con ogni
mezzo di imporre una politica diversa, di sviluppo e di sostegno al
lavoro, senza accontentarsi di strappare decimali di «austerità
compassionevole» che potranno a questo punto venire concessi.
Si
tratta di verificare, e per l’ultima volta, se esistono margini di
riformabilità di questa Unione Europea, blindata da trattati che
sembrano escludere ripensamenti o inversioni di rotta. Se questo non
sarà possibile, e la disgregazione procederà tra stagnazione e
conflitti, gioverà ricordare che il mondo è molto più grande e più vario
rispetto alla prospettiva che si può osservare da Strasburgo e da
Bruxelles.
Europa, processo destituente
Brexit. Abbiamo
superato una soglia nel processo di disgregazione della costruzione
europea non a causa del voto britannico, ma perché esso rivela tendenze
alla polarizzazione dell’insieme dell’Europa, rivela la sua crisi
politica, che è anche morale.
Etienne Balibar Manifesto 28.6.2016, 23:59
Non voglio certo minimizzare il carattere drammatico delle
conseguenze che il voto nel Regno unito avrà per i britannici e per
l’Europa. Ma mi colpisce il modo di presentare i fatti nei titoli della
stampa francese ed estera: «Dopo la Brexit». Tranne poche eccezioni,
tutti sembrano dare per scontato che il divorzio si sia già consumato.
In realtà, entriamo certo in una fase turbolenta, ma la sua via d’uscita
non è affatto chiara. Cerco di commentare e interpretare
quest’incertezza.
I paragoni possono indurre in errore. Tuttavia, come non ricordare
che nella storia recente della politica europea, i referendum nazionali o
transnazionali non vengono ]mai messi in pratica? E’ stato il caso nel
2005 e nel 2008 a proposito della «Costituzione europea» e del trattato
di Lisbona e ancor più, naturalmente, nel 2015 con il Memorandum imposto
alla Grecia. Stavolta sarà probabilmente lo stesso. La classe dirigente
britannica, al di là dei conflitti personali che l’hanno tatticamente
divisa, sta già manovrando per rinviare le scadenze e negoziare nel modo
più vantaggioso i termini dell’«uscita».Alcuni governi (quello francese
in primis) e i portavoce della Commissione moltiplicano le spacconate
(del tipo: «out vuol dire out»). Ma la Germania da quest’orecchio non ci
sente, e non ci sarà alcuna unanimità se non di facciata.
Lo scenario più verosimile, dopo un periodo di tensioni la cui
conclusione non sarà determinata tanto dalle opinioni pubbliche quanto
dalle fluttuazioni dei mercati finanziari, è che si arriverà a
fabbricare una nuova geometria del «sistema» degli Stati europei, nel
quale l’appartenenza formale all’Unione europea sarà compensata da altre
strutture: l’eurozona ma anche la Nato, il sistema di sicurezza alle
frontiere che succederà a Schengen, e una «zona di libero scambio» da
definire in funzione dei rapporti di forza economici.
Da questo punto di vista appare istruttivo anche il confronto fra
Grexit e Brexit: la debolezza della Grecia, abbandonata da tutti quelli
che, logicamente, avrebbero dovuto sostenere le sue rivendicazioni, ha
portato a un regime di esclusione interna; la forza relativa del Regno
unito (che nell’Ue può contare su solidi appoggi) porterà senza dubbio a
una forma accentuata di inclusione esterna.
Dunque significa che non ci sarà alcuna svolta? Esaminiamo brevemente
il «lato inglese» e il «lato europeo», prima di dire perché essi non
sono separabili ma rappresentano i due lati di una stessa medaglia. È
evidente che la storia particolare della Gran Bretagna , il suo passato
imperiale, la sua storia sociale fatta di bruschi cambiamenti devono
essere tenuti in considerazione per spiegare l’emergere di un sentimento
«antieuropeo» egemonico. Le analisi che ci vengono offerte indicano che
questo sentimento presenta in sé una straordinaria varietà di moventi,
diversi a seconda delle classi, delle generazioni, della nazionalità e
dell’appartenenza etnica.
La potenziale contraddizione al loro interno è celata dal discorso
«sovranista» che è stato manipolato dai sostenitori della Brexit. Ci si
deve dunque chiedere per quanto tempo quest’ultimo potrà nascondere il
fatto che i disastri economici e sociali di cui è attualmente vittima un
numero sempre maggiore di «nuovi poveri» del regno sono imputabili agli
effetti cumulati delle politiche neoliberiste che non è stata solo l’Ue
a imporre alla Gran Bretagna: dal momento che quest’ultima, anzi,
dall’epoca di Thatcher e poi dal New Labour, le ha propugnate in prima
linea per l’intera Europa.
Allo stesso modo, la «Brexit», in qualunque modo avvenga, non porterà
alcun miglioramento a questa situazione, salvo ovviamente se diventasse
maggioritaria una politica alternativa. Ma per questo occorrerebbe, ed
ecco uno dei grandi paradossi di questa situazione, una contropartita
sul continente, perché la legge della concorrenza fra i «territori» si
imporrà più che mai.
E questo ci porta sul versante «europeo». Non dimenticando ovviamente le
peculiarità, le nazioni europee non sono esenti da nessuno dei problemi
che colpiscono il Regno unito.
In questo dice il vero la propaganda «populista» («né destra né
sinistra») che si scatena oggi ai quattro angoli dell’Ue, chiedendo
altri referendum sul modello inglese. Nel 2005, il cancelliere Schmidt
aveva osservato che, salvo eccezioni, consultazioni sul modello francese
e olandese avrebbero dato ovunque risultati negativi. La crisi di
legittimità, il ritorno del nazionalismo, la tendenza a proiettare il
malessere sociale e culturale su un «nemico dall’interno» indicato dai
partiti xenofobi e islamofobi, si sono sviluppati dappertutto.
La crisi greca è stata utilizzata da governi sostenitori
dell’austerità sociale per far diventare il debito pubblico lo
spauracchio dei contribuenti. La crisi dei rifugiati è stata mescolata
alle questioni securitarie. Chiaramente, quello che Oltremanica si
manifesta come «separatismo» si traduce in tutta Europa come tendenza
all’esplosione delle società, con l’aggravarsi delle loro fratture
interne ed esterne.
In altri termini: abbiamo superato una soglia nel processo di
disgregazione della costruzione europea non a causa del voto britannico,
ma perché esso rivela tendenze alla polarizzazione dell’insieme
dell’Europa, rivela la sua crisi politica, che è anche morale. Non siamo
solo in un «interregno» ma assistiamo a un processo destituente che,
per ora, non ha una contropartita costituente.
Siamo impotenti? Questo è il punto centrale. Nel breve termine sono
molto pessimista, perché i discorsi di «rifondazione» dell’Europa sono
nelle mani di una classe politica e tecnocratica la quale non prevede
alcuna trasformazione degli orientamenti che le assicurano la
benevolenza dei poteri occulti (quelli dei mercati finanziari), e non
vuole riformare in profondità il sistema di potere da cui trae il
monopolio della rappresentanza. E di conseguenza, la funzione di
contestazione è assunta da partiti e ideologi che tendono a distruggere i
legami fra i popoli (o più genericamente fra i residenti) europei.
Sarà necessaria una marcia molto lunga affinché agli occhi dei
cittadini e attraverso le frontiere, si chiariscano concetti come la
stretta interdipendenza con una sovranità condivisa, la democrazia
transnazionale, l’altermondialismo, il co-sviluppo di regioni e nazioni,
il reciproco arricchimento delle culture. Non siamo a quello stadio, e
il tempo vola…
Una ragione di più – se crediamo all’Europa – per continuare a spiegare tutto questo. Incessantemente.
Un ricostituente «Nì»
In una parola.
Dopo il referendum inglese, incautamente avvallato dal premier
conservatore, mi viene voglia di rielencare tutti i dubbi che nutro per
queste forme di democrazia diretta, con la loro retorica sui «popoli che
scelgono il proprio destino»
di Alberto Leiss il manifesto 28.6.16
Dopo
il referendum inglese, incautamente avvallato dal premier conservatore,
mi viene voglia di rielencare tutti i dubbi che nutro per queste forme
di democrazia diretta, con la loro retorica sui «popoli che scelgono il
proprio destino».
Certamente gli entusiasmi per la «volontà
generale» di rousseuaiana memoria, più o meno veicolata dalle moderne
«piattaforme» digitali, si affermano quando la democrazia
rappresentativa fornisce le pessime prove che abbiamo sotto gli occhi.
Tuttavia bisognerebbe sapere che certi rimedi sono peggiori del male.
Ieri
lo diceva uno uomo non certo sospettabile di riserve sul ricorso ai
referendum come Stefano Rodotà. Intervistato dalla Stampa criticava
Cameron, che ha strumentalizzato a «fini politici» una sorta di arma
impropria, divenuta un boomerang per lui, per il Regno Unito (quanto ora
veramente unito?) e l’intera Europa.
Anche in Italia si rischia
in autunno un referendum sulla Costituzione preda delle propagande
opposte di Renzi e dei 5 Stelle, e non solo loro. Rodotà osserva come
ormai «l’ambiente informativo» sia «molto più sensibile alle suggestioni
e alla propaganda» in quella sorta di Democrazia recitativa – dal
titolo di un saggio di Emilio Gentile – in cui siamo immersi. Critica
poi Renzi per la torsione plebiscitaria che ha impresso alla
consultazione referendaria, un possibile boomerang anche per lui.
Il
capo del governo, e del Pd, non sembra volersene fare una ragione:
domenica sul Sole 24 Ore ha affermato che il referendum assume un valore
ancora più importante di «spartiacque»: da una parte i sostenitori di
«un sistema solido che garantisce la governabilità», dall’altra i
partigiani dell’”incertezza permanente”.
Ci si poteva aspettare,
dopo le batoste nelle città e dopo il Brexit, che prevalesse un maggiore
ascolto delle numerose critiche fondate e di merito che vengono alla
riforma costituzionale e alla legge elettorale. Magari l’indicazione di
un percorso volto a recuperare consensi e, soprattutto, a produrre alla
fine un assetto istituzionale veramente migliore di quello attuale.
Ma
non è da Renzi. E non rientra del resto nella logica binaria di
qualunque referendum. Un meccanismo che si mette in funzione quando la
virtù politica della mediazione ha già fallito.
Mi ricordo il
clima nel vecchio Pci di fronte alla «svolta» sul cambiamento del nome
annunciata da Occhetto. La rincorsa polemica tra lui e Ingrao portò
all’immediato mega referendum interno sul Sì e il No, all’insegna della
propaganda e della semplificazione (conservatori contro innovatori,
ovviamente). Gli effetti non proprio positivi di quel «metodo»
condizionano ancora oggi la sinistra e la politica italiana.
Per
questo ogni tanto mi abbandono alla fantasia sulla possibilità di un
qualche gesto diverso da parte di una sinistra che non vedo ancora in
circolazione. Una cosa del tipo: votiamo No contro queste riforme, ma
saremmo anche disposti a cambiare idea se il fronte opposto accettasse
queste precise modifiche su questo e quell’altro punto del cambiamento
costituzionale, della legge elettorale, e anche del modo in cui si
gestisce l’informazione pubblica… Una sinistra che quanto più fosse
radicalmente critica di questo sistema economico e sociale, e autonoma
rispetto ai partiti esistenti (5 stelle compresi), tanto più dovrebbe
essere capace di proporre la più larga unità democratica, di fronte al
rischio sempre più concreto che prevalgano in tutta Europa le peggiori
spinte di destra.
Insomma, tra i tifosi del No e quelli del Sì, propongo di riflettere un momento sul possibile valore ri-costituente del Nì.
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