venerdì 1 luglio 2016

Tempi interessanti: destra, sinistra e UE. Brexit, la Cina e la Russia


Il fronte di chi vuole rompere l'Unione Europea è larghissimamente egemonizzato dalle destre di ogni tipo, da quelle retro a quelle postmoderne.
Ma dalle destre è egemonizzato in maniera altrettanto ampia il fronte di chi l'Unione Europea vuole mantenerla.
Lo scontro è dunque prevalentemente tra due costellazioni di destra, tra le quali quella neoliberale è in questa fase la più pericolosa, senza che questo sia un obbligo a perseguire il male minore.
A differenza della fase della costruzione degli stati nazionali, la vittoria delle forze borghesi più evolute (quelle internazionaliste) sugli interessi dei ceti proproetari più arretrati non comporta un progresso generale, perché questa loro affermazione abbatte non l'Ancien Regime ma la democrazia moderna come equilibrio relativo dei rapporti di forza tra le classi. E la sostituisce oltretutto con rapporti di produzione più squilibrati, senza che ciò comporti a parziale risarcimento un passo in avanti nella costruzione dell'essenza umana generica.
D'altro canto il fronte degli interessi reazionari (alla lettera), che mobilita oggi anche i ceti popolari privi ei coscienza, organizzazione autonoma e rappresentanza, si ribella alla sottomissione al capitale sovranazionale ma non mette in discussione nemmeno per un momento, da parte sua, il proprio dominio sulle classi subalterne. Del quale vorrebbe invece perpetuare la sostanza e le forme, sommandovi lo sfruttamento della forza lavoro migrante. Esso non è certo rappresentabile come borghesia nazionale, dunque.
In ogni caso, di un fronte che abbia a che fare con la sinistra e che rappresenti le ragioni dell'emancipazione e dell'uguaglianza non c'è neanche l'ombra, né da una parte né dall'altra.
Da ciò si capisce oltretutto perché il Nuovo Fronte anticapitalista proposto dal Mito Transpolitico è del tutto immaginario.

Anche sul piano strutturale il conflitto non è perciò solo tra classi dominanti e subalterne ma in primo luogo all'interno di ciascuna classe.
Inutile fare il tifo o applicare in maniera meccanica e religiosa schemi di una fase incommensurabile.
Tempi interessanti per gli studiosi, tempi di confusione per la politica [SGA].


L’economista Piketty: la Brexit non è un voto contro la Ue ma contro l’immigrazione e i mercati che creano diseguaglianze
“Il capitalismo ha bisogno di regole per tornare al servizio della collettività” di Anais Ginori Repubblica 2.7.16
PARIGI. «Più che un voto contro l’Europa, la Brexit esprime soprattutto un segnale contro l’immigrazione e la globalizzazione». Grazie ai suoi studi sulla storia del debito e delle disuguaglianze, Thomas Piketty inquadra il nuovo terremoto che ha scosso l’Unione europea in un contesto più ampio di disaffezione per l’ideologia della libera circolazione e un sintomo della crisi del capitalismo. «Una tendenza internazionale nella quale però l’Europa ha le sue responsabilità» spiega l’economista francese, autore de “Il Capitale del XXI secolo”.
La Brexit rappresenta anche la fine di un ciclo della globalizzazione?
«Si avverte sempre di più la necessità di una regolamentazione del capitalismo. Abbiamo bisogno di istituzioni democratiche forti che possano limitare la crescita delle disuguaglianze, e rovesciare il rapporto di forza. La potenza del Mercato e dell’innovazione economica deve essere messa al servizio dell’interesse generale. E’ sbagliato pensare che tutto si risolve in modo naturale. Lo abbiamo visto in passato ».
Quando?
«Nel primo ciclo della globalizzazione, tra l’Ottocento e il 1914, quando la fede cieca nell’autoregolazione dei mercati ha provocato disuguaglianze, tensioni sociali, crescita dei nazionalismi, fino alla guerra mondiale. Dopo, c’è stata una fase storica nella quale le élite occidentali hanno avviato riforme sociali, fiscali, mettendo un freno alle disparità. A partire dagli anni Ottanta, siamo entrati in una nuova fase di deregulation legata a diversi fattori, tra cui le rivoluzioni conservatrici anglosassoni, la caduta dell’Urss».
Non vede nessun segnale di autocritica?
«Purtroppo la crisi del 2008 non ha prodotto alcun cambio sostanziale. Resta la fede nell’autoregolazione dei mercati e nella “sacra” libera concorrenza, nonostante le disuguaglianze provocate. Se non si riuscirà a dare una risposta con politiche progressiste resterà la tentazione di trovare dei capri espiatori: il polacco nel Regno Unito o il messicano negli Stati Uniti. Ci saranno sempre responsabili politici che cavalcheranno questi sentimenti».
Come Donald Trump o Marine Le Pen?
«Molti dei leader populisti e xenofobi appartengono a categorie di privilegiati che spiegano alle classi popolari bianche che i loro nemici non sono i miliardari bianchi, bensì altre classi popolari nere, immigrate, musulmane. E’ un modo di distorcere l’attenzione dai problemi del sistema capitalistico ».
Cosa fare contro il ritorno dei nazionalismi?
«Il quadro in Europa non è così nero. Rispetto agli Stati Uniti o alla Cina, continuiamo ad avere un modello sociale di sviluppo molto più soddisfacente. Al tempo stesso, l’Europa soffre di una frammentazione politica, con Stati-nazione ancora in competizione gli uni con gli altri. All’interno dell’Ue c’è un dumping sociale, fiscale. L’esempio più evidente è la mancata volontà di unificare l’imposta sulle società. Le classi medie hanno l’impressione che i più privilegiati pagano meno di loro. Queste disuguaglianze alimentano i populismi di destra e la nascita di movimenti come Podemos o Syriza».
Perché ha accettato di lavorare come consigliere di Podemos?
«Pablo Iglesias o Alexis Tsipras non sono perfetti ma sono molto meno pericolosi dei nazionalisti polacchi o ungheresi. Basta vedere gli sforzi che la Grecia fa per accogliere i rifugiati. Nel caso della Spagna ci vorrebbe un atto di coraggio, ovvero una moratoria sul debito pubblico, per invertire tendenza su crescita e disoccupazione. Solo così Psoe e Podemos potrebbero formare un governo. E ci sarebbe un cambio di maggioranza politica nell’Unione. La Francia, l’Italia e la Spagna rappresentano insieme il 50% del Pil rispetto al 27% per la Germania».
Perché ha interrotto la collaborazione con il leader laburista Jeremy Corbyn?
«Non avevo tempo di partecipare alle riunioni. Nessun legame con la campagna sulla Brexit. In sei mesi, non sono mai riuscito ad andare agli incontri del Labour. Nel caso di Podemos, sono stato invece più volte a Madrid. Pablo Iglesias è anche venuto a Parigi».
Ha contatti con partiti italiani? Potrebbe collaborare con il Movimento 5 Stelle?
«No, francamente non credo proprio. Ho invece parlato con alcuni collaboratori di Matteo Renzi, soprattutto per esprimere il mio scetticismo. Sulla riforma dell’eurozona, speravo che Renzi fosse più ambizioso. Invece si è accontentato di qualche aggiustamento marginale».
Forse perché la Germania è inflessibile su certi punti?
«Se l’Italia, la Francia e la Spagna mettessero sul tavolo un proposta di unione politica e finanziaria con un parlamento dell’eurozona competente sul livello di deficit e sulla ristrutturazione dei debiti sovrani, allora la Germania non potrebbe mettere i bastoni tra le ruote. Invece la Francia non ha fatto niente per l’Europa del Sud, assecondando la Germania per avere gli stessi tassi d’interessi. Mentre Berlino continua ad avere un atteggiamento insopportabile».
A quale atteggiamento si riferisce?
«Avere l’8% del Pil di eccedenza nella bilancia commerciale non serve a niente. La Germania deve investire nel paese e aumentare i salari. Già durante la prima fase globalizzazione la Francia e il Regno Unito avevano accumulato per decenni eccedenze commerciali. Un’aberrazione. L’unico motivo, più o meno esplicito, è una volontà di dominazione su altri paesi. E’ una patologia della globalizzazione che purtroppo si ripete adesso».

«Attenzione, c’è il rigetto di tutto l’establishment politico»
Guntram Wolff, economista, è il direttore dell’Istituto Bruegel di Bruxelles, e uno dei più autorevoli osservatori di cose europee: Prima la Brexit, poi l’annuncio del secondo voto in Austria, subito dopo l’estate. Che cosa rischia l’Unione Europea? intervista di Luigi Offeddu Corriere 2.7.16
«In molti Paesi c’è una sensazione generale: il rigetto di ogni establishment politico. E questa è una minaccia presente non solo in Europa, ma in tutto il mondo occidentale, anche negli Usa con la possibile vittoria di Donald Trump».
Guntram Wolff, economista, è il direttore dell’Istituto Bruegel di Bruxelles, e uno dei più autorevoli osservatori di cose europee: l’Ecofin o i Parlamenti tedesco, inglese e francese come quello Ue lo chiamano spesso per ascoltare i suoi pareri.
Come può reagire l’Ue a questa minaccia?
«Deve dimostrare i suoi valori, e questo non può essere fatto soltanto con fatti economici. L’Ue deve mostrare che sa affrontare meglio problemi concreti e attuali come l’immigrazione, il controllo delle frontiere, la disoccupazione, i fondi europei. Deve raggiungere il cuore della gente, saperle parlare. Ci vuole più leadership, ci vuole una miglior comunicazione».
E sul piano economico?
«È necessario subito uno stimolo agli investimenti pubblici, pari all’1-2% del Pil nel Nord Europa, per esempio in Germania, Francia, Olanda. E allo 0,5-1% al Sud, per esempio in Italia».
A proposito dell’Italia, che cosa può o deve fare a sua volta?
«Qualcosa di assolutamente imperativo: risolvere i suoi problemi nel sistema delle banche, ripulirlo. Pena conseguenze negative per l’economia, o l’occupazione. Poi, il problema fondamentale da 20 anni, quello della crescita: il sistema dei salari non è adattato allo sviluppo della produttività. Ma se non si risolvono i problemi della corruzione e del crimine organizzato, specie al Sud, laggiù il problema resterà».
Torniamo all’Ue. Per qualcuno quest’ultima è una sfida più grande di quella portata dalla caduta del Muro…
«Forse. Una cosa è certa: la crisi del 2008, la cui minaccia immediata è stata superata, colpì l’establishment economico; questa volta, come si diceva, c’è il rigetto di quello politico… Eppure, razionalmente l’Ue è una parte della soluzione del problema: per esempio, se non ci fosse l’Ue, l’immigrazione verrebbe affrontata meglio? Io non credo proprio, tutto sarebbe anzi più difficile».
Questa crisi ci ha insegnato comunque qualcosa, ci sono dei casi esemplari da tener presenti, in positivo o in negativo?
«Certo. Guardiamo per esempio alla Gran Bretagna: le regioni che pochi giorni fa più hanno sostenuto la scelta della Brexit, l’addio all’Unione, sono state quelle colpite economicamente per vent’anni dal declino industriale. Mentre in Germania la Ruhr, regione delle miniere e dell’acciaio che da ragazzo io ricordo anch’essa colpita da una pesante crisi, si è reinventata: lo ha fatto con la cultura, con le industrie creative, e oggi possiamo dire che è una regione relativamente a posto».
COLPO ALL’ORDINE MONDIALE MOSCA E PECHINO I VINCITORI 
Maria Serena Natale Corsera 1 7 2016
«La Brexit potrebbe rivelarsi la più grande minaccia all’ordine mondiale postbellico che abbiamo visto finora». Ian Bremmer, analista americano specializzato nella valutazione dei rischi geopolitici, inquadra l’allontanamento di Londra dall’integrazione europea in una traiettoria precisa: la disgregazione della democrazia sovranazionale. 
L’uscita del Regno Unito dalla Ue non è il primo trauma che le democrazie occidentali devono affrontare. Perché è più grave di altri? 
«È il terzo grande colpo agli assetti globali dopo la reazione sproporzionata degli Stati Uniti agli attentati dell’11 settembre 2001 e la crisi finanziaria del 2008. Rischia di essere il più dannoso perché oggi l’America è più debole e le conseguenze dureranno anni, con il pericolo di innescare un domino di consultazioni in altri Paesi europei e, sul versante interno, portare alla dissoluzione del Regno Unito. In assenza di un architetto dell’ordine globale, è destinato a prendere il sopravvento il modello economico, politico e culturale cinese, secondo il quale la priorità non è più stringere e potenziare alleanze diplomatico-istituzionali ma sviluppare e mettere a frutto le relazioni commerciali». 
È un processo reversibile? 
«L’Europa che conoscevamo, intesa come nucleo di valori e obiettivi comuni, è tramontata. Andiamo invece verso un’Europa delle transazioni, incentrata sul mercato comune con funzioni limitate e livelli d’integrazione rivisti al ribasso. La vittima della Brexit è l’approccio alle relazioni interstatali fondato sull’idea di integrazione sovranazionale». 
Come incide la rinuncia di Boris Johnson alla leadership conservatrice sulla forza negoziale del Regno Unito con l’Unione Europea in questa fase? 
«Il paradosso è che per Johnson sarebbe stato più agevole trattare con l’Europa sul tema cruciale dell’immigrazione, perché la sua linea è sempre stata meno radicale rispetto agli aspiranti leader come Michael Gove. Ma l’ex sindaco di Londra è una mina vagante che ha provocato una polarizzazione estrema nelle dinamiche politiche legate al referendum, sia a casa che all’estero. Ai fini del delicato negoziato che si apre ora con Bruxelles, per gli interessi britannici è meglio che abbia rinunciato». 
La Brexit altera anche i rapporti di forza tra l’Europa e la Russia di Vladimir Putin? 
«L’approccio russo è diverso da quello cinese: più che a quella economica, Mosca punta alla supremazia militare. Un’Europa più debole facilita il ricorso alla strategia del divide et impera e l’assorbimento delle vecchie zone d’influenza, dal Medio Oriente all’Europa orientale». 
La Gran Bretagna ha sempre controbilanciato le ambizioni franco-tedesche di egemonia continentale, come si riconfigura ora il rapporto tra Parigi e Berlino? 
«Negli ultimi settant’anni la relazione bilaterale non è mai stata tanto fragile, indebolita da tensioni nazionaliste che si fanno sentire soprattutto dal lato francese, mentre l’approccio tedesco resta più pragmatico. Immaginiamo solo cosa accadrebbe con Marine Le Pen presidente, crescita rallentata, tensioni sociali in aumento. E in tutto questo, i britannici fuori dalla partita».

Brexit, il tempo degli sciacalli Brexit. Intanto si comincia a stilare l’inventario del possibile bottino proveniente dal sacco di Londra. Apre le danze Easy jet che, per non rischiare di perdere i diritti di volo comunitari, si è messa alla ricerca di una sede europea dove trasferire la sua base londinese. Virgin e Ryanair potrebbero seguire. Il settimanale tedesco der Spiegel elencava l’altro ieri una succulenta serie di possibili migrazioni finanziarie e imprenditoriali post Brexit Marco Bascetta Manifesto .7.2016, 23:59
Londra non si è fatta in un giorno e in un giorno non si smonterà. Neanche in qualche decennio. E, tuttavia, il tempo degli sciacalli ha già visto sorgere la sua alba. Prima ancora di sapere il corso, tutt’altro che lineare, che prenderà l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea e la natura dei futuri rapporti tra Londra e il vecchio continente, gli ex partner già si contendono le presunte spoglie della City.
Con l’eleganza di un branco di lupi e con la serietà di un avanspettacolo. Renzi e Sala non perdono tempo. Già favoleggiano di ravvivare il transatlantico spiaggiato di expo e la spiaggia sepolta di Bagnoli con le schegge prodotte dall’esplosione immaginaria della più grande piazza d’affari d’Europa. Ma, se sono tra i più ridicoli, non sono certo i soli.
Numerosi candidati si fanno avanti con ambizioni ancora più spudorate di soppiantare la City londinese. Gli imbonitori imperversano sulla rete, sulla stampa, nei circoli padronali e perfino nelle cancellerie, promettendo il paese della Cuccagna finanziaria. Dublino offre la lingua, la vicinanza e una solida atmosfera liberista, ma le sue infrastrutture lasciano a desiderare. Francoforte (che ha peraltro il difetto di appartenere alla già troppo potente Germania) consente di prendere il caffè con Mario Draghi e di mettere direttamente il naso negli umori della Bce, ma non basteranno certo le ragazze in vetrina della Kaiserstrasse, in una città che nelle ore notturne tende al deserto, ad allietare la vita dei manager della finanza. Più mortalmente noioso c’è solo il Lussemburgo che vanta, tuttavia, una sperimentata spregiudicatezza nel render la vita facile a capitali e fondi d’investimento, nonché una discreta tradizione gastronomica. Resta l’indubbio fascino della Ville lumière, ma sempre troppo turbolenta e dove il computer continua tenacemente a chiamarsi ordinateur.
Tuttavia, sebbene il glamour abbia il suo peso, è sul terreno fiscale che la competizione si fa più aspra e concreta. Gli sciacalli fanno a gara nell’offrire a banche, imprese, multinazionali e società finanziarie gli sconti fiscali più mirabolanti. A pagare le infrastrutture e le “grandi opere” di cui abbisognano provvederanno comunque i contribuenti. Si rivela in questa frenetica e indecente competizione per la “pelle dell’orso” la vocazione di tutti i paesi dell’Unione a trasformarsi, selettivamente e ufficiosamente, nei tanto deprecati “paradisi fiscali”. In questa materia non ci sono regole comuni o principi condivisi se non quello della competizione senza esclusione di colpi, né preoccupazioni di equità nel blandire poteri fuoriusciti da qualsiasi patto sociale.
Intanto si comincia a stilare l’inventario del possibile bottino proveniente dal sacco di Londra. Apre le danze Easy jet che, per non rischiare di perdere i diritti di volo comunitari, si è messa alla ricerca di una sede europea dove trasferire la sua base londinese. Virgin e Ryanair potrebbero seguire. Il settimanale tedesco der Spiegel elencava l’altro ieri una succulenta serie di possibili migrazioni finanziarie e imprenditoriali post Brexit.
Vodafone ci starebbe seriamente pensando; Goldman Sachs prevede lo spostamento di 6500 posti di lavoro; Lloyds Bank si accingerebbe a chiudere 23 filiali in Gran Bretagna; Morgan Stanley intende dislocare 2000 posti tra Dublino e Francoforte, Visa 1000 posti e il suo centro dati in altro paese europeo; JP Morgan si propone di ricollocare altrove dai 1000 ai 4000 dipendenti; Siemens, Ford e Airbus intendono riesaminare i propri piani di investimento nel Regno unito. Insomma non sarebbe solo il proverbiale “idraulico polacco” a fare le valigie. Quanto di vero o di strumentale ci sia in queste dichiarazioni di intenti non influisce affatto sull’appetito manifesto dei governi europei che stringono ancora in mano i capelli strappati per il dramma della Brexit.
Tutti questi spostamenti, qualora dovessero effettivamente accadere, non inciderebbero granché sui livelli occupazionali dei diversi paesi in lizza per spartirsi il bottino britannico. Qualche migliaio di operatori finanziari non modificano di certo l’economia di un paese e l’atteso “indotto” si rivela in genere poco più di un miraggio. In un banale sistema di vasi comunicanti i posti di lavoro sottratti a un paese si ripresentano, sovente ridotti e meno tutelati, in un altro, dove le condizioni dell’accumulazione appaiono più favorevoli. Che si tratti di colletti bianchi o di colletti blu nulla cambia nella sostanza. E,in linea di principio, non è cosa di cui gioire.

Il solco profondo sull’Europa tra le élite e il mondo reale
di Ernesto Galli della Loggia Corriere 30.6.16
Per antica consuetudine gli intellettuali europei — specie quelli di sinistra, da settant’anni in strabocchevole maggioranza — sono molto bravi nel trovare i termini appropriati per designare le cose che non piacciono usando il marchio dell’infamia ideologica. Questa volta è stato Bernard-Henri Lévy che non si è lasciato scappare l’occasione fornitagli dalla vittoria inglese della Brexit. I cui fautori, ai suoi occhi, non sono altro che «populisti», «demagoghi», «ignoranti», «cretini», seguaci più o meno inconsapevoli di tutto ciò che c’è di peggio al mondo.
Da Le Pen a Putin a Trump, «nuovi reazionari», «incompetenti», «volgari» «sovranisti ammuffiti» (termini testuali che traggo da un articolo del nostro sul Corriere di lunedì scorso).
Mi chiedo come sia possibile, con tutto quello che sta succedendo, non rendersi conto che proprio pensando, dicendo e scrivendo da anni, a proposito di parti sempre crescenti delle opinioni pubbliche del continente cose come quelle scritte da Lévy, non rendersi conto, dicevo, che proprio in questo modo le élite intellettuali (e politiche) europee sono riuscite a scavare tra sé e le opinioni pubbliche di cui sopra un solco profondo di avversione e di disprezzo. A rendersi insopportabili con la loro sicumera e la loro superficialità.
Prendiamo una delle accuse più ripetute, quella di «sovranismo». Che cosa vuole dire? Chi la muove ne dà regolarmente un’interpretazione che più negativa, anzi odiosa, non si potrebbe. Sovranista, secondo questa accusa, vorrebbe dire che vogliamo e dobbiamo contare solo «noi», che conta solo quello che ci fa comodo, che nessuno deve venire a disturbare la nostra vita quotidiana, le nostre abitudini perché tutto ciò che non ne fa parte ci mette paura e lo sentiamo come una minaccia alla nostra tranquillità. Insomma qualcosa a metà tra un «borghese piccolo piccolo» e uno xenofobo, tra Alberto Sordi e Himmler.
Ma dentro il termine sovranismo non è forse contenuto il concetto di sovranità, quella cosa che il primo articolo della Costituzione (certo della «nostra» Costituzione, quella italiana, ma a quale altra dovremmo fare riferimento?, è forse indice di «nazionalismo» riferirsi ad essa?) «appartiene al popolo»? Dunque è al «popolo» o no, è agli elettori o no che spetta l’ultima parola sulle cose importanti che li riguardano? e ai primissimi posti tra questi non c’è forse la costruzione europea? E se questa con i trattati di Maastricht , di Lisbona e con la moneta unica, ha previsto la cessione proprio di parti rilevantissime della sovranità, è davvero così assurdo pensare che il popolo avrebbe dovuto, o debba, dire la sua? E perché mai, poi, se la richiesta di un referendum su un simile argomento la propone David Cameron — così com’ è effettivamente accaduto, ma come troppo facilmente ci si dimentica — allora tanti come Bernard-Henri Lévy non trovano nulla da ridire e osservano il più scrupoloso silenzio, ma se invece il medesimo referendum lo chiede un partito che a loro dispiace allora apriti cielo, è il populismo che stende i suoi tentacoli, la demagogia che vuole sostituirsi alla democrazia?
Quello di Lévy è solo un esempio tra i moltissimi. In tutti gli anni trascorsi, infatti, troppa parte dell’intellettualità europea, e proprio quella più autorevole o legittimata — a cominciare dal giornalismo e dall’intellettualità economico-giuridica, in mille modi legata a filo doppio al potere politico-statale e alle «occasioni» offerte da Bruxelles — ha chiuso gli occhi o ha troppo debolmente eccepito sulle incongruenze o sulle vere e proprie forzature che hanno caratterizzato il cammino dell’Ue. Ha fatto proprio con troppa docilità il politicamente corretto che faceva tutt’uno con l’europeismo ufficiale, spesso, tra l’altro, largamente foraggiato dalla stessa Bruxelles.
È accaduto precisamente così che l’ insoddisfazione che andava crescendo nell’opinione pubblica di molti Paesi del continente, vedendosi impossibilitata ad accedere al circuito della discussione pubblica qualificata e ostracizzata dai media ufficiali, vedendosi regolarmente ridicolizzata e pubblicamente apostrofata con i peggiori epiteti, sia andata sempre più radicalizzandosi, sempre più caricandosi di astio , diciamolo pure, spesso sempre più incarognendosi, dando vita alla difficilissima situazione attuale. Con l’Unione a pezzi, i sistemi politici di mezza Europa alle corde, le loro élite boccheggianti e delegittimate. Non c’è che dire: gli aedi della democrazia possono essere soddisfatti.

Il nobel Angus Deaton: “Assurdo che gli svantaggiati sostengano Trump e Farage”
“Il mercato libero sarà odiato dai poveri finché aumenterà le disuguaglianze” intervista di Eugenio Occorsio Repubblica 1.7.16
ROMA. Globalizzazione e diseguaglianze, due facce della medaglia. Come valorizzare la prima senza accentuare le seconde, un’equazione intorno alla quale si scervellano da anni economisti di tutto il mondo. E la missione di una vita per Angus Deaton, classe 1945, nato a Edimburgo e oggi docente a Princeton dopo aver insegnato a Cambrige e Brixton, che grazie ai suoi studi sulla povertà e le ingiustizie insite nella globalizzazione ha vinto il Nobel per l’economia nel 2015. «Quello che non riesco a spiegarmi, che non mi dà pace, è che a favore della conservazione più retriva, da Farage a Trump, si siano schierate le fasce più svantaggiate, dagli abitanti di Tower Hamlets, il distretto degli immigrati di Londra dove il 30% dei bambini vive sotto la soglia di povertà, a quelli di Sunderland, una cittadina che grazie alla globalizzazione vive quasi esclusivamente in virtù di una fabbrica della Honda».
Lei ha conservato la doppia cittadinanza: ha votato?
«Macché. C’è una strana legge nel Regno Unito che impedisce di votare agli expat che vivono da più di 15 anni all’estero. La legge viene bypassata di solito con misure ad hoc del governo. Stavolta, niente. L’ennesimo autogol di Cameron. Ero sicuro di poter votare Remain».
Come la maggior parte dei suoi connazionali scozzesi.
«La Scozia ha legami con l’Europa più forti dell’Inghilterra, pensi solo che prevale la religione cattolica. Ha anche una tradizione illuministica di rispetto. Ma a parte la Scozia, il pericolo è quello di tornare a un’Europa divisa e preda dei nazionalismi come all’inizio del Novecento. Roba da rabbrividire. Vede? Stiamo qui a parlare di scenari di guerra, mentre l’Europa è nata dalla pace e per la pace».
La Brexit avrà effetti sulla globalizzazione?
«Innanzitutto non sono sicuro che la Brexit ci sarà. Anzi. Ci sono tante circostanze che possono evitarla che, a mio giudizio, alla fine non se ne farà nulla. Certo, se invece si andrà fino in fondo, il colpo alla globalizzazione sarà pesante, per la semplice ragione che ci sarà un brusco calo degli interscambi commerciali e quindi un rallentamento dell’economia mondiale. Al quale si accompagnerà una riduzione dei movimenti di personale qualificato all’interno dell’Europa, che è un fattore trainante della crescita. L’incertezza continuerà a lungo, il che è un male per tutti. Meno soldi saranno in circolazione e su di essi si avventeranno con maggior cupidigia i soliti già ricchi e potenti».
Potrebbe essere un’occasione per ripensare ai tanti errori in tema di diseguaglianze?
«Veramente sarebbero accentuate. Ma la realtà è difficile da prevedere. La Gran Bretagna è diventata, dai tempi della Thatcher, il terreno di coltura europeo delle diseguaglianze. In altri Paesi, dalla Scandinavia al Mediterraneo, la situazione è meno drammatica. Ma la Gran Bretagna sembra aver preso il peggio dall’America, campione mondiale delle diseguaglianze. Londra ha ora abbinato questa leadership negativa a una imperdonabile insofferenza contro gli immigrati. Nel mondo occidentale si diffonde anziché ridursi quello che Thomas Piketty chiama “capitalismo patrimoniale”: sono i ricchi a fare le leggi, a loro beneficio. Si innescano reazioni a catena, e la stessa democrazia finisce col soffrirne perché si diffonde la sensazione che il proprio voto non conti nulla per modificare la situazione. Da diseguaglianza nasce diseguaglianza: oltretutto questo rallenta la crescita mondiale e riduce le possibilità che la globalizzazione sia davvero un fattore di sviluppo. Se a dominare il quadro restano i ricchi, finisce che lo stesso welfare state ne soffre perché ai ricchi non interessa la copertura assicurativa pubblica. Vede perchè sono interconnesse globalizzazione e diseguaglianze? » Lei “nasce” matematico. Quali sono i conti attuali delle diseguaglianze?
«Ho combattuto battaglie strenue perché l’occidente non si facesse illusioni. Nel 2011 la Banca Mondiale mi ha finalmente ascoltato e ha portato da un irrealistico dollaro al giorno a 1,90 la soglia di povertà. Di colpo i poveri balzarono da 1,3 a 1,8 miliardi, oggi fortunatamente si sono ridotti, secondo questo standard, a 887 milioni. Un numero ancora gigantesco, inaccettabile. Il benessere e l’egoismo dei pochi al top sono una minaccia alla sopravvivenza di tutti gli altri».
Nel suo ultimo libro The Great Escape (“La grande fuga”, pubblicato in Italia dal Mulino nel 2015) lei racconta proprio la disperazione e l’inarrestabilità di questa marea umana che si riversa da sud a nord.
C’è qualche rimedio? Forse gli investimenti in loco proposti dall’Italia con il migration compact?
«Vede, mandare incentivi a quei Paesi ha avuto certo grandi effetti positivi. In India quattro quinti delle donne vanno a scuola, delle loro madri solo la metà. Un bambino dell’Africa sub-sahariana ha più possibilità di arrivare al suo primo anno di vita di quante non ne avessero i figli dei minatori dello Yorkshire, qual era mio padre, un secolo fa (sia il nonno che il padre di Deaton lavoravano nella miniera di Thurcroft, una delle più pericolose, chiusa nel 1991, ndr). Il problema è che spesso i fondi di solidarietà indirizzati nei Paesi più disagiati del pianeta - e parliamo di aiuti dell’ordine dei 100 miliardi annui - o rispondono a interessi dei donatori o finiscono nelle tasche di qualche potentato locale senza arrecare benefici adeguati alla popolazione interessata. La globalizzazione sana è un’altra cosa, e potrebbe essa sì contribuire al riscatto di quelle aree: dovrebbe preoccuparsi di diffondere sia infrastrutture di base come autostrade o linee telefoniche, che conoscenza e formazione. È un vero prendersi cura con partecipazione delle vicende del resto del mondo, anche le più imbarazzanti. E non lasciare che il destino degli individui sia affidato al caso. Finché la vita offrirà opportunità o fortune che non tutti possono afferrare, il progresso creerà fatalmente diseguaglianze, e non distribuirà equamente la possibilità di vivere a lungo con tranquillità. E altrettanto imperfetta sarà la globalizzazione».

L’abbraccio fra Peppone e don Camillo
Giovanni Sabbatucci  Busiarda 1 7 2016
Ieri a Verona migliaia di agricoltori sono scesi in piazza per chiedere al governo la revoca delle sanzioni imposte contro la Russia, a seguito della crisi ucraina di due anni fa. Non stiamo evocando scenari da Anni Cinquanta: a difendere, con i propri interessi di esportatori, la causa degli eredi dell’Urss non sono le organizzazioni contadine dell’Emilia rossa. Sono gli agricoltori del Veneto, già «Vandea bianca» d’Italia, inquadrati dalla Coldiretti, a suo tempo insostituibile collettore del consenso a favore della Dc.
Fin qui la notizia, utile per ricordarci quanto forte sia il peso degli interessi costituiti al di là di ideologie e politiche statali (e quanto sia cambiata l’Italia dai tempi di Peppone e don Camillo). Ma sbaglieremmo se ci limitassimo a registrarla come una curiosità tutta nostrana. Troppi sono gli elementi che la collegano ad altri episodi, tutti convergenti nel mettere in luce il ruolo della Russia di Putin come punto nodale di reti di interessi e di alleanze trasversali tra forze politiche di paesi diversi.
Evidente, innanzitutto, è il rapporto di stretta amicizia (supportata in qualche caso da sostegno finanziario) che lega la Russia ai movimenti populisti di destra attivi in Europa occidentale: in testa il Front national di Marine Le Pen e la Lega di Matteo Salvini, senza trascurare gli antieuropeisti britannici, fautori della Brexit. Ma ancora più inquietante, anche per i ricordi che suscita, è l’affinità ideale che viene emergendo con alcuni regimi nazional-conservatori dell’Est Europa, magari gli stessi che chiedono alla comunità occidentale protezione militare contro l’egemonismo russo: il tutto nel nome di quella «democrazia illiberale» teorizzata in positivo già qualche anno fa dal premier ungherese Viktor Orban.
Siamo per fortuna ancora lontani dal disegno di un’Internazionale dei regimi nazional-autoritari in stile Anni Trenta (più corretto sarebbe semmai l’accostamento con i «grandi giochi» delle potenze nell’età dell’imperialismo). E non è nemmeno plausibile l’idea di una nuova cortina di ferro calata sull’Europa dal Baltico all’Adriatico. Ma dobbiamo comunque ricordare che la democrazia liberale così come l’abbiamo conosciuta e praticata non è una conquista irreversibile. E che, quando emergono linee di frattura sulle grandi questioni di principio, è sempre bene non farsi trovare dalla parte sbagliata. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI



all’indomani della brexit
le due europe che possono convivere per rilanciare l’Unione di Antonio Armellini Corriere 1 7 2016
Molti fra i promotori della Brexit ora ammettono che erano in cuor loro convinti di non farcela: si rendono conto del pasticcio che ne è risultato e cercano di premere sul freno di un disastro ampiamente annunciato. I tentativi di invertire in qualche modo la rotta non sembrano destinati ad andare lontano; l’ondata della protesta contro i meccanismi della politica tradizionale ha travolto entrambi i partiti lasciando il bipolarismo britannico esposto a tensioni che potrebbero paralizzarlo a lungo. Per Londra si apre una stagione di grande incertezza ma le cose sono cambiate per tutti e i Ventisette devono decidere il da farsi.
L’art. 50 — che dovrà regolare il divorzio da Londra — è di una impressionante complessità: si direbbe che, scrivendolo, a Lisbona ci si sia preoccupati di renderne l’applicazione quasi impossibile. Altro che due anni: fra procedure, passaggi comunitari e approvazioni varie, ce ne vorranno cinque — se non dieci — per completare il tutto. Ragione di più per non muoversi senza aver prima ragionato a mente fredda, come sostiene la Merkel, ma anche per non perdere troppo tempo, come chiedono Hollande e Renzi. Perché, se è vero che non siamo alla vigilia della dissoluzione dell’Ue, il rischio di una disgregazione accelerata è reale e incombe ai membri rimasti di evitarla.
Sono sempre di più a sostenere che, per recuperare il suo slancio ideale, l’Europa deve saper rispondere in maniera fortemente innovativa alle sfide dell’occupazione, dei giovani, dell’immigrazione, con programmi che tengano conto della crescente differenziazione al suo interno indotta da un processo di integrazione multilivello. Le ipotesi sul tappeto — velocità differenziate, cerchi concentrici e quant’altro — partono dall’assunto che l’Ue, sia pure in tempi e con modalità diverse, conservi una struttura unitaria e si riconosca in un mantra politico condiviso. Ma qui sta il limite del ragionamento: è stato proprio Cameron, dichiarando anche per conto di altri che il mantra di una unione sempre più stretta vale per alcuni, ma non per tutti, a rendere esplicito che parlare di una unione ispirata al medesimo obiettivo di fondo non ha più senso.
È tempo di prendere atto che nell’Ue vi sono oggi due Europe: una volta all’integrazione politica («l’Europa di Altiero Spinelli»), ed una all’economia e al mercato («l’Europa di Margaret Thatcher»), nel quadro di un più ampio recinto definito dai principi fondamentali di libertà e democrazia («l’Europa di Coudenhove-Kalergi», dal nome di chi quasi un secolo fa immaginò una Unione Paneuropea di Stati). Una tendenzialmente sovranazionale e l’altra eminentemente intergovernativa; permeabili e distinte, parallele e non conflittuali. Una «Europa delle convergenze parallele» secondo la definizione di Aldo Moro, per sottolineare l’autonomia e la comune matrice ideale. Riconoscere una simile realtà significa porre il tema — spinoso — di una seria revisione dei trattati, ma pensare che dopo quello che è successo ciò sia evitabile appare a dir poco improbabile. Essa per contro rappresenta un importante elemento di semplificazione: muovendosi in autonomia le due Europe evitano le interferenze negative che inevitabilmente si pongono fra cerchi e gironi (basti pensare al difficile rapporto fra ins e outs nell’euro), e utilizzano al meglio le rispettive potenzialità.
L’«Europa di Margaret Thatcher» permette di gestire in maniera flessibile la crescita del mercato, assorbendo eccezioni e spinte separatiste e offrendo una alternativa a ulteriori exit nonché, in un futuro possibile, ponendo le basi per un riavvicinamento della Gran Bretagna. Ma va da sé che la partita di fondo del rilancio europeo si gioca intorno all’«Europa di Altiero Spinelli». Immigrazione e lavoro, moneta, sicurezza e difesa: intanto saranno possibili in quanto si riuscirà ad imprimere un deciso salto in avanti verso l’integrazione politica. A parte i «nuclei duri esistenti o immaginati» (quello dei diciannove dell’eurozona andrebbe messo urgentemente alla prova), il punto di snodo è quello dell’asse franco-tedesco — con l’aggiunta dell’Italia — e della sua capacità di rinunciare a tentazioni egemoniche per promuovere una vera gestione multilaterale delle politiche, che tenga conto delle esigenze degli altri. Un obiettivo difficile, di cui si vedono già le difficoltà, ma da cui dipende la possibilità per l’Europa di dire la sua nel mondo.
Le due Europe sono uno strumento efficace per restituire smalto all’Ue: mettono in chiaro le priorità e tolgono la scusa di incompatibilità e ritardi per evitare decisioni, come troppo spesso è avvenuto. Pongono con chiarezza le alternative: se l’Europa politica dovesse fallire, non per questo finirebbe l’Ue: ridotta alla sua sola dimensione di unione doganale con qualche orpello aggiunto sarebbe un’altra, e ben piccola Europa.

1 commento:

Eroe Misterioso ha detto...

Come si dice da queste parti: "State a rosica'".