domenica 26 giugno 2016

Sinistra & Confusione teme il "nazionalismo" e regala agli Onfray e alle destre l'opposizione all'Europa neoliberale. Giovanilisti e classisti a tenzone


Il referendum inglese non ha ancora scatenato la rivoluzione socialista in Europa, né ha ancora sostituito la UE con il fascismo nazionalista.
In compenso, come Tachipirinas a suo tempo, ha squadernato in maniera impietosa le divisioni strategiche della sinistra italiana, il suo drammatico approccio propagandistico all'analisi, l'impossibilità lampante di ricostruire un campo condiviso che vada oltre le dieci persone.
Il deficit culturale accumulato in questi decenni è particolarmente visibile nel dibattito surreale tra giovanilisti e classisti.
I primi esaltano il voto giovanile e metropolitano pro UE come espressione liberale di apertura e scelta di modernità e progresso, contrapponendolo al voto delle generazioni più adulte e bifolche, chiuso, reattivo e nazionalista, usandolo, come prova del carattere emancipatorio del processo di integrazione.
I secondi apprezzano invece il voto degli adulti lavoratori e delle aree provinciali come testimonianza di una spontanea e immediata scelta di classe. E lo contrappongono a quello dei corrotti figli di papà che pensano solo all'Erasmus e alla droga come prova del carattere antipopolare dello stesso processo.

In entrambi i casi si cerca nei dati fattuali solo una conferma alle proprie tesi precostituite, che sono spesso solo un vago ricordo semplificato di una visione del mondo.

E si arriva al paradosso di ipotizzare una estromissione dal diritto di voto per quelli della parte avversa.

Al pregiudizio antipopolare dei primi e alla loro subalternità alla narrazione gramellina, saviana e riotta dominante, si affianca così da parte dei secondi un sociologismo non meno preoccupante. Perché immagina una continuità diretta e immediata tra ceto subalterno, Bene assoluto, coerente scelta di classe a sinistra.
Questa mitologia consolatoria non funziona dai tempi di Lenin. il rapporto tra classi popolari e progetto di emancipazione non è naturale ma va interamente costruito. Soprattutto quando questo progetto è assai debole e l'egemonia sulle forme di coscienza tende a destra in tutti i settori sociali.
Altrimenti chiamiamoci populisti e chiudiamo baracca [SGA].

P.S. 
In ogni caso, niente paura: Repubblica annuncia con enfasi degna di miglior barzelletta il lancio trionfale di una petizione per invalidare il referendum britannico e ripeterlo tante volte finché vince il sì alla UE.

Brexit, Onfray: «L’Europa viene spazzata via? È tutta colpa delle élite» 
Il filosofo francese: «Questa macchina distrugge tutte le conquiste sociali ottenute da due secoli. Avrei votato per l’uscita» 
di Stefano Montefiori Corrieree 25 6 2016
Il celebre e controverso filosofo francese Michel Onfray, critico feroce — da sinistra — del governo socialista e delle élite europee, ha risposto per email ad alcune domande del Corriere.
Se fosse stato un cittadino britannico, lei avrebbe votato Remain o Leave?
«Avrei votato per l’uscita da questa macchina liberale che distrugge tutte le conquiste sociali ottenute da due secoli di lotte sindacali e di progresso sociale. Una macchina che chiamiamo falsamente l’Europa, quando è in effetti un club capitalista che si presenta travestito da grande idea generosa, umanista e progressista. Quel che il capitalismo non è riuscito a fare finché il socialismo totalitario esisteva all’Est, ha potuto farlo grazie alla burocrazia e all’amministrazione di questa Europa del denaro. Il liberalismo si trova paradossalmente imposto in modo autoritario da questa macchina che ha dalla sua parte le élite politiche, mediatiche, industriali, finanziarie, bancarie, mercantili, ma non il popolo che fa le spese di questa dittatura liberale».
Nel campo euro-scettico molte voci, in primis Marine Le Pen, chiedono un referendum anche in Francia e in ogni Paese dell’Ue. Lei è favorevole?
«Fare riferimento a Marine Le Pen mostra che ci si rifiuta di pensare e che si vuole intimidire. Marine Le Pen non è la pietra di paragone rispetto alla quale prendere posizione. Me ne infischio di Marine Le Pen che è la Tsipras francese, stessa cosa con Jean-Luc Mélenchon (leader del Parti de gauche, ndr). Sono a favore di questo referendum, ma vorrei ricordare che in Francia l’abbiamo già avuto, chiesto da Chirac nel 2005: ha avuto esito negativo e Sarkozy dell’Ump e Hollande del Ps hanno disprezzato la scelta del popolo imponendo poi tramite le camere riunite quel che il popolo aveva rifiutato».
Dopo il No del 2005, la Francia torna il Paese chiave?
«La Francia oggi è Hollande e Hollande è un elettrocardiogramma politico piatto. Per ora non ha che un’unica preoccupazione, essere rieletto. Si serve della Francia, non la serve. Se lo riterrà utile da un punto di vista di tattica politica, prenderà delle iniziative. Ma non ha lo stesso peso di Merkel che è l’uomo forte di questa Europa liberale».
Il tema dominante della campagna è stata l’immigrazione. È stato forse un voto soprattutto contro la globalizzazione e l’immigrazione?
«Questa domanda coinvolta e militante assimila il voto contro il liberalismo a un voto contro gli stranieri. L’Europa di cui abbiamo vantato i meriti all’epoca di Maastricht ha fallito: doveva portare la piena occupazione, la fine delle guerre, l’amicizia tra i popoli, il progresso della civiltà; ha prodotto il contrario: messa in concorrenza dei lavoratori, disoccupazione di massa, quattro anni di assedio a Sarajevo, esacerbazione dei nazionalismi, regressioni culturali».
I giovani hanno votato per lo più Remain, mentre gli anziani Leave. Si può parlare di una vittoria della paura contro la speranza?
«Anche questa domanda è militante, partigiana e orientata. Lascia credere che votare contro il liberalismo sia votare contro l’Europa, e anche per la xenofobia, dunque per il razzismo, e quindi significa essere vecchi, dunque antiquati, fuori dal tempo. Si potrebbe aggiungere, perché anche questo fa parte della panoplia che gli euro-beati e gli euro-latri usano contro gli euro-lucidi da loro chiamati euro-scettici, che i pro-Brexit sono anche sotto-istruiti, rurali, ritardati mentali, alcolizzati quando non — è stato detto in Francia — assassini di deputati pro-Ue (riferimento all’uccisione della laburista britannica Jo Cox, ndr). Da parte mia parlerei di una vittoria di quanti hanno esperienza e memoria contro coloro che, fabbricati da questa Europa che ha gettato la cultura e la storia alle ortiche, si bevono la propaganda che cola dai media di massa».
Qual è stato il peso del populismo in questo risultato?
«Rifiuto questa terminologia. È populista oggi chiunque abbia deciso di dare la parola al popolo, di rendergli il potere che gli appartiene, di ascoltare quel che dice quando gli si chiede in un referendum quel che pensa. Coloro che ricorrono alle parole populisti e populismo sono di solito dei populicidi, in altre parole degli assassini di popoli. Il termine è del rivoluzionario Gracchus Babeuf… Se non volete ascoltare quel che il popolo vuole dirvi, non chiedetegli quel che pensa. Oppure fate come in Francia, chiedeteglielo e poi non tenetene conto. La democrazia è il governo del popolo, attraverso il popolo, per il popolo. E l’Europa liberale è una oligarchia di burocrati al servizio del capitale, non una democrazia: è quel che dicono i popoli quando li si sollecita».
Qual è la portata complessiva di questo voto? Quali conseguenze prevede per l’Occidente?
«Ho appena finito di scrivere un libro di mille pagine che si intitola Decadenza. Vita e morte della civiltà giudaico-cristiana. L’Europa è morta, ecco perché gli uomini vogliono farla, ma non hanno capito che l’Europa era finita dall’apertura delle porte di Auschwitz. Quel che sta accadendo in Gran Bretagna, sono le prime pietre dell’edificio che cadono. Preparate il requiem». 

Le vele gonfie dei nazionalismi in Europa
Brexit. Se davvero si vuole fare qualcosa per l’Europa sottraendo terreno alle destre bisogna fare marcia indietro sulle riforme come la loi travail in Francia che ha scatenato contro i socialisti un movimento imponente
Marco Bascetta Manifesto 25.6.2016, 23:59
Ben pochi credevano davvero che sarebbe finita così. Ma, del resto, gli usuali strumenti analitici appaiono irrimediabilmente fuori uso. Le borse e i loro esperti operatori sobbalzano impotenti come il più sprovveduto degli apprendisti stregoni. Tutto torna ad accadere “per la prima volta” e perfino la pedanteria procedurale dell’immane corpus legislativo europeo già si annuncia un indistricabile labirinto, se non un’arena all’interno della quale forze politiche ed economiche si affronteranno a colpi di ricatti, di minacce, astuzie e raggiri. Il fendente politico è stato sferrato e la governance economico-finanziaria già è al lavoro per limitarne i danni e ottimizzarne i profitti.
Un patetico Nigel Farage, leader dell’ultranazionalista Ukip, proclama il trionfo del Leave contro multinazionali e poteri globali. Se non facesse impressione sentire questo torvo figuro proclamare «il giorno dell’indipendenza» britannica, ci sarebbe da farsi una sonora risata. Eppure la favola che uscendo dall’Europa si diano le condizioni per un ripristino della sovranità popolare, nello stato in cui versa, ovunque, la rappresentanza politica, continua a vantare un certo seguito.
Il Regno Unito (mai disunito come dopo questo referendum) godeva in Europa di tutti i privilegi possibili. Al riparo dagli obblighi di Schengen, fuori dall’eurozona, rimborsato di buona parte delle sue “spese europee”, esentato dal garantire integralmente il welfare ai cittadini comunitari ha scelto comunque di abbandonare questa comoda posizione, nonostante le fosche previsioni piovute durante la campagna elettorale.
Nessun solido argomento razionale poteva essere schierato a favore del Leave, eppure la sia pur risicata maggioranza dei cittadini britannici ha scelto di voltare le spalle all’Europa.
La riuscita Brexit è in un certo senso il contrario della mancata Grexit. La Gran Bretagna lascia l’Europa, dopo esserne stata blandita e favorita. La Grecia decide di rimanervi nonostante le sanguinose imposizioni subite e dopo una strenua battaglia maggioritaria (e tuttavia perdente) contro le ricette economiche della Troika. Si è trattato solo di autolesionismo o di paura? Forse Tsipras poteva rischiare di più nel suo braccio di ferro con Bruxelles (e forse ora può e deve aprirsi una nuova stagione), ma in qualche modo ci fu la consapevolezza che isolazionismo e autarchia avrebbero potuto condurre a forme inquietanti di nazionalismo e che Atene, pur piegata, aveva comunque messo in scena una diversa possibilità in e per l’Europa, lasciato intravedere una breccia. Ma è proprio lì, in quello scontro di un anno fa, che la governance europea e le miserevoli socialdemocrazie che ne assecondavano scodinzolanti le scelte, cominciavano a mettere in circolo i germi che lavorano alla disgregazione dell’Unione.
Gli inglesi, torniamo a chiamarli così come la geografia del voto li ha circoscritti, decidono di abbandonare l’Unione con le peggiori ragioni possibili, ancor peggiori degli stessi concreti effetti del Brexit: un tronfio e arrogante orgoglio nazionale, un improbabile “Noi” nel paese più classista d’Europa. Thatcher non si faceva certo mettere i piedi in testa dall’Europa, ma non esitava a metterli lei in testa alla working class britannica. Non a caso sono le destre olandesi, danesi, finlandesi fino al Front national di Marine Le Pen, nonché l’insignificante Matteo Salvini ad applaudire queste ragioni e a minacciare un’alluvione di referendum.
Sono soprattutto i poveri dei paesi ricchi ad essere sedotti da queste sirene, convinti che siano i membri meno affluenti dell’Unione a sottrarre loro il bengodi che il patrio Pil dovrebbe garantire. Se non altro i greci avevano capito che erano gli armatori e un’oligarchia corrotta a divorare il grosso della torta. Con la complicità, finché è stato possibile, di Berlino e di Bruxelles.

Ora i vertici europei fanno un po’ la voce grossa, ma in sostanza adottano una linea assai prudente. Continueremo ad andare avanti in 27, assicura il presidente della Commissione Junker. Ma andare avanti come se niente fosse, con l’aria che tira, è una scelta autolesionista se non suicida. È ormai chiaro a tutti che sono proprio la rigidità dottrinaria della governance europea e gli interessi finanziari che la ispirano a gonfiare le vele dei nazionalismi manifesti come, per altro verso, di quelli incistati nel governo dell’Unione. Che quest’ultimo debba essere sottoposto a una pressione popolare di segno contrario a quella che ha condotto Londra fuori dall’Unione, mi sembra a questo punto, assolutamente evidente. Se davvero Hollande volesse fare qualcosa per l’Europa sottraendo terreno al Front National, per fare un solo esempio, dovrebbe fare marcia indietro su quella loi travail che gli ha scatenato contro un imponente movimento e larga parte dei francesi.

Traditi dai coetanei dei Beatles
di Massimo Gramellini La Stampa 25.6.16
Per un ragazzo di Londra, l’Europa è la fidanzata spagnola con cui ha amoreggiato durante l’estate del corso Erasmus a Barcellona. Per la vecchietta di Bristol citata dal capo degli ultrà nazionalisti Farage, l’Europa è il migrante nigeriano che attraversa la Manica per togliere il lavoro al figlio inglese della sua vicina. Ha vinto la vecchietta di Bristol, perché ci sono più vecchiette che ragazzi, in questa Europa che non fa più bambini. Non è sconvolgente che a decretare la Brexit sia stata proprio la generazione dei Beatles e dei Rolling Stones, quella che voleva cambiare il mondo e oggi in effetti lo ha cambiato, ma nel senso che se lo è chiuso dietro le spalle a doppia mandata?
I giovani, i laureati e i londinesi hanno votato in larga maggioranza per restare. Gli anziani, i meno istruiti e gli inglesi di provincia per andarsene. La prova evidente che si è trattato di una scelta di paura, determinata da persone che, non avendo strumenti conoscitivi adeguati, hanno fatto prevalere la pancia sulla testa e la bile sul cuore. Di fronte all’incertezza del futuro, non hanno reagito con la curiosità ma con la chiusura. La retorica della gente comune ha francamente scocciato. Una democrazia ha bisogno di cittadini evoluti, che conoscano le materie su cui sono chiamati a deliberare.
La vecchietta di Bristol sapeva che il suo voto, affossando la sterlina, le avrebbe alleggerito di colpo il portafogli, dal momento che i suonatori di piffero alla Farage si erano ben guardati dal dirglielo?
Una parte di ragione però la vecchietta di Bristol ce l’ha. Molti di coloro che hanno votato «Leave» pensavano di non avere più niente da perdere. Nessuno fa volentieri la rivoluzione, finché avverte il rischio di rimetterci i risparmi o la sanità e la scuola gratuita per i figli. Il patto sociale su cui la Gran Bretagna e l’Europa si sono rette per sessant’anni garantiva a tutti una speranza crescente di benessere. Ma questa Europa con troppa finanza e poca politica non ha fatto nulla per frenare la caduta libera del lavoro, la smagliatura delle reti di protezione e l’impoverimento della piccola borghesia, che oggi la ripaga con la stessa moneta: disprezzandola.
Un maestro di tennis ti insegna che sul campo ci sono soltanto due posti dove stare: dietro la linea di fondo o sotto rete. Se traccheggi a metà, vieni infilzato. L’Europa è da troppo tempo a metà campo. O ritorna dietro la linea di fondo, come ha appena fatto la vecchietta di Bristol. Oppure decide di scendere sotto rete. Rimettendo al centro del progetto i cittadini, e non i mercati, e unificando il sistema fiscale, l’esercito e la politica estera. Il primo passo verso quegli Stati Uniti d’Europa in cui anche il ragazzo di Londra non vede l’ora di entrare.

L’IPOTECA DEI VECCHI SUL FUTURO DEI GIOVANI 
ALESSANDRO ROSINA 26/6/2016COMMENTI Restampa
DAVANTI a un mondo che cambia e diventa sempre più complesso si può reagire rimpiangendo vecchie sicurezze o impegnandosi a generare nuove opportunità. Le vecchie generazioni tendono a sovrastimare i rischi e a sottostimare il valore delle nuove sfide, ma faticano anche a trasmettere ai giovani stimoli e motivazioni per viverle essi stessi da protagonisti. Questo produce due conseguenze negative, l’ostilità verso i processi di cambiamento da parte dei più anziani e la mancanza di strumenti per orientare positivamente le scelte dei più giovani. Brexit è un esempio di decisione determinata dal peso dei primi ma destinata a pesare sul futuro dei secondi, i quali subiscono in parte impotenti e in parte inconsapevoli.
Chi ha vissuto gli effetti delle guerre mondiali, aveva in mente un’Unione in grado di garantire pace e stimolare relazioni di collaborazione. Gli accordi commerciali e l’allargamento ad Est dopo la caduta del muro di Berlino sono stati impegni accolti con favore dalle generazioni vissute durante la guerra fredda. Acquisiti questi risultati, ci troviamo oggi con un progetto non più sorretto dai motivi iniziali, non più appassionante per le generazioni più mature, non aiutato a diventare coerente con le sfide dei tempi nuovi e con le aspettative delle nuove generazioni.
I dati di varie indagini mostrano in modo concordante come esista un forte atteggiamento critico dei giovani su come è stato sinora realizzato il progetto europeo. Anziché però essere la generazione che lo vede crollare vorrebbero essere quella che lo aiuta a realizzarsi in modo compiuto facendogli acquisire centralità nel mondo. La maggioranza dei giovani vedrebbe positivamente un’evoluzione verso gli Stati Uniti d’Europa, non come insieme di paesi vincolati a stare uniti, ma come casa comune nella quale è più facile costruire relazioni positive ed è promosso attivamente il confronto tra culture ed esperienze diverse.
I dati di un approfondimento internazionale condotto a luglio 2015 nell’ambito del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo, mostrano come questo tipo di Europa sia visto favorevolmente anche tra gli under 30 inglesi: quasi il 60 per cento considera importante la possibilità di viaggiare senza vincoli e fare esperienze di studio e di lavoro in altri paesi europei. Gli stessi dati evidenziano però anche la presenza di una fascia consistente di giovani che si sente esclusa dalle nuove opportunità e che di fronte alla crisi, alle difficoltà occupazionali, all’impatto dell’immigrazione, non ha visto dalle istituzioni europee risposte rassicuranti e convincenti.
La Gran Bretagna può anche rimanere fuori dall’Unione ma non possiamo lasciare le nuove generazioni fuori dal futuro che desiderano costruire. Il trauma di Brexit ci suggerisce allora di agire con più determinazione in due direzioni. La prima è quella di migliorare non solo l’inclusione dei giovani, ma ancor più la possibilità di coinvolgerli come parte attiva nella costruzione di un nuovo modello sociale comune. Il punto di partenza è un servizio civile europeo fortemente orientato alle competenze sociali e interculturali.
La seconda è la necessità di allentare il vincolo che impone che il voto di un ottantenne valga come quello di un ventenne su temi che condizionano soprattutto il futuro di quest’ultimo. Tanto più in un’Europa che invecchia e che vede il peso elettorale dei primi aumentare e quello dei secondi diminuire. Varie soluzioni sono possibili, difficili però non solo da realizzare ma anche da prendere semplicemente in considerazione in una società in cui la difesa di vecchie sicurezze fagocita tutto, compreso il futuro dei giovani.
Twitter: @ AleRosina68 L’autore è docente di Demografia all’Università Cattolica di Milano e curatore del “ Rapporto giovani 2016” dell’Istituto Toniolo
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Quasi il 60 per cento degli under 30 inglesi considera importante viaggiare senza vincoli e fare esperienze di studio e di lavoro

Per Putin è una vittoria
Ora spera che si sgretoli il fronte delle sanzioni I media del Cremlino: l’Unione europea ha fallito di Lucia Sgueglia La Stampa 25.6.15
E finalmente Putin si pronuncia su Brexit. Negando di provare «gioia» per l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue, come sostengono molti a Occidente: la Russia «non ha mai interferito, né influenzato» il voto, e a David Cameron che ha agitato lo spauracchio dello zar per sventare il Leave, ribatte: «Una manifestazione di basso livello di cultura politica».
Ma se dare alla Russia la colpa dell’esito del referendum è fuori luogo, non v’è dubbio che Brexit sia una «felice sorpresa», un successo strategico di Putin: perché insinua un cuneo tra Europa e Stati Uniti, indebolendo la coesione atlantica. Lo dimostra la pacata euforia dei media di Stato russi ieri mattina: la Ue ha «fallito la propria missione», scrive la Tass; «La Gran Bretagna ha scelto l’indipendenza, una lezione per la sete di potere di Cameron», apre Radio Vesti24.
Un «regalo» per la propaganda del Cremlino e i suoi capisaldi: un’Europa più debole e meno compatta sulle sanzioni (di cui Londra era tra i più strenui sostenitori), lo sprint dei movimenti euroscettici appoggiati anche finanziariamente dai russi. Ma soprattutto un’Europa più lontana dall’influenza Usa. «Non è l’indipendenza della Gran Bretagna dall’Europa, ma dell’Europa dagli Stati Uniti», esulta Boris Titov, imprenditore consigliere di Putin. Persino l’ex ambasciatore Usa a Mosca Michael McFaul, ammette: «È una vittoria per la politica estera di Putin». Spera il sindaco di Mosca Sergey Sobyanin: «Senza il Regno Unito nella Ue non ci sarà nessuno a difendere con tanto zelo le sanzioni contro di noi». Per Dmitri Trenin, direttore del Centro Carnegie a Mosca, «Brexit significa l’indebolimento del fronte russo-scettico nella Ue: Baltici, Polonia e Svezia». «Dopo la Gran Bretagna, la Nato, Schengen, e l’euro crollerà», s’infuoca il nazionalista Zhirinovsky.
A fine maggio, l’ambasciata russa a Londra aveva lanciato una campagna su Twitter, #WhatBritainLost, per ricordare agli inglesi i costi della «guerra delle sanzioni europee» contro la Russia sull’economia british. Mentre la tv filo-Cremlino in lingua inglese Russia Today, che trasmette anche da Londra, parteggiava chiaramente per Leave. Forse a questo si riferiva Cameron.
Ma il «soft power» conta pure su «Londongrad». Quei 150 mila russi residenti a Londra, molti ricchi oligarchi, ma anche dissidenti, per i quali Brexit potrebbe aprire «ottime opportunità», spiega Ben Judah sul «Moscow Times»: nell’immobiliare, approfittando del crollo della sterlina per far razzia di proprietà nel Regno Unito; o sfruttando la «opacità legale» che può seguire allo sganciamento dalle regole Ue per quanto riguarda riciclaggio e altri loschi affari.
Tuttavia, le società russe quotate a Londra tremano. E alcuni temono che Brexit alla lunga possa ritorcersi contro la Russia. Rafforzando Angela Merkel e l’asse Germania-Polonia in Europa. Poi la Ue, nonostante le sanzioni, «è ancora il nostro principale partner commerciale - ricorda il senatore K. Kosachev –. Se cade a pezzi, peserà su di noi». Ieri il rublo è calato pesantemente sul dollaro, come le azioni di Gazprom, Rosneft e Lukoil; ma il ministero delle Finanze per ora esclude «rischi seri». Intanto la fuga dalla sterlina all’oro, che Mosca ha accumulato in enormi riserve a partire dal 2006, avrebbe fatto guadagnare 2,4 miliardi di dollari alla Russia in 24 ore.


Sasson: “Ora ci vuole più Europa, servirebbero politici temerari e determinati” 

Donald Sasson. Per lo storico inglese, allievo di Hobsbawm, "l'Europa è come una zuppa, ognuno ci trova il sapore che vuole. Ma il vero avversario è il neoliberismo". Divario generazionale o di classe? "Con uno scarto del 2% è impossibile una lettura unidimensionale del referendum"

Leonardo Clausi Manifesto LONDRA 26.6.2016, 23:59 
Donald Sassoon è professore emerito di Storia europea comparata presso il Queen Mary College dell’università di Londra. Allievo di Eric Hobsbawm, si è occupato di storia del comunismo italiano, del socialismo e dei consumi culturali europei. Attualmente sta lavorando a un volume sulla parabola del capitalismo globale. 

Professore, dopo il referenum il genio è fuori dalla lampada. Che succederà? 

C’è un clima d’incertezza che non sparirà certo fra un mese o due. Durerà parecchi anni e avrà un peso forte sulla politica e, soprattutto, sull’economia. Vedo esperti che, alle domande del pubblico su mutui, valuta, prezzi degli immobili, non sanno esattamente che consigli dare. Economie sofisticate come le nostre sono in continuazione alle prese con interrogativi che ricadono su tutta l’Europa. 

E tutto per una decisione presa per motivi puramente interni di partito da parte di questo… preferisco non pronunciarmi. Insomma, che un evento di tale importanza scaturisca da motivazioni così piccine colpisce molto. 

Come il fatto che proprio mentre non si parla altro che di globalizzazione, sempre maggiore marginalità degli stati eccetera, una cosa del genere dimostri quanto limitata sia questa visione. Certo, c’è la globalizzazione; c’è una resistenza a questa globalizzazione; e questa resistenza non è necessariamente di sinistra, come molti – ma non tutti – avevano capito da un po’. 

Ma leggerlo unicamente come una scelta tattica sbagliata di Cameron nel solito solco della “storia fatta dai grandi uomini” non è una lettura da materialista storico quale lei è. Non dipende più dagli squilibri salariali in un’unione solo economico-finanziaria e non politica? 

Veramente, gli squilibri salariali sono sempre esistiti: è la ragione per cui i braccianti veneti andavano a lavorare in America. 

Ma non sono stati del tutto trascurati da un progetto che, sulla carta, aveva altri obiettivi e idealità? Poi, quando fa comodo, vengono tirati in ballo gli Spinelli e i Monnet. 

L’Unione Europea è come una zuppa: chi sostiene che abbia prevenuto un’ulteriore guerra – cosa che non ha molto senso – chi ci mette la fratellanza; chi ci vede la libertà del capitale senza lacci e lacciuoli, e via dicendo. 
Ed ha avuto successo in un certo senso proprio perché è una zuppa, gli idealisti ci vedevano una cosa, i neoliberisti un’altra. Insomma, è un po’ come la filosofia di Nietzsche: tutti ci vedono quello che ci vogliono vedere, la sinistra moderata l’ha vista come un modo di ottenere quello che non si riusciva ad ottenere attraverso lo stato, come le conquiste del lavoro. Ma la sua debolezza era anche la sua forza: perché se fosse stata solo una questione di abolire le dogane e i dazi si sarebbe fatto e basta. 
Tutti quelli che l’hanno voluta davvero, dovevano volerne sempre di più, non di meno. Per risolvere i problemi attuali ne occorre di più. 
E serve un politico coraggioso e temerario determinato ad andare avanti. Serve una fiscalità europea proprio nel momento in cui nessuno la vuole. 

È anche vero che questo paese dall’Europa ha sempre preso quello che gli serviva. Ora non si possono criminalizzare più di tanto i due leader – Cameron e soprattutto Corbyn, di cui tutti vogliono la testa: in fondo provengono da due partiti essenzialmente euroscettici. 

Questo paese è entrato in Europa quando è morto De Gaulle, aveva cominciato a bussare alla porta già negli anni Sessanta quando un Tory intelligente – quando ancora ce n’erano – come Harold McMillan decise di voler entrare. 
Nemmeno il governo Blair è stato europeista fino in fondo: non ha voluto Schengen, non è entrato nell’Euro, ha provato con soundbite-fesserie del tipo: “dobbiamo guidare l’Europa”, rispolverato in extremis da Gordon Brown – personaggio tra i peggiori. Hanno continuato a scegliere cosa poter ostacolare o da cui poter uscire. È stata questa la partecipazione della Gran Bretagna. I grandi eurofili come Edward Heath si sono estinti negli anni Settanta. 

Ma cosa ci si poteva aspettare in più da Corbyn in questo senso? Chi chiede le sue dimissioni non lo fa in maniera biecamente strumentale? 

Su Corbyn è perfettamente vero che nei dibattiti televisivi era assente e se anche ha protestato sulla parzialità della Bbc non mi pare obiettivo. La lotta era soprattutto all’interno dei Tories: Corbyn avrebbe potuto e dovuto fare di più e senz’altro condividere una piattaforma con Cameron. 
Nessuno degli altri leader di partito ha avuto un profilo prominente, nel dibattito si sono visti più backbenchers per il leave come Kate Hoey – che difende la caccia alla volpe – e Gisela Stuart. Che poi in un momento come questo, con il partito conservatore che è stato duramente sconfitto almeno nella leadership, quando un 70% dell’elettorato tory ha votato per uscire mentre il 60% degli elettori laburisti ha votato per rimanere, quando il premier dà le dimissioni, quando si prospetta una battaglia dura per vedere se Boris (Johnson, ndr) ce la fa e si prospettano negoziati durissimi per evitare che altri partiti eurofobi olandesi e in Francia prendano piede, insomma, in questo momento questo partito laburista, chiaramente il più idiota delle sinistra europea – e lo dico da socialista – non trova di meglio da fare che cacciarsi in una lotta interna. 

Come leggere questo risultato percentuale: in un’ottica di classe o anagrafico-generazionale, come fanno tutti i media mainstream in Italia? 

I risultati dicono 48% da una parte e 52% dall’altra. Quando si guarda a questo 52% si possono trovare tutta una serie di differenziazioni, non una: c’è quella generazionale e quella di classe. Anche fra gli storici c’è stata una frattura. Io ho firmato la lettera degli Historians for Britain in Europe in occasione della quale sono stato invitato – ironia della sorte, dopo trent’anni di tessera del Labour Party, a 11 Downing Street proprio dal cancelliere tory Osborne -, ma c’è anche la divisione regionale. E poi, anche a Londra. Nel quartiere di Islington il remain era al 75%, come a Hackney. 

Entrambe zone del tutto gentrified. 

Ma contengono anche una cospicua componente working class. E poi Bristol, Newcastle, Manchester, Liverpool… Se proprio dobbiamo fare questa analisi per me c’è da considerare l’aspetto dell’Inghilterra provinciale, non quella necessariamente subissata da immigrati: perché Leicester ha votato remain. Certo, dove invece d’immigrati ce ne sono molti, come a Doncaster, hanno votato Leave. 
Questo per dire che è difficilissimo fare un’analisi esclusivamente di classe quando c’è un divario del due per cento, così come parlare di ignoranti contro intellettuali. Non funziona perché non tutti pensano esclusivamente al proprio vantaggio economico. Pensiamo ai farmers: non so come abbiano votato, ma se pensando ai soldi avessero votato leave si sono dati la zappa sui piedi per via delle sovvenzioni europee che ricevono, lo stesso vale per i gallesi. 
Un’altra cosa da notare è che la crisi economica qui è minore che in altri paesi mediterranei. Cercare una causa ragionevole a questo gesto è un impulso da materialista storico, ma per me questa è una scelta del tutto irrazionale. 
Tornando ai partiti: sull’Europa sono tiepidi da circa 40 anni. La stampa, a parte il solito Guardian, è contro, la televisione si sforza di essere imparziale. Mettiamo a confronto tutto questo con l’Italia, che è molto più euroscettica oggi di 25 anni fa – c’era un grande entusiasmo allora: se in Italia l’euroscetticismo è passato dal 4 al 30% ci si dovrebbe stupire ancor meno dell’Inghilterra, dove l’euroscetticismo, che era la metà 40 anni fa, è sì aumentato, ma non proporzionalmente agli altri paesi, come la Francia ad esempio. Insomma, il fenomeno va visto in una dimensione comparativa. 

Ma l’assalto alla spesa pubblica, l’ossessione sul debito – che questo paese continuerà a perseguire più che mai ora che si trova in balia degli euroscettici – la stessa Ue ha scelto scientemente di seguirle comunque, col beneplacito di una socialdemocrazia europea che ha accettato di autoannullarsi nella sua funzione correttiva, pur sapendo bene che il capitalismo attraversa crisi ricorrenti. Quello che accade qui come in tutta Europa non è un chiaro segno di rifiuto di queste politiche? 

Questo accade indipendentemente dall’Eurozona, il divario ricchi/poveri è cresciuto in Usa e forse di più in Gran Bretagna. Eviterei di leggere questo voto in maniera unidimensionale. 
Ci sono molti che sono furiosi con queste politiche e non c’è dubbio, sapevamo che esistevano già: l’Ukip, che non esisteva dieci anni fa, ha preso quattro milioni di voti; in Italia, Grillo è uscito fuori dal nulla e prima di lui c’era la Lega Nord; in Francia Le Pen, Trump e lo stesso Sanders negli Usa. 
Questa mancanza di fiducia generalizzata verso le élite in occidente c’è sempre stata. In fondo l’Uomo Qualunque nasce in Italia nel ‘46 e volendo uno potrebbe addirittura parlare di fascismo. Il fatto è che se non hanno un punto di riferimento ufficiale legittimato come un partito, un organo di stampa eccetera, gli scontenti tacciono. Ora che i mezzi di espressione li hanno, certi “politici” hanno deciso di farsene interpreti spaventando i partiti tradizionali. 
Ma nello stesso tempo, dagli anni Ottanta in poi, una delle considerazioni principali sulla globalizzazione era che le idee keynesiane si basavano sullo stato come agente economico, ma era uno stato degli anni ’30, che non commerciava tanto. 
Se uno guarda alla curva della globalizzazione, la vede salire dagli anni Sessanta, Settanta e Ottanta dell’Ottocento, poi c’è la botta della prima guerra mondiale e diminuisce, infine risale fortemente dal ’45. 
Il modello keynesiano valeva quando c’erano condizioni internazionali forti per applicarlo. Quello neoliberista è stato adottato dal ’80 in poi nonostante tutte le turbolenze e le crisi accadute in seguito: possibile che nessuna sinistra si sia chiesta come mai sopravviva così bene? 
Abbiamo un’ideologia che crede in più mercato e meno stato ecc; che provoca aumento della disoccupazione e non dei salari, eppure nessuno riesce a fare una vera lotta contro il neoliberismo. 
E anche quando ci prova, in pochi casi come Syriza in Grecia, nel giro di meno di un anno si arrende. È questo il dilemma della sinistra di oggi. Io non ho ricette, posso solo dire che questo è il problema. Ma se non ce lo poniamo come fanno Blair e Renzi è chiaro che non si arriva a nulla.

Tsipras: «Colpa di austerity e muri»
Atene. Il leader greco punta il dito contro le politiche rigoriste e la gestione fallimentare della crisi dei rifugiati. Propone una nuova visione progressista «o sarà il baratro» di Teodoro Andreadis Synghellakis il manifesto 24.6.16
Alexis Tsipras dice con chiarezza che il processo di unificazione europea ha subito un duro colpo. Secondo il leader di Syriza, che ha parlato ai greci con un messaggio televisivo, il risultato emerso dal referendum britannico mostra che l’Europa sta affrontando una crisi di identità e anche una crisi più complessiva, di carattere strategico. Ritiene, in sostanza, che Bruxelles e alcuni grandi paesi dell’Unione non abbiano letto con l’attenzione necessaria i messaggi arrivati dall’aumento delle percentuali dei partiti nazionalistici e di estrema destra in Europa.
Secondo Tsipras «le scelte estreme dell’austerità hanno aumentato le differenze, tanto fra i paesi del Nord e del Sud Europa, quanto all’interno dei singoli stati membri». Dovrebbe iniziare, ora, un periodo di analisi, di assunzione di responsabilità e di ricostruzione. La Grecia, con il suo primo ministro, ricorda che siamo arrivati a questo punto anche «a causa di una gestione della crisi dei migranti à la carte, a causa della chiusura delle frontiere e di chi ha deciso di erigere muri invece di accogliere», invece di chiedere all’Europa una vera condivisione delle responsabilità. Atene sa benissimo – sulla sua pelle – che la crisi del debito è stata affrontata dando precedenza agli interessi nazionali e della finanza e non andando avanti tutti insieme, grazie a interventi realmente solidali, con la richiesta di riforme «umane», realmente sostenibili.
Proprio la Grecia, che lo scorso anno è stata stretta nell’angolo, costretta a firmare un accordo che contiene nuovi tagli, aumenti dell’Iva e che mantiene il totale della pressione fiscale a livelli troppo alti, questa Grecia segue ora gli sviluppi di Oltremanica con lo sguardo lucido di chi aveva profetizzato con saggezza, rimanendo inascoltato.
«Chi è responsabile per il rafforzamento dell’estrema destra e dei nazionalisti?», è la domanda che ha posto ieri Tsipras. Secondo il primo ministro di Syriza, la colpa è del deficit di democrazia, dell’imposizione ricattatoria di scelte antipopolari e ingiuste e degli stereotipi divisivi che descrivono il Nord Europa come produttivo e virtuoso e il Sud come scansafatiche. Ora, dopo la fase della denuncia, bisognerà vedere se l’Europa sarà capace di compiere qualche ulteriore passo, riconoscendo i propri errori e smettendo di scavare fossati. La Grecia, ovviamente, dice no all’isolazionismo nazionale che, secondo il governo guidato dalla sinistra, porta a un vicolo cieco.
Ad Atene, tuttavia, è chiaro che ci troviamo davanti all’ennesimo bivio, forse il più importante di tutti i precedenti incontrati nel corso del recente cammino europeo. Per dirla con le parole di Alexis Tsipras, « o il referendum britannico riuscirà a svegliare il sonnambulo che sta procedendo verso il vuoto, o sarà l’inizio di un percorso pieno di insidie per i popoli europei».
Il leader greco chiede un profondo cambio di rotta, con scelte che rafforzino il carattere democratico dell’Europa. Lo scopo, chiaramente, è riuscire a gettare delle nuove basi, cambiare molte delle politiche seguite sinora e porre un forte argine alle forze nazionaliste e ultraconservatrici. Il primo banco di prova, nei prossimi mesi, sarà la difesa dei diritti dei lavoratori da chi vorrebbe mettere definitivamente in soffitta i contratti collettivi di lavoro. Tsipras si oppone ed ha deciso di metterci la faccia.

«La working class si ritroverà beffata»
Intervista a John Dickie. «Il paese è spaccato in due, ma i leader del leave hanno aizzato questo fenomeno dell’ostilità contro l’immigrazione, alimentato il mito del furto di posti di lavoro - economicamente un ragionamento del tutto analfabeta» di Leonardo Clausi  il manifesto 25.6.16
LONDRA Il professor John Dickie insegna Italian studies presso l’University College di Londra. È uno specialista dell’Italia riconosciuto a livello internazionale e i suoi libri sono stati tradotti in svariate lingue. Gli abbiamo chiesto una valutazione sugli eventi di ieri per i quali esprime subito «sgomento, sia a livello collettivo che personale, di studioso: lavoro in un dipartimento di lingue dove abbiamo il numero più alto di studenti dall’Ue. Per noi ci sono gravissime incertezze».
Non c’è stata una grave sottovalutazione dei possibili risultati durante la campagna?
Ci siamo fidati della City, che sembrava tranquilla. Ma si sono sbagliati pure loro. È un risultato in cui ci sono esigenze del tutto contraddittorie: da una parte ci sono i conservatori liberali che vorrebbero una Gran Bretagna aperta e libera e dall’altra parte il voto di una buona fetta di quelle che erano un tempo le roccaforti del laburismo: le zone deindustrializzate, che hanno interpretato il leave in senso opposto, cioè come modo per chiudersi, per fermare l’immigrazione e procurarsi maggiore accesso ai sussidi o forse anche solo vendicarsi. Perché c’è una metà di questo paese che non ha conosciuto i vantaggi della globalizzazione e dell’Ue.
Ma non è anche un voto concesso per beghe interne ai tories che attraverso l’errore tattico di Cameron sfascia due Unioni?
È vero. Ma anche Tony Blair ha fatto un errore tattico: quando fu eletto nel ’97 la prima volta, aveva la grande capacità di convincere proprio quell’elettorato laburista che ci ha mandato fuori dall’Europa. Voleva mettere la Gran Bretagna al centro dell’Europa e all’epoca gli si chiese se non voleva indire un referendum proprio per blindare questa proposta. Ebbene, scelse di non farlo. Indubbiamente questo è un voto popolare, e in quanto tale va rispettato. Dobbiamo guardare avanti.
Il paese è spaccato fra un ceto medio giovane globalizzato, prevalentemente londinese e nelle aree urbane, e il resto del paese di anziani e di una working class estromessi dalla narrativa dominante.
Si è parlato di una frattura fra élite e popolo, me se fosse così avremmo un’élite del 48%: dunque non dobbiamo concedere troppo a questa retorica populista. Il paese è spaccato in due, ma i leader del leave hanno aizzato questo fenomeno dell’ostilità contro l’immigrazione, alimentato il mito del furto di posti di lavoro – economicamente un ragionamento del tutto analfabeta. Per loro è stato un gesto senza costi politici e infatti ora stanno facendo marcia indietro. Proprio quell’elettorato a cui si sono rivolti è un elettorato laburista. Con il nostro sistema uninominale conta la concentrazione territoriale del voto e dunque i tories euroscettici possono dimenticarsi tranquillamente di questa working class che si ritroverà beffata nuovamente, con esiti difficilmente prevedibili.
Il paese dall’assetto sociale più solido dell’occidente, mai sconfitto, mai rivoluzionato, mai investito da fascismi o marxismi che diventa il laboratorio sociale dell’instabilità europea?
Vediamo quanto dura questa crisi. Ma ce ne sono varie. Quella costituzionale, per la possibilità che la Scozia se ne vada e che alzi una frontiera con l’Inghilterra mai esistita. Stessa cosa con l’Irlanda del nord. Poi ce n’è una politica. I tories hanno una maggioranza di deputati a favore del remain e dovranno regolare questa difficilissima transizione con una maggioranza che non voleva il leave. Dunque i tories anche se sono avvantaggiati sono spaesati, mentre il Labour sta candendo a pezzi. Ha una voragine che lo separa proprio dalla propria vecchia base che ha votato leave. Ci sono stati sondaggi incredibili durante la campagna secondo cui il 50% dell’elettorato laburista credeva che il partito e Corbyn fossero per il leave. Credo sia dovuto a incompetenza politica, una situazione dalla quale è difficile riprendersi.
Ma entrambi i leader dei due maggiori partiti sono in fondo euroscettici. Lo è Cameron che viene da un partito che ha l’euroscetticismo nel proprio Dna e lo era anche il labour pre-Blair da cui discende Corbyn… chi ora vuole abbattere Corbyn non lo fa per allontanare da sé la responsabilità di questo scollamento dall’elettorato?
È vero. Questo allontanamento del Labour dalla propria base elettorale è andato crescendo nel tempo ed è di vecchia data. Ha lasciato i perdenti al di fuori della modernizzazione e non l’ha inventato Corbyn. Che ora sarà difficile da rimuovere dal suo posto, visto che ha la base dalla sua parte. Sarà interessante vedere come reagirà a questo shock una base che è molto concentrata a Londra e filo-Ue, se sarà in grado di scuotere la credibilità di Corbyn. Il problema dell’immigrazione è una soluzione immaginaria a problemi reali e ha catturato la fantasia dell’elettorato popolare del centro e del Nord. Le ironie si sovrappongono, perché il voto per il leave si è concentrato in zone dopotutto a bassa immigrazione mentre è il contrario per il remain, impostosi a Londra dove ce ne sono molti. Se Corbyn propone vecchie soluzioni anni Settanta che per carità hanno un aspetto di validità, protezione del lavoro e della spesa pubblica, questo elettorato non le accoglierà perché se avesse sentito un discorso più economico pro-Ue avrebbe votato a favore del remain. Per cui ora temo una deriva populista, vedo l’elettorato di Trump del futuro. 

LA SCOSSA che ha CAMBIATO l’euroPa
Lo 0,008 % del pianeta ha scompaginato tutto Corriere 25.6.16
 Poco meno di un anno fa, migliaia di greci in piazza Syntagma cantarono e ballarono tutta la notte dopo il grande «No» al referendum sul salvataggio europeo. Il mattino dopo il governo che li aveva chiamati alle urne, si arrendeva alla troika. Ieri mattina a Lombard Street, nel cuore dell’antica City di Londra, i sudditi britannici che a livello nazionale avevano appena scelto di divorziare dall’Unione Europea con il 51,9 per cento dei voti non si lasciavano sfuggire neanche un lampo di trionfo negli occhi. Ciascuno attendeva alla propria routine come se la notte prima non fosse successo niente, eppure tutti sapevano che questa non è la Grecia: nel Regno Unito quando il popolo vota non si torna mai indietro sulla sua volontà.
La strada verso le urne
Le differenze fra i due referendum, paradossalmente, finiscono qui. Come un anno fa Alexis Tsipras, così il suo pari grado di Londra David Cameron aveva finito per vedere nella chiamata alle urne un diversivo tattico per divincolarsi quando ormai si sentiva alle corde. Il premier di Atene non sapeva più come resistere alla pressione degli altri governi dell’euro, quello di Londra doveva gestire una minaccia anche più insidiosa: i suoi alleati di partito; in nome loro, ha scelto di giocarsi al tavolo verde il destino del Regno pur di non rischiare una sfida alla propria posizione di leader del partito conservatore e candidato premier.
Nel 2013 Cameron incassò il sostegno di molti dei suoi stessi parlamentari per un secondo mandato a Downing Street, in cambio di una promessa che a molti allora parve poca cosa: il referendum di ieri. Così l’uomo che aveva trasferito fra i Tory lo stile e l’oratoria di Tony Blair pensava di aver ricacciato nell’ombra anche gli ultranazionalisti dello Ukip.
Proprio come Tsipras, Cameron ha sottovalutato le implicazioni dell’ingranaggio che aveva innescato. Forse è solo colpa della legge delle conseguenze impreviste, capaci di generare effetti perversi milioni di volte più grandi dell’atto alla loro origine. Forse invece è solo un battito d’ali di farfalla nella foresta amazzonica, da cui parte lo spostamento d’aria capace di diventare uragano sulla Cina.
Con il referendum dell’altra notte le croci sulle schede di 638 mila persone o lo 0,008% dell’umanità — la differenza decisiva fra Remain e Leave — ha messo in moto spostamenti di migliaia di miliardi su tutti i mercati finanziari del pianeta e sulle risorse di miliardi di persone di centinaia di Paesi.
Dov’è caduto il Remain
Cameron non avrebbe mai immaginato in che labirinto si stava cacciando. Forse è stata la sua educazione patrizia da discendente di Re Guglielmo IV a ottundergli il sesto senso grazie al quale i veri leader avvertono gli umori del Paese. Dopo aver passato un decennio a distruggere, interdire e disprezzare tutto quanto sapeva di Europa (fino a bloccare nel 2011 l’inclusione del «fiscal compact» nei trattati europei), Cameron di colpo ha dovuto cambiare ruolo in campagna referendaria. Non è mai suonato credibile. Si è ridotto al «Project Fear», cercare di impaurire i suoi stessi elettori con le conseguenze economiche della secessione europea, incapace com’era di fornire una spiegazione positiva, plausibile e anche solo minimamente sentimentale sul perché anche gli inglesi hanno un destino europeo.
Né lui né i suoi si erano accorti di un rancore più profondo che stava mettendo radici nelle provincie del Regno. Dal 2004 sono cadute le clausole della Ue che limitavano la libera circolazione dei alcuni degli ultimi arrivati nel club: polacchi, ungheresi, cechi, slovacchi. Il centro studi Migration Watch in questi anni ha documentato, smentendo gli impegni del governo, una crescita dell’immigrazione che sta mettendo a nudo l’inadeguatezza di un sistema di welfare britannico martoriato dai tagli di Cameron e del suo ministro delle Finanze George Osborne.
Ai ritmi attuali nel Paese stanno entrando 330 mila stranieri all’anno e di questo passo nel 2018 due terzi delle autorità locali avranno carenza di posti per i bambini nelle scuole elementari. Per fare posto ai nuovi immigrati bisognerebbe costruire un appartamento nel Regno Unito ogni quattro minuti (anche colpa di politiche che limitano l’offerta per far crescere il valore delle case esistenti).
Dunque l’immigrazione è diventata l’arma contundente del fronte del Leave. Chi ha votato così, voleva soprattutto chiudere le frontiere. Eppure è successo qualcosa di strano: si sono schierate in massa con la Brexit soprattutto aree del Regno dove la presenza di stranieri è nettamente sotto la media: il Northumberland o Carlisle nell’Inghilterra del Nord o Boston e South Holland a Est (secondo il Migration Observatory di Oxford); al contrario si sono schierati molto di più per la permanenza nella Ue i distretti ad alta densità di immigrati, fra i quali tutta l’area centrale di Londra, Oxford e Cambridge. È una strana dissonanza. Fa pensare che il voto per il Leave contenga soprattutto un messaggio di malessere economico e di paura di chi si sente lasciato indietro, isolato in regioni un tempo industriali, mentre la Gran Bretagna si apre all’Europa e al mondo.
Dopo il divorzio
Il paradosso è che questo voto finirà per impoverire ancora di più chi già è più vulnerabile, e rischia di trattarsi di uno spreco drammatico. L’anno scorso per esempio il Regno Unito è tornato al record di 1,6 milioni di auto prodotte, raggiunto dieci anni fa, ma ora il settore rischia di crollare. Se Londra è fuori dal mercato interno europeo, le sue auto dovranno pagare un dazio del 10% per entrarvi e questo le metterà fuori mercato. L’indiana Tata ha già fatto capire che chiuderà degli impianti, Bmw rischia di fare altrettanto con le fabbriche della Mini.
Del resto lo sfondo è fragile: il debito totale dello Stato, delle imprese non finanziarie e delle famiglie in Gran Bretagna supera ancora il 300% del Pil e non è in calo malgrado una ripresa ormai nel suo settimo anno. Il Paese riesce a mantenere il suo tenore di vita solo prendendo in prestito dall’estero somme pari quasi al 5% del proprio reddito nazionale, ma con una sterlina ormai in caduta libera la Gran Bretagna troverà sempre meno creditori disposti a farle ancora fiducia. Per i ceti deboli, quelli che hanno creduto alle promesse del fronte del Leave, si prospetta una fase ancora più dura. Uscire dalla Ue significa per loro rinunciare anche ai requisiti minimi di protezione sociale sul lavoro che in Gran Bretagna prima non c’erano.
Il rapporto con l’Europa
È su questo sfondo che il nuovo governo dovrà ricucire un rapporto con l’Europa, qualunque esso sia. Il governo di Parigi e ancora più quello di Berlino non sono disposti a fare sconti. Se vorrà mantenere l’accesso al mercato unico da mezzo miliardo di consumatori, anche dall’esterno, Londra dovrà accettare il menù completo: inclusa la libera circolazione dei lavoratori dagli altri Paesi, proprio ciò che il referendum ha bocciato. Per questo adesso la Germania le offre solo un «accordo di associazione». Significa che la Gran Bretagna rischia di trovarsi tagliata fuori dal suo unico vero mercato di sbocco, con le banche della City e i fondi d’investimento privati del «passaporto» per operare con il resto d’Europa.
Nessuno se ne può rallegrare. È anche questo un sintomo di disintegrazione della struttura fondata con il Trattato di Roma nel 1957. È soprattutto un precedente destinato a creare nei mercati attesa per la prossima secessione di un altro Paese. Forse potrebbe convocare un referendum per l’uscita il leader populista olandese Geert Wilders, forse potrebbe farlo il governo nazionalista polacco. Di certo questa sindrome da declino colpisce in primo luogo i Paesi più fragili come l’Italia, soprattutto nei titoli azionari del settore finanziario che la Banca centrale europea non può proteggere. Non è un caso se nei corridoi di Bruxelles e nei mercati sia tornata l’ipotesi che l’Italia chieda prima o poi un sostegno leggero del Meccanismo europeo di stabilità per ancorare le proprie banche: ma è uno scenario che nessuno a Roma contempla. 

Perché ora Trump diventa possibile
La sua candidatura appariva più che impensabile, risibile Esattamente come sembrava pochi mesi fa l’uscita inglese dalla Ue di Vittorio Zucconi Repubblica 25.6.16
«E NON finirà qui» gongola Donald Trump dalle dune della Scozia dove ha aspettato giocando a golf l’esito del referendum britannico, assaporando l’euro harakiri britannico come l’auspicio del proprio possibile trionfo in America fra sei mesi. E ha ragione.
In quella nazione che gli americani chiamano giustamente “The Mother Country”, la terra madre che ha dato agli Stati Uniti due secoli or sono il proprio Dna culturale, politico, istituzionale, si è alzato quello stesso vento che ha gonfiato la ribellione e alimentato il rancore di milioni di elettori americani in Usa e lo ha portato a una candidatura del partito che fu di Lincoln e Reagan che appariva, ancora pochi mesi or sono, più che impensabile, risibile. Esattamente come impensabile era apparsa la diserzione inglese dalla Unione Europea al premier britannico Cameron, quando ebbe la infelice idea di convocare il referendum che lo ha travolto.
Nella apparente diversità che separa i grandi eventi elettorali degli ultimi giorni nelle democrazie occidentali — il voto massiccio per la estrema destra in Austria, le importanti vittorie delle candidate di Grillo in grandi città italiane, il netto successo del Brexit (52 a 48 in un referendum non è affatto un risultato “risicato”) e l’atteso boom di Podemos in Spagna domani — c’è un segno comune che oltrepassa le personalità dei politici vincitori e le distinzioni ideologiche e i programmi, spesso rudimentali o embrionale. Ed è il rifiuto dell’esistente. È la sentenza di condanna politica contro chiunque sia in questo momento al governo di nazioni, di città, o di partiti tradizionali.
Una generazione dopo il crollo del Muro di Berlino, quell’evento che ha rimescolato l’assetto di un mondo che era rimasto immobile dalla fine della guerra senza proporne uno alternativo, altri muri stanno crollando, sotto le picconate di una crisi che va ben oltre le cifre dell’economia, le catastrofi e le truffe del “Big Money”, della grande finanza e del neo nomadismo che la fine dei blocchi ha rimesso in moto: la crisi di identità. Milioni e milioni di cittadini, abbandonati nella terra di nessuno fra la fine dello Stato Mamma, il welfare state socialdemocratico ormai insostenibile che aveva sorretto l’Europa e le promesse mancate di un neo liberismo che ha arricchito i ricchi e improverito i poveri tra delocalizzazione e speculazione, vagano come profughi di un’ansia che si coagula nel rifiuto del presente, troppo angoscioso.
Su questo bisogno divorante di ritrovare un’identità — che nell’estremismo fanatico e violento trova addirittura nei criminali dell’Isis un rifugio identitario — nasce il desiderio umanissimo, e impropriamente chiamato irrazionale di tornare al “default”, al passato della propria condizione, vista come i bei tempi antichi. I britannici che hanno scelto il salto nel buio sognano che in fondo al precipizio ci sia la mitica “Britannia” che un tempo dominava gli oceani e garantiva a tutti la pinta di “ale” al pub, la sanità pubblica e la pensione, mentre altrove si immagina il ritorno alla purezza etnica fra le valli delle Alpi, all’orgoglio della “Marianna” gallica o a un’immaginaria Arcadia del proprio villaggio. In circoli sempre più piccoli, sempre più provinciali, sempre più isolati e isolazionisti, i demagoghi coltivano l’illusione di tornare “padroni a casa propria”, mentre i governi in carica balbettano.
Questo è il percorso che Donald Trump sta compiendo, la strada che il Gps degli umori velenosi del nostro tempo gli indica e che potrebbe condurlo diritto alla Casa Bianca.
Chiunque, anche un Farage, anche un Boris Johnson, anche una LePen, anche un Hofer, anche un Putin, anche giovani, simpatiche sindache paracadutate alla guida di città ingovernabili, e dunque anche un Trump, sembra a molti migliore di chi governa al momento. Una metà della cittadinanza vota non “per” qualcuno, ma contro, per dare una lezione, per testimoniare la propria disperazione, per “provare”.
La forza di Trump è precisamente la voglia di chi è pronto a saltare da un edificio in fiamme, pur di sfuggire al presente, che in America sichiama Hillary Clinton. Non è tanto l’innamoramento per “The Donald”, quanto l’allergia all’establishment incarnato da lei e che anche Bernie Sanders aveva intercettato. Lei è vista dai Trumpistas, e dai Sanderistas, come l’erede e la rappresentante del potere in atto e come la campionessa di forze estranee, di stranieri — la finanza, le banche, le grandi aziende, le istituzioni sovranazionali, “loro” — che si sono impadroniti della nostra bella, pura, violata e mutilata Patria. «Io sono americano, noi siamo americani, ah, americani, americani, come vi voglio bene americani» ha ripetuto e intonato Trump nel suo ultimo discorso sul suolo americano prima di partire per la “Terra Madre”, le isole britanniche, «e io rifarò grande l’America, restituendole la sovranità», come se gli Usa fossero colonia e non, semmai, colonizzatori. Non è dunque un programma politico razionale, è un grido di disperazione identitaria che sempre, nei momenti di sbandamento e di polarizzazione velenosa, gli incantatori lanciano. Sapendo che niente è più efficace, per chi si sente smarrito, reso anonimo dal tempo in cui vive, del messaggio fondamentale del nazionalismo: la rassicurante certezza che i nostri guai siano sempre colpa di altri.

LOGICA TRIBALEROBERTO TOSCANO
ANCHE se le Borse hanno lanciato segnali più che inquietanti, nessuno è in grado di misurare le conseguenze del Brexit. È certo che le conseguenze saranno ampie e profonde, sia nel Regno Unito che nella Ue.
SEGUE A PAGINA 25
SI POTREBBE anzi dire che il risultato del referendum britannico minaccia di rendere il Regno meno unito e solleva più di un dubbio sul fatto che la Ue sia davvero un’Unione.
Il Brexit apre infatti la via a una probabile richiesta di nuovo referendum scozzese sull’indipendenza, mentre la prospettiva che il confine fra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord diventi un confine reale va inevitabilmente nel senso di una riapertura della drammatica questione irlandese, che negli ultimi anni si era stemperata grazie alla comune appartenenza alla Ue di Regno Unito e Irlanda. (Per fare un parallelo fantapolitico ma concettualmente calzante, non vi sono molti dubbi su quali sarebbero le ripercussioni sulla questione altoatesina di un’uscita dell’Italia dalla Ue: il riaccendersi della spinta del Südtirol per il distacco dall’Italia e l’unione con l’Austria).
Certo, in tutto questo vi è molto di peculiare, di tipicamente inglese: la nostalgia per le perdute glorie imperiali, il profondo legame con le proprie abitudini e le proprie gerarchie sociali, e soprattutto l’originaria profonda riserva mentale nei confronti dell’Europa. Nelle ultime ore circola nella rete la ritrasmissione di uno sketch umoristico della popolare serie televisiva “Yes, Minister” in cui un funzionario del Foreign Office illustra con un effetto d’irresistibile comicità lo scopo fondamentale dell’adesione britannica al processo di integrazione europea: entrare per dividere, entrare per frenare, fra l’altro spingendo un ampliamento che, aumentando numero e disomogeneità dei paesi membri, non poteva se non produrre un rallentamento del processo.
Il paradosso è che una maggioranza di cittadini britannici ha espresso il proprio rigetto nei confronti di un’Europa ipotetica — centralista, dirigista, criptofederale — mentre l’Europa realmente esistente è oggi molto più vicina alla visione intergovernativa e neoliberale inglese piuttosto che al disegno dei Padri fondatori.
Sarebbe però pericolosamente consolatorio focalizzarsi esclusivamente sulle peculiarità della storia e della cultura britannica perdendo di vista il fatto che se è vero che il Brexit è effettivamente un colossale sconquasso per l’Europa, è anche vero che il rallentamento se non la regressione del processo di integrazione non è solo dovuto a Londra, e che il Brexit rivela, anche se in modo particolarmente clamoroso, tendenze che sono sempre più diffuse ben oltre il Canale della Manica.
Ha ragione Roger Cohen quando scrive, sul New York Times che la crisi dell’Europa riflette nello stesso tempo una crisi della globalizzazione, le cui grandi promesse si sono rivelate illusorie, e soprattutto hanno diffuso una sensazione di perdita di controllo e di emarginazione. Chi prende, e dove, le grandi decisioni sulle questioni che determinano la nostra esistenza, dall’economia all’ambiente, dalle migrazioni al terrorismo? Di fronte ad una diffusa sensazione d’impotenza e frustrazione i partiti tradizionali si sono rivelati incapaci di fornire prospettive credibili di partecipazione, soprattutto perché la globalizzazione è una realtà per quanto riguarda la finanza e la comunicazione, ma una pallida e poco credibile promessa per quanto riguarda la politica e la governanza. Questo è vero in particolare per l’Europa anche per quanto riguarda le sue conquiste più avanzate (rispetto alle quali, peraltro, il Regno Unito si è chiamato fuori): la moneta unica, non accompagnata da un fisco unificato e da una politica economica integrata, si è rivelata un grande esperimento di deregulation che, come ha dimostrato il caso greco, è sempre sull’orlo di una pericolosa perdita di controllo; Schengen ha di fatto eliminato le frontiere interne, ma mancano quelle regole condivise e quel controllo comune delle frontiere senza i quali risulta impossibile gestire i massicci flussi di rifugiati e migranti economici.
Di qui la spinta a rinchiudersi, a tornare indietro, a rimettere in pieno vigore frontiere e sovranità nazionale. Visioni molto più utopiche, vista la realtà del mondo contemporaneo, di quanto non lo sia il progetto europeista di un’unione sempre più stretta. Ma nei momenti di crisi e smarrimento è un fatto che il calcolo razionale venga travolto da spinte emotive fatte di paura, risentimento, ostilità. Se noi non controlliamo niente vuol dire che qualcuno sta controllando tutto. Se siamo afflitti da problemi, vuol dire che qualcuno ne è responsabile: i burocrati di Bruxelles; gli immigrati che vengono a rubarci il lavoro quando non a minacciare con il terrorismo la nostra stessa sopravvivenza fisica. E allora la salvezza si può solo cercare rivendicando una nostra forte identità culturale all’interno di confini invalicabili.
Si trattasse solo di una rinascita dei confini degli stati-nazione esistenti si tratterebbe certo di una regressione, ma non di una minaccia di destabilizzazione e conflitto. Si è invece messo in modo un processo di frammentazione la cui logica finisce per essere tribale. Mentre un po’ ovunque si respingono gli orizzonti di una globalizzazione che è nello stesso tempo problematica e inevitabile, nel nostro continente si diffonde un euroscetticismo che sempre più spesso diventa eurofobia. Ma il processo non si ferma qui, dato che sono le stesse realtà nazionali ad essere messe in discussione. Lo vediamo oggi in una serie di processi cui il Brexit minaccia di impartire una forte accelerazione, producendo una sorta di reazione a catena di carattere imitativo. Se la Scozia dovesse dichiarare l’indipendenza — una causa che oggi risulta rafforzata dalla maggioritaria volontà degli scozzesi di rimanere nella Ue — ne verrebbe molto rafforzata la già consistente spinta indipendentista catalana. Invece di una Spagna federale — una proposta che avrebbe potuto disinnescare, se fatta qualche anno fa, la sfida indipendentista — avremmo una Spagna spezzata, privata di una sua componente storicamente originaria e economicamente essenziale, senza parlare delle possibili ripercussioni sul rafforzarsi della spinta indipendentista basca, che oggi i sondaggi stimano a meno di un quarto dell’elettorato. È vero che, se gestito in modo consensuale e accompagnato dall’inserimento in un processo d’integrazione europea, il separatismo non dovrebbe farci paura: dopo la separazione cechi e slovacchi vivono benissimo insieme in un contesto europeo. Ma è proprio qui il problema. Se l’Unione invece di rafforzarsi s’indebolisce possiamo aspettarci, invece di una sdrammatizzazione dei nazionalismi, una loro esasperazione fatta di rivalità e ostilità reciproche rese inevitabili dal prevedibile fallimento dell’utopia della sovranità assoluta.
Contrariamente a quanto sostenuto dai fautori del Brexit e dagli altri euroscettici, oggi esilarati dal risultato del referendum britannico, non è l’Unione Europea a rendere impossibili forza e coesione dello stato nazione. Anzi, se saremo incapaci di gestire l’attuale drammatico passaggio, risulterà chiaro, anche se troppo tardi, che le loro sorti sono profondamente legate.
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UN ANNO PERDUTO NADIA URBINATI
LA lunga strada verso Brexit è cominciata insieme ai boat people e alle guerre civili che in questi ultimi anni hanno disintegrato paesi chiave del nord Africa e del Medio Oriente.
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INSIEME ai disperati che per mare e per terra cercano scampo dalla fame e dalle guerre cercando rifugio nella ricca Europa. Povertà e mancanza di sicurezza sono beni irrinunciabili e non negoziabili, beni assoluti che siamo disposti a cercare altrove quando non sono disponibili vicino a noi. Nella speranza di trovare porte aperte e non ermeticamente chiuse. La storia dell’Europa del nostro tempo è legata inscindibilmente con quella di questa speranza e di questa disperazione. Dunque: le frontiere sono uno dei fattori che dobbiamo tener presente se vogliamo cercare di capire Brexit.
A partire dalla scorsa estate l’Ungheria ha iniziato — prima tra i paesi europei — a installare barriere di filo spinato per chiudere le frontiere con i paesi balcanici, quasi a farsi porta blindata dell’Unione Europea. Nessuno glielo ha impedito. I paesi dell’Unione hanno criticato quella decisione ma non sarà nei loro poteri quello di intervenire perché le frontiere dell’Europa sono ancora le frontiere degli stati-membri. Un tentativo di politica comune con Frontex — di respingimento dei migranti e, in casi di emergenza, soccorso — e poi un accordo con la Turchia, un paese autoritario e lesivo delle libertà civili e dei diritti umani, per pattugliare le porte ad Est, verso la Siria e i paesi distrutti e destabilizzati dai governi americani con gli alleati occidentali. Le frontiere sono la questione geopolitica sulla quale l’Europa rischia di disintegrarsi. Nata per abbattere le frontiere interne (il prossimo anno si festeggerà il Trattato di Roma che riconobbe ai cittadini di paesi ex-nemici di muoversi oltre le frontiere dei loro stati d’origine) le frontiere sono la sua damnatio memoriae.
Chi ha più bisogno di frontiere, nel mondo globalizzato, è chi è più vulnerabile nella libera competizione delle merci e della forza lavoro, la merce che può essere comperata a bassissimo costo quando le frontiere sono aperte ai disperati della terra, disposti per vivere a salari da fame e al lavoro quasi servo, senza diritti. Tutto questo avviene in Gran Bretagna e in tutti i paesi europei — dove l’Unione non si è in questi anni di crisi infinita impegnata a non far sentire la paura delle frontiere aperte, dove, al contrario, si è speculato sulla mano d’opera serva (pensiamo al bracciantato nelle campagne del nostro meridione).
La responsabilità di Brexit esce dalle frontiere della Gran Bretagna dunque, e non è semplicisticamente imputabile all’irrazionalità di chi l’ha votata — i cittadini impoveriti e ridiventati poveri non hanno tanto interesse a che il loro paese tenga le frontiere aperte. Sarebbe un errore sottovalutare questa legge eterna: la libertà non sta insieme alla destituzione. L’Unione Europea non può per questo andare avanti, oltre Brexit, come se nulla fosse cambiato, come se Brexit non mettesse in discussione la sua miope politica di austerità. Il problema è quindi un problema di frontiere perché è un problema di opportunità sociale ed economica. In questo ultimo anno si è pensato che la costruzione del filo spinato non solo all’esterno dell’Europa ma anche dentro l’Europa fosse la soluzione — una soluzione nazionalista e populista. La risposta non può però venire dalla continuazione dello status quo: il problema dei rifugiati e il problema dell’erosione del benessere dei cittadini europei sono ineludibili e sono legati tra loro. Richiedono un governo politico però.
Il lungo anno di incapacità dell’Europa di trovare una politica comune sulle frontiere e sulle politiche sociali è stato tra i fattori che hanno fatto maturare il sentimento di chiusura in Gran Bretagna e altrove. Sarebbe urgente che in risposta a Brexit l’Europa mostrasse anche la faccia politica e costruttiva oltre a quella bancaria e restrittiva.
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Nel mondo globalizzato chi ha più bisogno di frontiere è chi è più vulnerabile nella libera competizione delle merci

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