P.S.
In ogni caso, niente paura: Repubblica annuncia con enfasi degna di miglior barzelletta il lancio trionfale di una petizione per invalidare il referendum britannico e ripeterlo tante volte finché vince il sì alla UE.
Atene. Il leader greco punta il dito contro le politiche rigoriste e la gestione fallimentare della crisi dei rifugiati. Propone una nuova visione progressista «o sarà il baratro» di Teodoro Andreadis Synghellakis il manifesto 24.6.16
Alexis Tsipras dice con chiarezza che il processo di unificazione europea ha subito un duro colpo. Secondo il leader di Syriza, che ha parlato ai greci con un messaggio televisivo, il risultato emerso dal referendum britannico mostra che l’Europa sta affrontando una crisi di identità e anche una crisi più complessiva, di carattere strategico. Ritiene, in sostanza, che Bruxelles e alcuni grandi paesi dell’Unione non abbiano letto con l’attenzione necessaria i messaggi arrivati dall’aumento delle percentuali dei partiti nazionalistici e di estrema destra in Europa.
Secondo Tsipras «le scelte estreme dell’austerità hanno aumentato le differenze, tanto fra i paesi del Nord e del Sud Europa, quanto all’interno dei singoli stati membri». Dovrebbe iniziare, ora, un periodo di analisi, di assunzione di responsabilità e di ricostruzione. La Grecia, con il suo primo ministro, ricorda che siamo arrivati a questo punto anche «a causa di una gestione della crisi dei migranti à la carte, a causa della chiusura delle frontiere e di chi ha deciso di erigere muri invece di accogliere», invece di chiedere all’Europa una vera condivisione delle responsabilità. Atene sa benissimo – sulla sua pelle – che la crisi del debito è stata affrontata dando precedenza agli interessi nazionali e della finanza e non andando avanti tutti insieme, grazie a interventi realmente solidali, con la richiesta di riforme «umane», realmente sostenibili.
Proprio la Grecia, che lo scorso anno è stata stretta nell’angolo, costretta a firmare un accordo che contiene nuovi tagli, aumenti dell’Iva e che mantiene il totale della pressione fiscale a livelli troppo alti, questa Grecia segue ora gli sviluppi di Oltremanica con lo sguardo lucido di chi aveva profetizzato con saggezza, rimanendo inascoltato.
«Chi è responsabile per il rafforzamento dell’estrema destra e dei nazionalisti?», è la domanda che ha posto ieri Tsipras. Secondo il primo ministro di Syriza, la colpa è del deficit di democrazia, dell’imposizione ricattatoria di scelte antipopolari e ingiuste e degli stereotipi divisivi che descrivono il Nord Europa come produttivo e virtuoso e il Sud come scansafatiche. Ora, dopo la fase della denuncia, bisognerà vedere se l’Europa sarà capace di compiere qualche ulteriore passo, riconoscendo i propri errori e smettendo di scavare fossati. La Grecia, ovviamente, dice no all’isolazionismo nazionale che, secondo il governo guidato dalla sinistra, porta a un vicolo cieco.
Ad Atene, tuttavia, è chiaro che ci troviamo davanti all’ennesimo bivio, forse il più importante di tutti i precedenti incontrati nel corso del recente cammino europeo. Per dirla con le parole di Alexis Tsipras, « o il referendum britannico riuscirà a svegliare il sonnambulo che sta procedendo verso il vuoto, o sarà l’inizio di un percorso pieno di insidie per i popoli europei».
Il leader greco chiede un profondo cambio di rotta, con scelte che rafforzino il carattere democratico dell’Europa. Lo scopo, chiaramente, è riuscire a gettare delle nuove basi, cambiare molte delle politiche seguite sinora e porre un forte argine alle forze nazionaliste e ultraconservatrici. Il primo banco di prova, nei prossimi mesi, sarà la difesa dei diritti dei lavoratori da chi vorrebbe mettere definitivamente in soffitta i contratti collettivi di lavoro. Tsipras si oppone ed ha deciso di metterci la faccia.
Intervista a John Dickie. «Il paese è spaccato in due, ma i leader del leave hanno aizzato questo fenomeno dell’ostilità contro l’immigrazione, alimentato il mito del furto di posti di lavoro - economicamente un ragionamento del tutto analfabeta» di Leonardo Clausi il manifesto 25.6.16
LONDRA Il professor John Dickie insegna Italian studies presso l’University College di Londra. È uno specialista dell’Italia riconosciuto a livello internazionale e i suoi libri sono stati tradotti in svariate lingue. Gli abbiamo chiesto una valutazione sugli eventi di ieri per i quali esprime subito «sgomento, sia a livello collettivo che personale, di studioso: lavoro in un dipartimento di lingue dove abbiamo il numero più alto di studenti dall’Ue. Per noi ci sono gravissime incertezze».
Non c’è stata una grave sottovalutazione dei possibili risultati durante la campagna?
Ci siamo fidati della City, che sembrava tranquilla. Ma si sono sbagliati pure loro. È un risultato in cui ci sono esigenze del tutto contraddittorie: da una parte ci sono i conservatori liberali che vorrebbero una Gran Bretagna aperta e libera e dall’altra parte il voto di una buona fetta di quelle che erano un tempo le roccaforti del laburismo: le zone deindustrializzate, che hanno interpretato il leave in senso opposto, cioè come modo per chiudersi, per fermare l’immigrazione e procurarsi maggiore accesso ai sussidi o forse anche solo vendicarsi. Perché c’è una metà di questo paese che non ha conosciuto i vantaggi della globalizzazione e dell’Ue.
Ma non è anche un voto concesso per beghe interne ai tories che attraverso l’errore tattico di Cameron sfascia due Unioni?
È vero. Ma anche Tony Blair ha fatto un errore tattico: quando fu eletto nel ’97 la prima volta, aveva la grande capacità di convincere proprio quell’elettorato laburista che ci ha mandato fuori dall’Europa. Voleva mettere la Gran Bretagna al centro dell’Europa e all’epoca gli si chiese se non voleva indire un referendum proprio per blindare questa proposta. Ebbene, scelse di non farlo. Indubbiamente questo è un voto popolare, e in quanto tale va rispettato. Dobbiamo guardare avanti.
Il paese è spaccato fra un ceto medio giovane globalizzato, prevalentemente londinese e nelle aree urbane, e il resto del paese di anziani e di una working class estromessi dalla narrativa dominante.
Si è parlato di una frattura fra élite e popolo, me se fosse così avremmo un’élite del 48%: dunque non dobbiamo concedere troppo a questa retorica populista. Il paese è spaccato in due, ma i leader del leave hanno aizzato questo fenomeno dell’ostilità contro l’immigrazione, alimentato il mito del furto di posti di lavoro – economicamente un ragionamento del tutto analfabeta. Per loro è stato un gesto senza costi politici e infatti ora stanno facendo marcia indietro. Proprio quell’elettorato a cui si sono rivolti è un elettorato laburista. Con il nostro sistema uninominale conta la concentrazione territoriale del voto e dunque i tories euroscettici possono dimenticarsi tranquillamente di questa working class che si ritroverà beffata nuovamente, con esiti difficilmente prevedibili.
Il paese dall’assetto sociale più solido dell’occidente, mai sconfitto, mai rivoluzionato, mai investito da fascismi o marxismi che diventa il laboratorio sociale dell’instabilità europea?
Vediamo quanto dura questa crisi. Ma ce ne sono varie. Quella costituzionale, per la possibilità che la Scozia se ne vada e che alzi una frontiera con l’Inghilterra mai esistita. Stessa cosa con l’Irlanda del nord. Poi ce n’è una politica. I tories hanno una maggioranza di deputati a favore del remain e dovranno regolare questa difficilissima transizione con una maggioranza che non voleva il leave. Dunque i tories anche se sono avvantaggiati sono spaesati, mentre il Labour sta candendo a pezzi. Ha una voragine che lo separa proprio dalla propria vecchia base che ha votato leave. Ci sono stati sondaggi incredibili durante la campagna secondo cui il 50% dell’elettorato laburista credeva che il partito e Corbyn fossero per il leave. Credo sia dovuto a incompetenza politica, una situazione dalla quale è difficile riprendersi.
Ma entrambi i leader dei due maggiori partiti sono in fondo euroscettici. Lo è Cameron che viene da un partito che ha l’euroscetticismo nel proprio Dna e lo era anche il labour pre-Blair da cui discende Corbyn… chi ora vuole abbattere Corbyn non lo fa per allontanare da sé la responsabilità di questo scollamento dall’elettorato?
È vero. Questo allontanamento del Labour dalla propria base elettorale è andato crescendo nel tempo ed è di vecchia data. Ha lasciato i perdenti al di fuori della modernizzazione e non l’ha inventato Corbyn. Che ora sarà difficile da rimuovere dal suo posto, visto che ha la base dalla sua parte. Sarà interessante vedere come reagirà a questo shock una base che è molto concentrata a Londra e filo-Ue, se sarà in grado di scuotere la credibilità di Corbyn. Il problema dell’immigrazione è una soluzione immaginaria a problemi reali e ha catturato la fantasia dell’elettorato popolare del centro e del Nord. Le ironie si sovrappongono, perché il voto per il leave si è concentrato in zone dopotutto a bassa immigrazione mentre è il contrario per il remain, impostosi a Londra dove ce ne sono molti. Se Corbyn propone vecchie soluzioni anni Settanta che per carità hanno un aspetto di validità, protezione del lavoro e della spesa pubblica, questo elettorato non le accoglierà perché se avesse sentito un discorso più economico pro-Ue avrebbe votato a favore del remain. Per cui ora temo una deriva populista, vedo l’elettorato di Trump del futuro.
Lo 0,008 % del pianeta ha scompaginato tutto Corriere 25.6.16
Poco meno di un anno fa, migliaia di greci in piazza Syntagma cantarono e ballarono tutta la notte dopo il grande «No» al referendum sul salvataggio europeo. Il mattino dopo il governo che li aveva chiamati alle urne, si arrendeva alla troika. Ieri mattina a Lombard Street, nel cuore dell’antica City di Londra, i sudditi britannici che a livello nazionale avevano appena scelto di divorziare dall’Unione Europea con il 51,9 per cento dei voti non si lasciavano sfuggire neanche un lampo di trionfo negli occhi. Ciascuno attendeva alla propria routine come se la notte prima non fosse successo niente, eppure tutti sapevano che questa non è la Grecia: nel Regno Unito quando il popolo vota non si torna mai indietro sulla sua volontà.
La strada verso le urne
Le differenze fra i due referendum, paradossalmente, finiscono qui. Come un anno fa Alexis Tsipras, così il suo pari grado di Londra David Cameron aveva finito per vedere nella chiamata alle urne un diversivo tattico per divincolarsi quando ormai si sentiva alle corde. Il premier di Atene non sapeva più come resistere alla pressione degli altri governi dell’euro, quello di Londra doveva gestire una minaccia anche più insidiosa: i suoi alleati di partito; in nome loro, ha scelto di giocarsi al tavolo verde il destino del Regno pur di non rischiare una sfida alla propria posizione di leader del partito conservatore e candidato premier.
Nel 2013 Cameron incassò il sostegno di molti dei suoi stessi parlamentari per un secondo mandato a Downing Street, in cambio di una promessa che a molti allora parve poca cosa: il referendum di ieri. Così l’uomo che aveva trasferito fra i Tory lo stile e l’oratoria di Tony Blair pensava di aver ricacciato nell’ombra anche gli ultranazionalisti dello Ukip.
Proprio come Tsipras, Cameron ha sottovalutato le implicazioni dell’ingranaggio che aveva innescato. Forse è solo colpa della legge delle conseguenze impreviste, capaci di generare effetti perversi milioni di volte più grandi dell’atto alla loro origine. Forse invece è solo un battito d’ali di farfalla nella foresta amazzonica, da cui parte lo spostamento d’aria capace di diventare uragano sulla Cina.
Con il referendum dell’altra notte le croci sulle schede di 638 mila persone o lo 0,008% dell’umanità — la differenza decisiva fra Remain e Leave — ha messo in moto spostamenti di migliaia di miliardi su tutti i mercati finanziari del pianeta e sulle risorse di miliardi di persone di centinaia di Paesi.
Dov’è caduto il Remain
Cameron non avrebbe mai immaginato in che labirinto si stava cacciando. Forse è stata la sua educazione patrizia da discendente di Re Guglielmo IV a ottundergli il sesto senso grazie al quale i veri leader avvertono gli umori del Paese. Dopo aver passato un decennio a distruggere, interdire e disprezzare tutto quanto sapeva di Europa (fino a bloccare nel 2011 l’inclusione del «fiscal compact» nei trattati europei), Cameron di colpo ha dovuto cambiare ruolo in campagna referendaria. Non è mai suonato credibile. Si è ridotto al «Project Fear», cercare di impaurire i suoi stessi elettori con le conseguenze economiche della secessione europea, incapace com’era di fornire una spiegazione positiva, plausibile e anche solo minimamente sentimentale sul perché anche gli inglesi hanno un destino europeo.
Né lui né i suoi si erano accorti di un rancore più profondo che stava mettendo radici nelle provincie del Regno. Dal 2004 sono cadute le clausole della Ue che limitavano la libera circolazione dei alcuni degli ultimi arrivati nel club: polacchi, ungheresi, cechi, slovacchi. Il centro studi Migration Watch in questi anni ha documentato, smentendo gli impegni del governo, una crescita dell’immigrazione che sta mettendo a nudo l’inadeguatezza di un sistema di welfare britannico martoriato dai tagli di Cameron e del suo ministro delle Finanze George Osborne.
Ai ritmi attuali nel Paese stanno entrando 330 mila stranieri all’anno e di questo passo nel 2018 due terzi delle autorità locali avranno carenza di posti per i bambini nelle scuole elementari. Per fare posto ai nuovi immigrati bisognerebbe costruire un appartamento nel Regno Unito ogni quattro minuti (anche colpa di politiche che limitano l’offerta per far crescere il valore delle case esistenti).
Dunque l’immigrazione è diventata l’arma contundente del fronte del Leave. Chi ha votato così, voleva soprattutto chiudere le frontiere. Eppure è successo qualcosa di strano: si sono schierate in massa con la Brexit soprattutto aree del Regno dove la presenza di stranieri è nettamente sotto la media: il Northumberland o Carlisle nell’Inghilterra del Nord o Boston e South Holland a Est (secondo il Migration Observatory di Oxford); al contrario si sono schierati molto di più per la permanenza nella Ue i distretti ad alta densità di immigrati, fra i quali tutta l’area centrale di Londra, Oxford e Cambridge. È una strana dissonanza. Fa pensare che il voto per il Leave contenga soprattutto un messaggio di malessere economico e di paura di chi si sente lasciato indietro, isolato in regioni un tempo industriali, mentre la Gran Bretagna si apre all’Europa e al mondo.
Dopo il divorzio
Il paradosso è che questo voto finirà per impoverire ancora di più chi già è più vulnerabile, e rischia di trattarsi di uno spreco drammatico. L’anno scorso per esempio il Regno Unito è tornato al record di 1,6 milioni di auto prodotte, raggiunto dieci anni fa, ma ora il settore rischia di crollare. Se Londra è fuori dal mercato interno europeo, le sue auto dovranno pagare un dazio del 10% per entrarvi e questo le metterà fuori mercato. L’indiana Tata ha già fatto capire che chiuderà degli impianti, Bmw rischia di fare altrettanto con le fabbriche della Mini.
Del resto lo sfondo è fragile: il debito totale dello Stato, delle imprese non finanziarie e delle famiglie in Gran Bretagna supera ancora il 300% del Pil e non è in calo malgrado una ripresa ormai nel suo settimo anno. Il Paese riesce a mantenere il suo tenore di vita solo prendendo in prestito dall’estero somme pari quasi al 5% del proprio reddito nazionale, ma con una sterlina ormai in caduta libera la Gran Bretagna troverà sempre meno creditori disposti a farle ancora fiducia. Per i ceti deboli, quelli che hanno creduto alle promesse del fronte del Leave, si prospetta una fase ancora più dura. Uscire dalla Ue significa per loro rinunciare anche ai requisiti minimi di protezione sociale sul lavoro che in Gran Bretagna prima non c’erano.
Il rapporto con l’Europa
È su questo sfondo che il nuovo governo dovrà ricucire un rapporto con l’Europa, qualunque esso sia. Il governo di Parigi e ancora più quello di Berlino non sono disposti a fare sconti. Se vorrà mantenere l’accesso al mercato unico da mezzo miliardo di consumatori, anche dall’esterno, Londra dovrà accettare il menù completo: inclusa la libera circolazione dei lavoratori dagli altri Paesi, proprio ciò che il referendum ha bocciato. Per questo adesso la Germania le offre solo un «accordo di associazione». Significa che la Gran Bretagna rischia di trovarsi tagliata fuori dal suo unico vero mercato di sbocco, con le banche della City e i fondi d’investimento privati del «passaporto» per operare con il resto d’Europa.
Nessuno se ne può rallegrare. È anche questo un sintomo di disintegrazione della struttura fondata con il Trattato di Roma nel 1957. È soprattutto un precedente destinato a creare nei mercati attesa per la prossima secessione di un altro Paese. Forse potrebbe convocare un referendum per l’uscita il leader populista olandese Geert Wilders, forse potrebbe farlo il governo nazionalista polacco. Di certo questa sindrome da declino colpisce in primo luogo i Paesi più fragili come l’Italia, soprattutto nei titoli azionari del settore finanziario che la Banca centrale europea non può proteggere. Non è un caso se nei corridoi di Bruxelles e nei mercati sia tornata l’ipotesi che l’Italia chieda prima o poi un sostegno leggero del Meccanismo europeo di stabilità per ancorare le proprie banche: ma è uno scenario che nessuno a Roma contempla.
La sua candidatura appariva più che impensabile, risibile Esattamente come sembrava pochi mesi fa l’uscita inglese dalla Ue di Vittorio Zucconi Repubblica 25.6.16
«E NON finirà qui» gongola Donald Trump dalle dune della Scozia dove ha aspettato giocando a golf l’esito del referendum britannico, assaporando l’euro harakiri britannico come l’auspicio del proprio possibile trionfo in America fra sei mesi. E ha ragione.
In quella nazione che gli americani chiamano giustamente “The Mother Country”, la terra madre che ha dato agli Stati Uniti due secoli or sono il proprio Dna culturale, politico, istituzionale, si è alzato quello stesso vento che ha gonfiato la ribellione e alimentato il rancore di milioni di elettori americani in Usa e lo ha portato a una candidatura del partito che fu di Lincoln e Reagan che appariva, ancora pochi mesi or sono, più che impensabile, risibile. Esattamente come impensabile era apparsa la diserzione inglese dalla Unione Europea al premier britannico Cameron, quando ebbe la infelice idea di convocare il referendum che lo ha travolto.
Nella apparente diversità che separa i grandi eventi elettorali degli ultimi giorni nelle democrazie occidentali — il voto massiccio per la estrema destra in Austria, le importanti vittorie delle candidate di Grillo in grandi città italiane, il netto successo del Brexit (52 a 48 in un referendum non è affatto un risultato “risicato”) e l’atteso boom di Podemos in Spagna domani — c’è un segno comune che oltrepassa le personalità dei politici vincitori e le distinzioni ideologiche e i programmi, spesso rudimentali o embrionale. Ed è il rifiuto dell’esistente. È la sentenza di condanna politica contro chiunque sia in questo momento al governo di nazioni, di città, o di partiti tradizionali.
Una generazione dopo il crollo del Muro di Berlino, quell’evento che ha rimescolato l’assetto di un mondo che era rimasto immobile dalla fine della guerra senza proporne uno alternativo, altri muri stanno crollando, sotto le picconate di una crisi che va ben oltre le cifre dell’economia, le catastrofi e le truffe del “Big Money”, della grande finanza e del neo nomadismo che la fine dei blocchi ha rimesso in moto: la crisi di identità. Milioni e milioni di cittadini, abbandonati nella terra di nessuno fra la fine dello Stato Mamma, il welfare state socialdemocratico ormai insostenibile che aveva sorretto l’Europa e le promesse mancate di un neo liberismo che ha arricchito i ricchi e improverito i poveri tra delocalizzazione e speculazione, vagano come profughi di un’ansia che si coagula nel rifiuto del presente, troppo angoscioso.
Su questo bisogno divorante di ritrovare un’identità — che nell’estremismo fanatico e violento trova addirittura nei criminali dell’Isis un rifugio identitario — nasce il desiderio umanissimo, e impropriamente chiamato irrazionale di tornare al “default”, al passato della propria condizione, vista come i bei tempi antichi. I britannici che hanno scelto il salto nel buio sognano che in fondo al precipizio ci sia la mitica “Britannia” che un tempo dominava gli oceani e garantiva a tutti la pinta di “ale” al pub, la sanità pubblica e la pensione, mentre altrove si immagina il ritorno alla purezza etnica fra le valli delle Alpi, all’orgoglio della “Marianna” gallica o a un’immaginaria Arcadia del proprio villaggio. In circoli sempre più piccoli, sempre più provinciali, sempre più isolati e isolazionisti, i demagoghi coltivano l’illusione di tornare “padroni a casa propria”, mentre i governi in carica balbettano.
Questo è il percorso che Donald Trump sta compiendo, la strada che il Gps degli umori velenosi del nostro tempo gli indica e che potrebbe condurlo diritto alla Casa Bianca.
Chiunque, anche un Farage, anche un Boris Johnson, anche una LePen, anche un Hofer, anche un Putin, anche giovani, simpatiche sindache paracadutate alla guida di città ingovernabili, e dunque anche un Trump, sembra a molti migliore di chi governa al momento. Una metà della cittadinanza vota non “per” qualcuno, ma contro, per dare una lezione, per testimoniare la propria disperazione, per “provare”.
La forza di Trump è precisamente la voglia di chi è pronto a saltare da un edificio in fiamme, pur di sfuggire al presente, che in America sichiama Hillary Clinton. Non è tanto l’innamoramento per “The Donald”, quanto l’allergia all’establishment incarnato da lei e che anche Bernie Sanders aveva intercettato. Lei è vista dai Trumpistas, e dai Sanderistas, come l’erede e la rappresentante del potere in atto e come la campionessa di forze estranee, di stranieri — la finanza, le banche, le grandi aziende, le istituzioni sovranazionali, “loro” — che si sono impadroniti della nostra bella, pura, violata e mutilata Patria. «Io sono americano, noi siamo americani, ah, americani, americani, come vi voglio bene americani» ha ripetuto e intonato Trump nel suo ultimo discorso sul suolo americano prima di partire per la “Terra Madre”, le isole britanniche, «e io rifarò grande l’America, restituendole la sovranità», come se gli Usa fossero colonia e non, semmai, colonizzatori. Non è dunque un programma politico razionale, è un grido di disperazione identitaria che sempre, nei momenti di sbandamento e di polarizzazione velenosa, gli incantatori lanciano. Sapendo che niente è più efficace, per chi si sente smarrito, reso anonimo dal tempo in cui vive, del messaggio fondamentale del nazionalismo: la rassicurante certezza che i nostri guai siano sempre colpa di altri.
LOGICA TRIBALEROBERTO TOSCANO
ANCHE se le Borse hanno lanciato segnali più che inquietanti, nessuno è in grado di misurare le conseguenze del Brexit. È certo che le conseguenze saranno ampie e profonde, sia nel Regno Unito che nella Ue.
SEGUE A PAGINA 25
SI POTREBBE anzi dire che il risultato del referendum britannico minaccia di rendere il Regno meno unito e solleva più di un dubbio sul fatto che la Ue sia davvero un’Unione.
Il Brexit apre infatti la via a una probabile richiesta di nuovo referendum scozzese sull’indipendenza, mentre la prospettiva che il confine fra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord diventi un confine reale va inevitabilmente nel senso di una riapertura della drammatica questione irlandese, che negli ultimi anni si era stemperata grazie alla comune appartenenza alla Ue di Regno Unito e Irlanda. (Per fare un parallelo fantapolitico ma concettualmente calzante, non vi sono molti dubbi su quali sarebbero le ripercussioni sulla questione altoatesina di un’uscita dell’Italia dalla Ue: il riaccendersi della spinta del Südtirol per il distacco dall’Italia e l’unione con l’Austria).
Certo, in tutto questo vi è molto di peculiare, di tipicamente inglese: la nostalgia per le perdute glorie imperiali, il profondo legame con le proprie abitudini e le proprie gerarchie sociali, e soprattutto l’originaria profonda riserva mentale nei confronti dell’Europa. Nelle ultime ore circola nella rete la ritrasmissione di uno sketch umoristico della popolare serie televisiva “Yes, Minister” in cui un funzionario del Foreign Office illustra con un effetto d’irresistibile comicità lo scopo fondamentale dell’adesione britannica al processo di integrazione europea: entrare per dividere, entrare per frenare, fra l’altro spingendo un ampliamento che, aumentando numero e disomogeneità dei paesi membri, non poteva se non produrre un rallentamento del processo.
Il paradosso è che una maggioranza di cittadini britannici ha espresso il proprio rigetto nei confronti di un’Europa ipotetica — centralista, dirigista, criptofederale — mentre l’Europa realmente esistente è oggi molto più vicina alla visione intergovernativa e neoliberale inglese piuttosto che al disegno dei Padri fondatori.
Sarebbe però pericolosamente consolatorio focalizzarsi esclusivamente sulle peculiarità della storia e della cultura britannica perdendo di vista il fatto che se è vero che il Brexit è effettivamente un colossale sconquasso per l’Europa, è anche vero che il rallentamento se non la regressione del processo di integrazione non è solo dovuto a Londra, e che il Brexit rivela, anche se in modo particolarmente clamoroso, tendenze che sono sempre più diffuse ben oltre il Canale della Manica.
Ha ragione Roger Cohen quando scrive, sul New York Times che la crisi dell’Europa riflette nello stesso tempo una crisi della globalizzazione, le cui grandi promesse si sono rivelate illusorie, e soprattutto hanno diffuso una sensazione di perdita di controllo e di emarginazione. Chi prende, e dove, le grandi decisioni sulle questioni che determinano la nostra esistenza, dall’economia all’ambiente, dalle migrazioni al terrorismo? Di fronte ad una diffusa sensazione d’impotenza e frustrazione i partiti tradizionali si sono rivelati incapaci di fornire prospettive credibili di partecipazione, soprattutto perché la globalizzazione è una realtà per quanto riguarda la finanza e la comunicazione, ma una pallida e poco credibile promessa per quanto riguarda la politica e la governanza. Questo è vero in particolare per l’Europa anche per quanto riguarda le sue conquiste più avanzate (rispetto alle quali, peraltro, il Regno Unito si è chiamato fuori): la moneta unica, non accompagnata da un fisco unificato e da una politica economica integrata, si è rivelata un grande esperimento di deregulation che, come ha dimostrato il caso greco, è sempre sull’orlo di una pericolosa perdita di controllo; Schengen ha di fatto eliminato le frontiere interne, ma mancano quelle regole condivise e quel controllo comune delle frontiere senza i quali risulta impossibile gestire i massicci flussi di rifugiati e migranti economici.
Di qui la spinta a rinchiudersi, a tornare indietro, a rimettere in pieno vigore frontiere e sovranità nazionale. Visioni molto più utopiche, vista la realtà del mondo contemporaneo, di quanto non lo sia il progetto europeista di un’unione sempre più stretta. Ma nei momenti di crisi e smarrimento è un fatto che il calcolo razionale venga travolto da spinte emotive fatte di paura, risentimento, ostilità. Se noi non controlliamo niente vuol dire che qualcuno sta controllando tutto. Se siamo afflitti da problemi, vuol dire che qualcuno ne è responsabile: i burocrati di Bruxelles; gli immigrati che vengono a rubarci il lavoro quando non a minacciare con il terrorismo la nostra stessa sopravvivenza fisica. E allora la salvezza si può solo cercare rivendicando una nostra forte identità culturale all’interno di confini invalicabili.
Si trattasse solo di una rinascita dei confini degli stati-nazione esistenti si tratterebbe certo di una regressione, ma non di una minaccia di destabilizzazione e conflitto. Si è invece messo in modo un processo di frammentazione la cui logica finisce per essere tribale. Mentre un po’ ovunque si respingono gli orizzonti di una globalizzazione che è nello stesso tempo problematica e inevitabile, nel nostro continente si diffonde un euroscetticismo che sempre più spesso diventa eurofobia. Ma il processo non si ferma qui, dato che sono le stesse realtà nazionali ad essere messe in discussione. Lo vediamo oggi in una serie di processi cui il Brexit minaccia di impartire una forte accelerazione, producendo una sorta di reazione a catena di carattere imitativo. Se la Scozia dovesse dichiarare l’indipendenza — una causa che oggi risulta rafforzata dalla maggioritaria volontà degli scozzesi di rimanere nella Ue — ne verrebbe molto rafforzata la già consistente spinta indipendentista catalana. Invece di una Spagna federale — una proposta che avrebbe potuto disinnescare, se fatta qualche anno fa, la sfida indipendentista — avremmo una Spagna spezzata, privata di una sua componente storicamente originaria e economicamente essenziale, senza parlare delle possibili ripercussioni sul rafforzarsi della spinta indipendentista basca, che oggi i sondaggi stimano a meno di un quarto dell’elettorato. È vero che, se gestito in modo consensuale e accompagnato dall’inserimento in un processo d’integrazione europea, il separatismo non dovrebbe farci paura: dopo la separazione cechi e slovacchi vivono benissimo insieme in un contesto europeo. Ma è proprio qui il problema. Se l’Unione invece di rafforzarsi s’indebolisce possiamo aspettarci, invece di una sdrammatizzazione dei nazionalismi, una loro esasperazione fatta di rivalità e ostilità reciproche rese inevitabili dal prevedibile fallimento dell’utopia della sovranità assoluta.
Contrariamente a quanto sostenuto dai fautori del Brexit e dagli altri euroscettici, oggi esilarati dal risultato del referendum britannico, non è l’Unione Europea a rendere impossibili forza e coesione dello stato nazione. Anzi, se saremo incapaci di gestire l’attuale drammatico passaggio, risulterà chiaro, anche se troppo tardi, che le loro sorti sono profondamente legate.
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UN ANNO PERDUTO NADIA URBINATI
LA lunga strada verso Brexit è cominciata insieme ai boat people e alle guerre civili che in questi ultimi anni hanno disintegrato paesi chiave del nord Africa e del Medio Oriente.
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INSIEME ai disperati che per mare e per terra cercano scampo dalla fame e dalle guerre cercando rifugio nella ricca Europa. Povertà e mancanza di sicurezza sono beni irrinunciabili e non negoziabili, beni assoluti che siamo disposti a cercare altrove quando non sono disponibili vicino a noi. Nella speranza di trovare porte aperte e non ermeticamente chiuse. La storia dell’Europa del nostro tempo è legata inscindibilmente con quella di questa speranza e di questa disperazione. Dunque: le frontiere sono uno dei fattori che dobbiamo tener presente se vogliamo cercare di capire Brexit.
A partire dalla scorsa estate l’Ungheria ha iniziato — prima tra i paesi europei — a installare barriere di filo spinato per chiudere le frontiere con i paesi balcanici, quasi a farsi porta blindata dell’Unione Europea. Nessuno glielo ha impedito. I paesi dell’Unione hanno criticato quella decisione ma non sarà nei loro poteri quello di intervenire perché le frontiere dell’Europa sono ancora le frontiere degli stati-membri. Un tentativo di politica comune con Frontex — di respingimento dei migranti e, in casi di emergenza, soccorso — e poi un accordo con la Turchia, un paese autoritario e lesivo delle libertà civili e dei diritti umani, per pattugliare le porte ad Est, verso la Siria e i paesi distrutti e destabilizzati dai governi americani con gli alleati occidentali. Le frontiere sono la questione geopolitica sulla quale l’Europa rischia di disintegrarsi. Nata per abbattere le frontiere interne (il prossimo anno si festeggerà il Trattato di Roma che riconobbe ai cittadini di paesi ex-nemici di muoversi oltre le frontiere dei loro stati d’origine) le frontiere sono la sua damnatio memoriae.
Chi ha più bisogno di frontiere, nel mondo globalizzato, è chi è più vulnerabile nella libera competizione delle merci e della forza lavoro, la merce che può essere comperata a bassissimo costo quando le frontiere sono aperte ai disperati della terra, disposti per vivere a salari da fame e al lavoro quasi servo, senza diritti. Tutto questo avviene in Gran Bretagna e in tutti i paesi europei — dove l’Unione non si è in questi anni di crisi infinita impegnata a non far sentire la paura delle frontiere aperte, dove, al contrario, si è speculato sulla mano d’opera serva (pensiamo al bracciantato nelle campagne del nostro meridione).
La responsabilità di Brexit esce dalle frontiere della Gran Bretagna dunque, e non è semplicisticamente imputabile all’irrazionalità di chi l’ha votata — i cittadini impoveriti e ridiventati poveri non hanno tanto interesse a che il loro paese tenga le frontiere aperte. Sarebbe un errore sottovalutare questa legge eterna: la libertà non sta insieme alla destituzione. L’Unione Europea non può per questo andare avanti, oltre Brexit, come se nulla fosse cambiato, come se Brexit non mettesse in discussione la sua miope politica di austerità. Il problema è quindi un problema di frontiere perché è un problema di opportunità sociale ed economica. In questo ultimo anno si è pensato che la costruzione del filo spinato non solo all’esterno dell’Europa ma anche dentro l’Europa fosse la soluzione — una soluzione nazionalista e populista. La risposta non può però venire dalla continuazione dello status quo: il problema dei rifugiati e il problema dell’erosione del benessere dei cittadini europei sono ineludibili e sono legati tra loro. Richiedono un governo politico però.
Il lungo anno di incapacità dell’Europa di trovare una politica comune sulle frontiere e sulle politiche sociali è stato tra i fattori che hanno fatto maturare il sentimento di chiusura in Gran Bretagna e altrove. Sarebbe urgente che in risposta a Brexit l’Europa mostrasse anche la faccia politica e costruttiva oltre a quella bancaria e restrittiva.
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Nel mondo globalizzato chi ha più bisogno di frontiere è chi è più vulnerabile nella libera competizione delle merci
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