martedì 27 settembre 2016
Piattaforme digitali, "dispositivi" e immagine del mondo
Codici aperti. La società al tempo delle piattaforme digitali. Un percorso di letture per comprendere in che modo siano diventate le principali artefici di una capillare trasformazione sociale ed economica
Vanni Codeluppi Manifesto 24.9.2016, 0:03
Le piattaforme rappresentano, da qualche anno, dei potenti agenti di trasformazione sociale. Nate all’interno del mondo digitale, stanno uscendo velocemente da quel luogo. Già diversi autori hanno sostenuto che si sta configurando una vera e propria «economia delle piattaforme». Ma si potrebbe anche parlare di una «società delle piattaforme», poiché sono numerosi i loro effetti sul contesto culturale e sociale.
Il modo con cui interagiamo con gli altri viene, infatti, intensamente condizionato da tali piattaforme. È il caso pertanto di cercare di comprendere meglio la loro natura, facendo ricorso ad alcuni volumi usciti recentemente.
Circolazione fluidificata
Amazon, Apple, Google, Facebook, Tinder, PayPal, Uber, Trivago, Alibaba sono imprese che differiscono notevolmente, perché la loro attività si concentra su oggetti di diversa natura. Ma tali oggetti operano, di solito, attraverso un modello che rimane sostanzialmente lo stesso. Una piattaforma digitale li fa circolare e in questo modo viene generato valore economico. Il «lubrificante» che facilita tale circolazione è la relazione sociale esistente tra le persone. Piattaforme che mettono in collegamento individui che offrono qualcosa con altri che cercano proprio quel qualcosa sono sempre esistite nella storia umana. Ma i progressi odierni delle tecnologie digitali stanno consentendo a tali piattaforme di diventare sia molto popolari che assai profittevoli. Anche perché non è più necessario produrre oggetti, riempire magazzini e affrontare i rischi economici dell’invenduto. Semplicemente, si connettono delle persone e queste si preoccupano di fare tutto.
Se le piattaforme digitali hanno potuto svilupparsi, è perché le merci e i servizi si sono progressivamente smaterializzati. Il processo di digitalizzazione della società ha consentito questa smaterializzazione e ciò ha permesso la nascita di un fenomeno come le piattaforme. Che altro non sono che una sorta di «recinzione».
Stabiliscono i confini di un territorio e lo difendono con decisione, facendo entrare solamente chi ne ha il diritto, identificato con precisione e, a volte, anche costretto a sottostare a una qualche forma di pagamento. È il modello che Apple e Microsoft hanno lanciato anni fa, schema che, in seguito, si è rapidamente diffuso.
Il costo per l’accesso alle piattaforme, quando è presente, è contenuto e a volte persino gratuito. Perché quello che conta è che gli utenti entrino facilmente. Poi, una volta immessi, la strategia che viene attivata ha l’obiettivo di mantenerli all’interno, affinché acquistino il più possibile ciò che viene offerto. Da questo punto di vista, il riferimento teorico principale è naturalmente il saggio L’era dell’accesso (Mondadori) di Jeremy Rifkin, il quale già nel 2000 segnalava che le società avanzate stavano entrando in una nuova fase sociale caratterizzata da un modello economico basato sulla sostituzione della proprietà illimitata dei beni con l’acquisto della possibilità di utilizzare gli stessi beni per un tempo definito. E di raggiungerli in qualunque luogo o momento.
Tra materia e immateriale
Volendo affrontare criticamente il tema delle piattaforme digitali, è utile ragionare prima di tutto sul concetto di dispositivo. Una piattaforma può essere considerata infatti come un dispositivo, sebbene questo concetto sia più ampio e possa comprendere anche oggetti di natura differente. Come ad esempio un semplice manufatto fisico (la moka per il caffè), un manufatto fisico dotato di un programma informatico (il navigatore satellitare) oppure uno strumento di tipo puramente immateriale, ma in grado comunque di produrre effetti materiali (le tasse).
Sul dispositivo ha riflettuto di recente Fulvio Carmagnola nel suo piccolo ma denso libro Dispositivo. Da Foucault al gadget (Mimesis, pp. 78, euro 7,90). L’autore ricostruisce l’evoluzione di questo concetto attraverso l’analisi delle idee sviluppate da giganti del pensiero come Foucault, Agamben, Deleuze, Lyotard e Lacan. Si concentra però soprattutto sul primo di tali pensatori, perché questi ha introdotto il concetto di dispositivo e ne ha definito le principali caratteristiche. Per Foucault il dispositivo è sostanzialmente una «tecnologia del potere», vale a dire una modalità attraverso la quale il potere si esercita. Il che comporta, come scrive Carmagnola, che il dispositivo non possa essere considerato uno strumento neutrale e che sia necessario ritenere che il soggetto venga «plasmato, prodotto, «oggettivato» o a sua volta «iscritto» dal dispositivo».
Vittime di un algoritmo
Va considerato però che per Carmagnola stesso, Foucault attribuiva al potere del dispositivo anche una forza di tipo produttivo, la quale non impedisce di fare, ma spinge piuttosto a fare. Stimola dunque la creatività umana. Insomma, come sosteneva Lacan, «anima» le persone.
Naturalmente, le piattaforme per funzionare al meglio hanno bisogno di alcuni particolari tipi di dispositivi. Ad esempio, per riuscire a fare entrare facilmente gli utenti al loro interno, devono rendere accessibili quelli digitali che servono per la connessione a Internet. Non a caso, di recente, lo smartphone R1 HD è stato messo in commercio a soli cinquanta dollari per gli utenti di Amazon Prime. In cambio, tali utenti pagano la tassa d’iscrizione a Amazon Prime e accettano di ricevere dei messaggi pubblicitari da Amazon ogni volta che sbloccano l’apparecchio.
Le piattaforme digitali sono evidentemente azionate da un software, il quale a sua volta si basa su un algoritmo. Nel volume The Black Box Society: The Secret Algorithms That Control Money and Information (Harvard University Press), il giurista Frank Pasquale ha cercato di analizzare gli effetti della crescente importanza rivestita nelle società contemporanee dagli algoritmi. Ha cioè messo in luce come decisioni anche importanti – che in passato venivano prese a partire da riflessioni sviluppate dagli esseri umani – siano oggi sempre più determinate da procedure informatiche di natura automatica. Procedure che – in quanto tali – sono rigide e dunque non sono in grado di adattarsi agli imprevisti, come fa abitualmente il cervello umano.
Per questo motivo, si ritiene che abbiano pesantemente contribuito a determinare la grave crisi finanziaria del 2008. Tali procedure influenzano le decisioni prese sia dalle istituzioni e dalle organizzazioni, sia dal singolo che ha la necessità di andare al ristorante o dal dentista.
Il vero problema però per Frank Pasquale è un altro: le procedure algoritmiche sono una «black box», non si presentano come trasparenti, perché noi non ne conosciamo la logica che le guida. Invocando il loro diritto alla privacy, infatti, aziende come Google, Facebook o Twitter raccolgono un’enorme quantità d’informazioni sui comportamenti delle persone nella loro vita privata, mentre gli individui, a loro volta, sanno ben poco di come le aziende utilizzino queste informazioni per operare una pressione sui provvedimenti che vengono attivati nella società. Le aziende sostengono che i loro algoritmi sono scientifici e neutrali, ma, dato che sono segreti, ciò è difficilmente verificabile.
Rimanere uguali a se stessi
Anche il sociologo Dominique Cardon ha provato di recente a interrogarsi sulla natura dell’algoritmo nel volume Che cosa sognano gli algoritmi. Le nostre vite al tempo dei big data (Mondadori Università, pp. 102, euro 10). La sua idea è che gli algoritmi, a differenza degli umani, sono stupidi e dunque non possono fare altro che riprodurre le differenze sociali e le discriminazioni esistenti nella società e generate anche dagli utenti del web con i loro comportamenti.
Avviene però qualcosa di più: dato che gli algoritmi lavorano solitamente sulle informazioni relative ai comportamenti passati delle persone, non solamente riproducono l’esistente, ma tendono a spingere la società verso una conferma dell’ordine vigente. Inducono cioè gli individui a riprodurre in continuazione loro stessi e le proprie azioni e riducono gli spazi esistenti per la libertà e la creatività. Sono dunque portatori di un vero e proprio progetto politico che tende ad accelerare la corsa della società verso l’individualismo e la competizione.
Il capitalismo delle piattaforme
Internet. Accordo Facebook e Israele per mettere sotto controllo la Rete, mentre le voci della vendita di Twitter scuotono Wall Street
Benedetto Vecchi Manifesto 24.9.2016, 0:30
Facebook, Twitter, Amazon, Netflix e Google sono esempi di quel «capitalismo delle piattaforme» considerato la frontiera della produzione della ricchezza. Il loro business è dato dalle informazioni che ogni utente lascia dietro di sé nelle sue navigazioni in Rete. Siti frequentati, contatti attivati, contenuti scaricati. ogni elemento è buono per costruire profili individuali e per accumularli in enormi archivi (i Big Data). All’interno di uno scambio luciferino – uso gratuito di servizi e applicazioni in cambio della cessione della proprietà sui propri dati individuali – è una forma di produzione della ricchezza sfiorata dalla crisi globale.
Finora la discussione è stata un affare per addetti ai lavori o relegata in ambiti di produzione teorica radicali. Ma poi irrompono nella scena mediatica alcune notizie e il nodo del «capitalismo delle piattaforme» torna a turbare i mouse dei «connessi h.24». La prima riguarda Facebook, la seconda Twitter.
Mark Zuckeberg si è presentato davanti alle telecamere con il premier israeliano Benjamin Netanyahu per parlare di un accordo stilato con Israele quasi fosse un capo di stato. La società statunitense e il capo del governo si sono messi d’accordo per monitorare le comunicazioni sul social network, prevenire eventuali propositi di attacco a Israele e «bannare» pagine ostili allo stato israeliano. La seconda notizia si basa su indiscrezioni riguardanti il possibile acquisto di Twitter da parte di Google e di SalesForces. L’effetto dei rumors è stato quasi immediato: il titolo di Twitter ha avuto una impennata a Wall Street.
Sono solo due esempi di come il «capitalismo delle piattaforme» sia qualcosa di più che non una suggestione accademica. Le implicazioni sono molte. Facebook diventa un guardiano dei contenuti veicolati dal social network, con buona pace della privacy e della libertà di espressione. La notizia su Twitter segnala che i cinguettii nella Rete possono smuovere miliardi di dollari.
Una volta attestata la rilevanza di quanto accade in Rete, rimane da chiarire il perché quella delle «piattaforme» sia la nuova frontiera del capitalismo.
Tutto ha avuto origine da un patto luciferino difficile da mettere in discussione. Si arriva in rete e le società garantiscono framework, programmi informatici e applicazioni gratuiti per comunicare, scrivere, fare di conto, leggere libri e vedere filmati. A patto però tutte le informazioni sulla navigazioni, gusto e contenuti possano essere usati da quelle stesse società per fare affari, cioè vendere spazi pubblicitari e per attirare i singoli in siti che propongono applicazioni che gratuite proprio non sono. È una forma questa di «economia della condivisione» che ha portato molti economisti a blaterare di società postcapitalista.
Ma quel che viene omesso è che le informazioni sono cedute altrettanto gratuitamente e che costituiscono le merci essenziali per «il capitalismo delle piattaforme».
Qui siamo in un territorio dai confini porosi e in continuo divenire. Ad esempio, dopo decenni di difesa forsennata e liberticida della proprietà intellettuale, il capitalismo delle piattaforme ha bisogno, invece, di un regime misto tra programmi informatici open source e algoritmi tutelati rigidamente da brevetti, come nel caso di Google.
Tramonta così la possibilità di promuovere una produzione non proprietaria di programmi informatici alternativa a quella dominante. Quel che invece è imposta è una produzione open source subalterna a una stringente logica capitalistica. All’angolo è messa anche l’idea che la libera circolazione della conoscenza metta in discussione le strutture di potere esistente.
La conoscenza deve cioè essere libera di circolare. Guai infatti a limitare il suo incessante movimento, perché si bloccherebbe quella «innovazione dal basso» verso la quale le imprese esprimono una vera e propria bramosia. È la logica «estrattiva» delle imprese che manifesta la sua natura parassitaria: le imprese si appropria ex post di quanto prodotto durante la navigazione in Rete, riservandosi la gestione del coordinamento e di elaborazione dei dati raccolti.
Il mistero del capitalismo delle piattaforme sta in questa appropriazione «a posteriori». Dopo anni di elogi della sharing economy, il lessico registra la critica che è maturata verso di essa. E se attivisti e militanti radicali hanno cominciato a parlare di «platform cooperativism», alludendo alla possibilità di sviluppare attività economiche con una base mutualistica e solidaristica, l’espressione «capitalismo delle piattaforme» segnala che tale possibilità sarà ostacolato con ogni mezzo. Con accordi come quello tra Facebook e lo Stato di Israele. O con monopoli come quello che si verrebbe a creare se Google acquistasse Twitter.
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