martedì 27 settembre 2016

Pensare il negativo ma cedere sistematicamente al narcisismo postmoderno: ancora e sempre Zizek

Il contraccolpo assoluto. Per una nuova fondazione del materialismo dialettico
Slavoj Zizek: Il contraccolpo assoluto, Ponte alle Grazie

Risvolto
Che cos’è il «contraccolpo assoluto»? In Hegel, è una radicale coincidenza degli opposti, in cui la negazione produce al contempo ciò che essa stessa «nega»: e Slavoj Žižek, in questo nuovo lavoro, tenta di elevare il concetto a principio metafisico universale, continuando nella sua opera pluridecennale di reinterpretazione di Hegel e Lacan. Sèguito ideale del fortunato Meno di niente, Il contraccolpo assoluto rileva il fallimento del materialismo filosofico in tutte le sue forme, dal naturalismo scientifico al Nuovo Materialismo di Deleuze, proponendone una formulazione rinnovata alla luce delle più recenti scoperte scientifiche (in primis la fisica quantistica), della psicoanalisi, e del fallimento politico per antonomasia, quello del comunismo novecentesco. Indicando nel materialismo dialettico l’unico vero erede dell’approccio speculativo hegeliano, Žižek, nel suo stile inimitabile (un impasto di cultura alta e di cultura pop, Schönberg e la musica pop, Heidegger e i noir americani), ripensa la tradizione culturale occidentale, offrendo agli abitatori di un Occidente che non smette di tramontare nuove basi e possibilità per ricominciare a pensare il futuro della nostra società.

La dialettica è pop 
Filosofia. Un’anticipazione da «Il contraccolpo assoluto», volume edito da Ponte alle Grazie che il filosofo sloveno presenterà a Pordenonelegge, l’annuale kermesse che prende il via oggi nella città friuliana

Slavoj Zizek ITALIA/PORDENONE  Manifesto 14.9.2016, 0:23 
Tutti conosco la battuta di Winston Churchill sulla democrazia, di solito riportata in questo modo: «La democrazia è il peggiore dei sistemi possibili; il problema è che non esiste un sistema migliore». In realtà, l’11 novembre 1947, durante un discorso alla Camera dei Comuni, Churchill disse qualcosa di meno paradossale e brillante: «Molte forme di governo sono state sperimentate e saranno sperimentate in questo mondo di peccato e di dolore. Nessuno ha la pretesa che la democrazia sia perfetta o onnisciente. Infatti, è stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo a eccezione di tutte le altre forme che sono state sperimentate di volta in volta». 
La logica di fondo la si può comprendere meglio applicando le «formule della sessuazione» di Jacques Lacan all’aforisma di Churchill e riformulandolo come segue: «La democrazia è il peggiore di tutti i sistemi; tuttavia, se equiparato alla democrazia, ogni altro sistema è peggiore». Se mettiamo insieme tutti i sistemi possibili e li valutiamo in base al loro valore, la democrazia è il peggiore e si classifica all’ultimo posto; se, però, compariamo la democrazia agli altri sistemi, uno per uno, essa si rivela il sistema migliore. Non vale (o non sembra valere) qualcosa di simile per il capitalismo? Se lo si analizza in modo astratto, cercando di situarlo nella gerarchia di tutti i sistemi possibili, sembra il peggiore: caotico, ingiusto, distruttivo, ecc.; se, però, lo si compara in modo concreto e pragmatico a ogni alternativa possibile, risulta ancora migliore di qualsiasi di queste. 
Questo squilibrio «illogico» tra l’universale e il particolare è una dimostrazione diretta dell’efficacia dell’ideologia. Negli Stati Uniti, un sondaggio compiuto alla fine del giugno 2012, poco prima del pronunciamento della Corte Suprema sulla riforma della sanità di Obama, ha mostrato che «la stragrande maggioranza a favore dei provvedimenti della legge». Un sondaggio Reuters/Ipsos dello stesso periodo ha però segnalato che la maggior parte degli americani si opponeva alla riforma del sistema sanitario del presidente Barack Obama pur approvandone convintamente la maggior parte dei provvedimenti. I risultati del sondaggio suggeriscono che i repubblicani stavano convincendo gli elettori a rifiutare la riforma di Obama anche se approvano gran parte dei suoi contenuti, ad esempio la proposta di permettere ai figli di dipendere dall’assicurazione dei genitori fino al ventiseiesimo anno di età. 
Il potere dell’ideologia 
Questa è l’ideologia nella sua forma più pura: la maggioranza vuole la capra (ideologica) e i cavoli (quelli reali), ossia vuole i benefici reali derivanti dalla riforma della sanità rifiutandone però la forma ideologica (percepita come una minaccia alla «libertà di scelta»); rifiutano l’acqua ma accettano l’H2O o, al contrario, rifiutano l’idea di frutta, ma vogliono mele, prugne, fragole. All’inizio del thriller di Jo Nesbø Il cacciatore di teste, c’è una battuta che implica un’analoga serie paradossale: «Il salmastro pungente dei gas di scarico nell’aria autunnale mi faceva venire in mente il mare, le estrazioni petrolifere e il prodotto interno lordo». Il momento eccentrico aggiunto alla serie di elementi naturali e fisici è il Pil, che indica in breve lo sfruttamento brutale della natura. 
Ecco un’altra versione di questa serie, tratta da una recente intervista di Bob Dylan sulla rivista Rolling Stone (settembre 2012): «Questo paese si è fottuto il cervello con il colore. È una distrazione. Le persone litigano solo perché sono di un colore diverso. È il culmine della follia e sarà da ostacolo a ogni nazione, per non dire a ogni quartiere. A qualsiasi cosa. I neri sanno che alcuni bianchi non volevano rinunciare alla schiavitù, che se fosse stato per loro sarebbero ancora in catene, e non posso fare finta di non saperlo. Se nel tuo sangue hai uno schiavista o un membro del Klan, i neri lo percepiscono. Questa roba persiste ancora oggi. Così come gli ebrei fiutano sangue nazista e i serbi sangue croato. Dubito che l’America si libererà mai da questa stigmatizzazione. È un paese che si è formato sulla schiena degli schiavi. (…) Se si fosse rinunciato alla schiavitù in modo più pacifico, l’America oggi sarebbe molto meno arretrata». 
Le macchie sulla conoscenza 
Una strana serie di persone che fiutano il sangue: un nero contro uno schiavista, un ebreo contro un nazista, un serbo contro un croato. Le prime due coppie contrappongono una categoria etnica generale (nero, ebreo) a una sottocategoria economica/sociale/politica (schiavista, nazista), non a un intero gruppo (bianchi, tedeschi), mentre nel caso dei serbi non si tratta del sottoinsieme croato degli ùstascia, ma dei croati in quanto tali. Questo è un passo in direzione del razzismo: una coppia, più un terzo termine che mostra la vera posizione razzista di fondo. Più precisamente, ciò che rende queste dichiarazioni razziste non è lo statuto speciale dei croati, ma il fatto che siano solo i croati ad avere questo statuto. La formulazione corretta, infatti, non consisterebbe nel sostituire i croati con gli ùstascia (i collaborazionisti croati del nazismo), ma nel sostituire, nei primi due casi, gli schiavisti con i bianchi e i nazisti coi tedeschi. 
Gli atti terribili degli schiavisti e dei nazisti sono una macchia sulla coscienza degli americani bianchi in quanto tali e sui tedeschi in quanto tali; è fin troppo facile dire che i nazisti erano colpevoli mentre tutti gli altri tedeschi erano innocenti (e lo stesso vale per quanto fecero gli ùstascia durante la Seconda guerra mondiale). Così, quando un nero guarda un bianco, egli può (e ha il diritto di) «fiutare il sangue schiavista» che è in lui, anche se questo individuo bianco non ha niente a che fare con lo schiavismo. 
C’è una categorizzazione analoga in cui un insieme è diviso in sottoinsiemi sbilanciati in modo ridicolo, come nella battuta di Eugene Wigner: «Ci sono due tipi di persone al mondo: Johnny von Neumann e noi». Pensiamo anche alla formula base di molte massime ciniche «Ci sono due tipi di persone, quelle che… e quelle che…», il cui senso è la natura arbitraria della distinzione: gli impiccati e quelli che tengono la corda; quelli che amano l’Armagnac e quelli che lo detestano… E la categorizzazione definitiva non sarebbe forse la divisione fra qualcosa e il nulla («Ci sono due tipi di persone al mondo: quelle che muoiono e nessun’altro»; oppure «Ci sono due tipi di persone al mondo: quelle che muoiono e quelle che sono immortali», dove il senso è che il secondo insieme è vuoto)? 
Nei termini della nozione marxiana di merce in generale, la sua versione sarebbe: «Ci sono due tipi di merci sul mercato: merci particolari con valori d’uso specifici e la merce in generale». Analogamente, pensiamo di nuovo al saggio di Walter Benjamin Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, dove il senso non è che la lingua umana è la specie di una qualche lingua universale «in quanto tale» che comprende anche altre specie: non esiste nessun altra lingua oltre a quella umana, ma per comprendere questa lingua «particolare» bisogna introdurre una differenza minima, concepirla in riferimento allo scarto che la separa dalla lingua «in quanto tale». La lingua particolare è quindi la «lingua reale», la lingua intesa come serie di frasi effettivamente pronunciate, in contrapposizione alla struttura linguistica formale. 
Il peccato dell’universale 
Questa lezione benjaminiana viene ignorata da Jürgen Habermas, che fa proprio quello che non bisognerebbe fare: egli pone come norma del linguaggio reale direttamente un ideale «linguaggio in generale» (gli universali pragmatici). Riprendendo il titolo di Benjamin, bisognerebbe descrivere la costellazione fondamentale della legge sociale come quella della «Legge in generale e del suo osceno rovescio superegoico in particolare». La «Parte» in quanto tale è dunque l’aspetto «peccaminoso» irredento e irredimibile dell’Universale; in termini politici concreti, ogni politica che si fondi su un riferimento a una qualche particolarità sostanziale (etnica, religiosa, sociale, tradizionale…) è per definizione reazionaria. 
Di conseguenza, la divisione introdotta e sostenuta dalla lotta emancipatrice («di classe») non è quella tra due classi particolari del Tutto, ma quella tra il Tutto-nelle-sue-parti e il suo Resto che, all’interno dei Particolari, rappresenta l’Universale, il Tutto «in quanto tale», contrapposto alle sue parti. Qui bisogna tenere a mente i due aspetti della nozione di resto: il resto inteso come ciò che rimane dopo la sottrazione di tutto il contenuto particolare e il resto intesto come risultato finale della suddivisione del Tutto nelle sue parti, quando, nell’atto finale di suddivisione, non abbiamo più due parti o elementi particolari, due Qualcosa, ma un Qualcosa (il Resto) e il Nulla.

La necessaria perdita del soggetto 
Tempi presenti. La ricetta per «Il contraccolpo assoluto» secondo Slavoj Žižek, nel suo ultimo libro edito da Ponte alle Grazie 
Massimiliano Guareschi  Manifesto 17.12.2016, 19:23 
In fondo, la ricetta si è rivelata geniale. Slavoj Žižek deve il proprio successo alla riproposizione di qualcosa che potrebbe apparire inesorabilmente datato e demodé, ossia il marxismo, nella sua declinazione leninista. Il pericolo poteva essere quello di essere scambiato per un adepto di Lotta comunista o di qualche gruppuscolo residuale. E allora perché non impacchettare il tutto in una cornice lacaniana, con tanto di reiterati riferimenti al Reale, all’Osceno, alla Forclusione o all’Altro (rigorosamente con la maiuscola) e spingere sull’acceleratore della contaminazione con la cultura pop?
L’impatto è stato notevole, e planetario, accreditando Žižek come il punto di riferimento per un pensiero critico controcorrente rispetto ai canoni ormai consolidati del minimalismo teorico, del narcisismo delle piccole differenze o del sincretismo radical. La produzione del filosofo e non psicoanalista (come spesso si ritiene) sloveno, nel corso del tempo, si è fatta quasi compulsiva. 
A TESTI PIÙ DIRETTAMENTE teorici, spesso e volentieri assai massicci per numero di pagine, si alternano volumi più agili che, a cadenze quasi fisse, si interrogano sul senso filosofico e politico dell’attualità spesso assai lucidi nel sottolineare i limiti di un senso comune radical improntato al culturalismo, al dogma consolatorio della resistenza al potere e a una versione «colta» dell’antipolitica, anche se si può nutrire più di una riserva sul fatto che l’antidoto a tutto ciò possa essere costituito dall’atto di enunciare il lessico del marxismo-leninismo. 
Con un certo compiacimento, Žižek ama invocare, contro lo spirito del tempo, formule divenute tabu ed esposte a unanime riprovazione. Così è per il suo recente Il contraccolpo assoluto. Per una nuova fondazione del materialismo dialettico (Ponte alle Grazie, pp. 572, euro 25). In questo caso, come chiarisce il sottotitolo, l’obiettivo sarebbe nientemeno che una rifondazione del materialismo dialettico. I punti di riferimento teorici, però, non sono, come sarebbe stato lecito attendersi, la dialettica della natura di Engels, Materialismo ed empirocriticismo di Lenin o i manuali di marxismo dell’epoca staliniana. Diversamente, l’interlocutore privilegiato viene individuato proprio in colui che, secondo Marx, occorreva «ribaltare» per costruire una prospettiva autenticamente materialista, ossia Hegel. E così, Il contraccolpo assoluto appare come una lunga postilla, all’opera teoricamente più impegnativa dell’ultimo Žižek, i due volumi di Meno di niente (Ponte alle Grazie), che sulla riattivazione attraverso il prisma lacaniano del filosofo della Fenomenologia dello spirito appunto si incentravano. 
Materialismo, come i suoi opposti idealismo o spiritualismo, può apparire oggi un significante vuoto, non più in grado di catalizzare le energie teoriche ed esistenziali come in un passato tutto sommato recente. In ambito filosofico, altre appaiono le opposizioni che presiedono alle divisioni di campo. Inoltre, gli sviluppi delle scienze da un secolo a questa parte hanno reso sfuggente la stessa idea di materia, privandola di solidità ed autoevidenza e rendendo problematico definire che cosa possa significare «prendere partito» a favore di essa. 
IN EFFETTI, IL PROBLEMA del materialismo, così come lo configura Žižek, non ha a che fare con il ristabilimento del primato di una dimensione su altre, al punto che si parla di «materialismo senza materia», quanto con il proposito di tenere insieme senza soluzione di continuità, nella medesima matrice concettuale, il piano cosmologico, politico e clinico. Questo in sintesi il materialismo dialettico di cui ci Il contraccolpo assoluto intende offrire non una definizione ma alcuni esercizi. 
Žižek recensisce, nell’apertura del libro, i diversi filoni che nello scenario attuale possono aspirare alla qualifica di materialisti. Incidentalmente si cita il «materialismo riduzionista e volgare» di cognitivisti e neodarwiniani o l’«ateismo aggressivo» à la Dawkins. Il confronto è più serrato con prospettive caratterizzate da un maggiore livello speculativo, dal «materialismo discorsivo» foucaultiano al «materialismo dell’incontro» althusseriano fino al «nuovo materialismo» deleuziano. Quest’ultimo rappresenta decisamente il termine di confronto filosofico rispetto al quale Žižek definisce la propria prospettiva, in consonanza spesso con le posizioni di Alain Badiou. 
A PARERE DEL FILOSOFO sloveno il monismo deleuziano non solo pecca di vitalismo, passibile di derive animistiche esemplificate con il riferimento a Vibrant Matter di Jane Bennet, ma lascerebbe impensate le questioni della soggettività e del negativo, o le risolverebbe al ribasso. Di conseguenza, si imporrebbe un altro cammino, che dribblando il ribaltamento marxiano, letto nei termini di una mera restaurazione neoaristotelica, individua la chiave per un approccio unificato a natura e artificio, a organico e inorganico, ontologia e fenomenologia nell’esegesi selettiva di un Hegel non pacificato nella chiusura della sintesi, cortocircuitato con Lacan e proiettato sugli scenari della fisica delle alte energie, della bancarotta del comunismo storico e dell’invenzione psicoanalitica. E qui entra in gioco il contraccolpo assoluto del titolo, l’absoluter Gegenstoss. 
SI TRATTA DI UNA FORMULA rara, limitata a una sola occorrenza nell’opus hegeliano, un passaggio della Scienza della logica in cui sarebbe chiamata a nominare «un ritrarsi che crea ciò da cui si ritira», il gesto negativo che crea ciò che esso stesso nega. E ciò vale, come principio ontologico, per la fisica quantistica come per la politica. E soprattutto per il soggetto, visto come «caso completo di contraccolpo assoluto, di una cosa che emerge attraverso la sua stessa perdita quale risultato della propria impossibilità».
Opponendosi al «chiacchiericcio hegeliano» in base alla quale il soggetto si estranea nell’oggettivazione per riconciliarsi con se stesso riappropriandosi del proprio sé alienato, Žižek, compitando Lacan, sottolinea come il soggetto non preesista alla propria perdita e consegua al fallimento della sua rappresentazione simbolica.
Dare Hegel per morto è un fenomeno ricorrente, così come l’impressione di avere finalmente chiuso i conti con il suo pensiero, confinandolo nell’ambito della storia della filosofia. Analitici, neokantiani, esistenzialisti e «post-strutturalisti», nel corso del tempo, hanno sedimentato un corposo e multiforme archivio dell’antihegelismo, passibile in alcuni suoi frammenti di farsi senso comune filosofico, spesso prescindendo dalle cornici teoriche che li motivavano. 
NEGLI ULTIMI DECENNI, tuttavia, si riscontra un incremento di interesse non solo storico ma anche politico-teorico nei confronti di Hegel, cui non è senza dubbio estranea la Lacan renaissance che caratterizza il nostro tempo. In proposito, oltre ai volumi di Žižek, si potrebbero citare, da prospettive teoriche e politiche assai diverse, i lavori di Robert Pippin, Terry Pinkard, Axel Honneth o le recenti Hegel Variations di Frederic Jameson. Evidentemente la formidabile macchina speculativa hegeliana, con la sua intricata trama di livelli, è ancora in grado di parlare al nostro tempo, al di là del respiro contingente dei vari neoidealismi o hegelo-marxismi che si sono succeduti. 

Certo, si può continuare a diffidare di Hegel, ma sarebbe opportuno farlo in maniera non automatica, a partire dalle sfide del presente e senza dare per scontato che anche i momenti teorici antihegeliani nei confronti dei quali si prova più empatia conservino inalterato il loro significato, al di fuori dei contesti teorici e politici in cui sono stati concepiti e formulati.

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