Luigi Mascheroni Giornale - Sab, 24/09/2016
Cavalieri, maghi e donzelle “ignude assai” nel photoshop di Ludovico Ariosto
A 500 anni dall’Orlando furioso, una mostra a Ferrara propone un’immersione nell’immaginario cinquecentesco a cui il poeta attinse per il suo capolavoro
Bruno Ventavoli Busiarda 30 10 2016

«Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi»? Cinquecento anni dopo la prima edizione dell’Orlando furioso, che viene riproposta in preziosa edizione Einaudi, la Ferrara del poeta ospita a palazzo Diamanti una mostra (fino all’8 gennaio) che ha la giocosa ambizione di rispondere alla domanda. Ottanta opere di varia natura - dipinti, arazzi, sculture, volumi, armi, tarocchi - che compongono l’immaginario collettivo cinquecentesco di cavalieri, maghi, eroine cui l’Ariosto attinse per cesellare il suo poema, nella scia del Boiardo o del Pulci. Molti i capolavori, da Leonardo (una Battaglia con cavalli ed elefanti) a Giorgione, da Paolo Uccello (San Giorgio uccide il drago) a Dosso Dossi (la Melissa, madrina degli Este), tra i quali orienta la bellissima audioguida di Guido Beltramini (curatore con Adolfo Tura della mostra) che accompagna il visitatore con colta affabilità come se fosse in un documentario 3D.
Alcune opere Ariosto (1474-1533) le vide direttamente, come il monumentale Minerva che scaccia i vizi dal giardino delle virtù di Andrea Mantegna. Era nel camerino di Isabella d’Este, e il poeta ritagliò col suo photoshop mentale le figurine fantastiche che collocò nella «strama torma» di mostri incontrata da Ruggiero nel regno di Alcina.
La Venere playmate
Il resto faceva invece parte della fantasia collettiva affollata di «cavallier, arme, audaci imprese». E, fondamentale, il gusto nuovo, pregno di erotismo, di rappresentare donne e amori. Le dimore si stavano infatti riempiendo (non senza scandalo) di donzelle «ignude assai» dipinte apposta per esaltare la bellezza femminile. La Venere pudica di Botticelli, che si copre con falsa verecondia il sesso usando una ciocca della lunghissima chioma, si staglia come la playmate di un paginone centrale affisso sull’armadietto di una recluta. Ancor più lasciva è la ninfa addormentata in un angolo del Baccanale degli Andrii di Tiziano, esausta di vino o orgasmi, con un putto che le orina sul polpaccio, ad aumentare la rinfusa di perversioni in scena. Immagini di questo genere inseminavano sicuramente la fantasia di Ariosto quando scriveva di Angelica o Alcina legate in un bondage sadomaso a qualche roccia, sotto minaccia d’un mostro.
Oltre al corpo femminile, il ’400 va alla scoperta della geografia terrestre. Mondi immaginari. Come l’isola di Patmos, che pare un pianeta di Lynch, e accoglie l’assorto San Giovanni del meraviglioso ferrarese Cosmè Tura, vestito di rosso, la folta barba bianca ch’al petto discorre, in tutto simile all’evangelista che nel poema accompagna Astolfo a recuperare il senno d’Orlando sulla luna. O come il paesaggio fantastico che Piero di Cosimo concepì come sfondo dolce e grazioso alla Liberazione di Andromeda con l’orca zannuta sormontata da Perseo.
Una geografia assolutamente concreta cerca invece di tracciare la carta del Cantino, d’un anonimo portoghese, prima mappa del pianeta allargato dalle scoperte geografiche di Colombo e compagni, dove compaiono le terre del nuovo mondo colorate di verde, con i vessilli di Castiglia e i pappagalli, come in un verso del canto XV del Furioso.
L’altra componente fondamentale del poema è il mondo cavalleresco tutto lealtà, onore, coraggio, più vicino all’ideale che alla realtà di un’Italia intorbidita da congiure, guerre, rudi capitani di ventura. Il vero Gattamelata non era certo il giovinotto dipinto dal Giorgione con languidi giochi di luce. Ma la magnifica armatura di lucido metallo che indossa è la cifra di un’epoca turbolenta e raffinata. Perché le spade, i cimieri, le selle non erano solo efficaci strumenti di morte, ma veri e propri costumi di scena per esaltare la personalità del guerriero, sia in battaglia, sia nelle giostre al cospetto di sospirose dame. Capolavori di fabbri e, insieme, di artisti. Non a caso gli eroi del poema ariostesco se li disputano come tesori preziosi e fatati.
Nella ricca panoplia esposta a Ferrara v’è anche l’olifante che Orlando suonò, prima di essere scannato a Roncisvalle. Ovviamente è falso. Ma è una reliquia profana come la «Boabdil», la sontuosa spada impugnata dall’ultimo emiro di Granada. In nulla diversa da quelle dei nemici cristiani che, a dispetto delle violente crociate, condividevano lo stesso codice cavalleresco di bravura, eleganza, coraggio. L’unica differenza era il nome e la sostanza di Dio.
L’archibugio di Belzebù
Nelle sale finali della mostra spicca un archibugio a ruota, d’una bellezza algida, quasi innocente. Più o meno simile a quelli che i fanti spagnoli usarono nella battaglia di Pavia, 1525, per maciullare la cavalleria francese orgoglio di Francesco I (un gigantesco arazzo fiammingo di 4 metri per sette celebra la vittoria con cruenta grazia). Le pallottole di piombo non solo segnarono l’inizio dell’egemonia di Carlo V sulle corti padane (la terza e ultima edizione dell’Orlando ne tiene conto), ma il tramonto del combattimento cavalleresco affidato tutto alla destrezza dei singoli. Chiunque da lontano poteva uccidere con un semplice sparo. L’Ariosto lo capì. Perciò il suo Orlando afferra l’«abominioso ordigno fabricato da Belzebù per ruinare il mondo» e lo scaglia in mare affinché non possa più nuocere. Pia illusione poetica. L’arma da fuoco avrebbe cambiato per sempre l’umanità. Non l’avrebbe resa più sanguinaria. Solo più vile.
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