Francesco Piva ha insegnato Storia contemporanea presso l'Università degli studi di Salerno e l'Università degli studi di Roma Tor Vergata. Ha pubblicato saggi di storia sociale e, più di recente, si è interessato della formazione giovanile nell'Italia del secondo dopoguerra analizzando due casi: l'uno riguardante l'Azione cattolica, l'altro il Partito comunista. Le due ricerche sono edite dalla FrancoAngeli: "La Gioventù cattolica in cammino...". Memoria e storia del gruppo dirigente (1946-1954) (2003) e Storia di Leda. Da bracciante a dirigente di partito (2009).
martedì 7 giugno 2016
Santa bombarda. L'educazione alla guerra e alla morte nelle organizzazioni giovanili cattoliche in Italia
Francesco Piva: Uccidere senza odio. Pedagogia di guerra nella storia della gioventù cattolica italiana (1868-1943), Franco Angeli, pagg. 320, euro 35
Risvolto
Giovinezza, virilità, guerra, bella morte. Questo nesso, emerso
durante le guerre della rivoluzione francese e consolidato in Europa
nelle successive guerre nazional-patriottiche, fu proposto anche ai
giovani cattolici italiani negli ultimi decenni di quel secolo e i primi
quarant'anni del Novecento.
Il volume ricostruisce il messaggio educativo sulla guerra divulgato,
tra il 1868 e il 1943, dalla più importante organizzazione giovanile del
movimento cattolico italiano. All'inizio del Novecento, quando la
Gioventù cattolica cominciò ad assumere dimensioni di massa - fino ad
aggregare nei primi anni Venti oltre 400 mila tra studenti, contadini ed
operai - venne delineato un progetto pedagogico volto a plasmare una
personalità virile, capace non solo di adattarsi alla guerra, ma di
eccellere al massimo nelle virtù militari. Proprio in quanto addestrato
al combattimento interiore e al ferreo controllo degli impulsi sessuali,
il giovane cattolico avrebbe dimostrato di reggere meglio degli altri
la fatica di uccidere e la disponibilità ad essere ucciso. Esempio e
guida per i compagni nelle micidiali violenze delle guerre
novecentesche.
Il libro ripercorre lo sviluppo di questo paradigma, le argomentazioni
pedagogiche e il discorso pubblico con cui l'associazione andò
configurando, nelle diverse congiunture storiche, la sua collocazione
all'interno della nazione. L'immagine del giovane maschio e puro,
soldato esemplare, pronto a buona e santa morte, si proiettò a livello
politico nell'idea della guerra come purificazione sociale e occasione
per rilanciare la cristianità. Questo cammino portò la Gioventù
cattolica nella seconda metà degli anni Trenta a sostenere la
militarizzazione della società perseguita dal fascismo e a condividere
tratti fondamentali della cultura di guerra che sfociò nella
catastrofica partecipazione dell'Italia al secondo conflitto mondiale.
Francesco Piva ha insegnato Storia contemporanea presso l'Università degli studi di Salerno e l'Università degli studi di Roma Tor Vergata. Ha pubblicato saggi di storia sociale e, più di recente, si è interessato della formazione giovanile nell'Italia del secondo dopoguerra analizzando due casi: l'uno riguardante l'Azione cattolica, l'altro il Partito comunista. Le due ricerche sono edite dalla FrancoAngeli: "La Gioventù cattolica in cammino...". Memoria e storia del gruppo dirigente (1946-1954) (2003) e Storia di Leda. Da bracciante a dirigente di partito (2009).
Così al giovane cattolico s’insegnava a uccidere
Uno studio di Francesco Piva sulla pedagogia nelle associazioni
vicine alla Chiesa fra fine Ottocento e Secondo conflitto mondiale
di Umberto Gentiloni Repubblica 6.6.16
Come si può educare a uccidere all’interno di una grande associazione
giovanile cattolica? E si può arrivare a uccidere senza perdere la
propria dimensione di fede, la propria identità cristiana? Ama il
prossimo tuo come te stesso o partecipa attivamente alla grande
carneficina delle guerre della prima metà del XX secolo? Un
interrogativo che attraversa un segmento significativo della società
italiana tra Otto e Novecento, almeno fino all’epilogo della catastrofe,
con la conclusione del secondo conflitto mondiale. Si è molto indagato
sulle ragioni del pacifismo di stampo cattolico, sulle parole dei
pontefici, sulle sovrapposizioni pericolose tra ambiti e competenze, tra
potere politico e presenza religiosa. Ma poco si sa di quello che
avveniva nel corpo vivo del movimento cattolico, in quelle forme di
pedagogia collettiva che caratterizzano la fase di nazionalizzazione
dell’Italia post unitaria.
Le dense pagine del volume di Francesco Piva,
Uccidere senza odio. Pedagogia di guerra nella storia della Gioventù
cattolica italiana 1868- 1943 (Franco Angeli), offrono un contributo
importante da un punto di osservazione del tutto originale. La Gioventù
Cattolica assume dimensioni di massa (negli anni ’20 del secolo scorso
oltre 400 mila tra studenti, contadini e operai) e partecipa alla
costruzione della nazione italiana, si rende protagonista di quelle
strategie che caratterizzano parte della trasformazione del Paese nei
primi decenni del nuovo secolo. Il buon cattolico s’ispira ai valori
della purezza e della giovinezza, tiene insieme l’amore per la patria,
la virilità maschile e le aspirazioni a diventare un buon soldato. Ma
tale pedagogia non emerge come un dato accessorio al percorso di fede
cristiana, tutt’altro: «Viene elaborata una strategia per guidare i
giovani», scrive l’autore, «non solo ad accettare il sacrificio con
disciplina e abbandono in Dio, bensì a non avere remore nell’infliggere
violenza e morte. Da cristiani. Non più soldati passivi, cioè obbedienti
e non impauriti dalla morte, ma protagonisti attivi, esempio ai
compagni in armi per audacia e, al tempo stesso, lucidità operativa,
controllo delle emozioni e dell’istinto di fuga nelle contingenze più
rischiose».
E così si saldano piani e percorsi separati artificiosamente, spesso con
eccessiva semplicità: il cammino del singolo e il ruolo delle
organizzazioni, il confine mobile e flessibile tra le identità in
movimento, quella di cattolico in formazione e quella di giovane
italiano pronto alle sfide più impegnative. Un insieme di messaggi che
convivono e si alimentano a vicenda: «Esaltando e divulgando queste
virtù belliche, l’associazione si vantò di offrire alla patria, il
soldato migliore, anzi l’ufficiale più adatto a guidare le micidiali
guerre di massa, proprio in quanto pronto anche sul piano personale a
reggere la fatica dell’uccidere».
Un modello da raggiungere nel tempo basato sul maschio prestante e ben
allenato con una volontà ferrea fondata sull’autocontrollo repressivo
degli istinti sessuali; un incontro tra nazionalismo, interventismo e
fascismo con il nucleo portante dell’educazione morale cattolica:
l’incitamento alla purezza. Un itinerario che trova nelle guerre un
banco di prova, la strada per crescere, una verifica possibile del
messaggio che compare nella documentazione della Gioventù cattolica: «Il
giovane che si addestra a mantenersi puro, si distinguerà in guerra per
coraggio e supererà le naturali resistenze ad ammazzare e a farsi
ammazzare. Di più sarà un ottimo leader e, avendo imparato a comandare
su se stesso, sarà pronto ad assumersi responsabilità nelle gerarchie
militari. Lui solo è in grado di uccidere senza odiare».
Tutto si tiene tra la fase preparatoria (l’educazione) e l’impatto con
la realtà (la morte in azione) fino alla resa dei conti nelle disfatte
della guerra fascista che riduce l’orizzonte delle ambizioni e penalizza
l’ascesa del nuovo soldato cattolico. Si chiude una fase, la parabola
dell’onnipotenza inarrestabile viene messa da parte: «Crolla il mito del
giovane cattolico come soldato migliore, la baldanza del maschio
vincitore svanisce, l’umiliazione di una sconfitta militare non era
ammissibile né compatibile con quella retorica».
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