martedì 27 settembre 2016
Stefano Petrucciani sulla crisi della democrazia moderna
TEMPI PRESENTI. La corrosione dello stato-nazione è un processo che ha avuto orgine molti anni fa, ma le migrazioni lo hanno reso manifesto. Anticipiamo una delle relazioni al seminario annuale della Società italiana di Filosofia politica in corso a Roma
Stefano Petrucciani Manifesto 23.9.2016, 0:04
Nella contemporanea età globale diventa in gran parte inattuale il principio sul quale, come ci ha insegnato Jean-Jacques Rousseau, la democrazia si fonda, e cioè quello per cui i destinatari delle decisioni politiche devono esserne al tempo stesso gli autori. Questo principio è sempre meno effettivo; in primo luogo perché le scelte politiche dei singoli Stati sono determinate sempre più dalle decisioni di organismi sovranazionali che hanno una debole o nulla legittimazione democratica; e in secondo luogo perché, con i movimenti migratori di massa, gli Stati europei sono ormai abitati da milioni di non-cittadini, destinatari di leggi dello Stato senza esserne in alcun modo gli autori. La democrazia a misura di Stato-nazione incontra quindi i suoi limiti, e questo rende necessario un generale ripensamento dei fondamenti della politica, ovvero l’ingresso in una nuova dimensione, quella che possiamo chiamare la «Macropolitica».
Le sfide inedite
Il patto costituzionale moderno, quello nel quale ci riconosciamo noi cittadini dei diversi Stati europei, è nato anche dall’apporto del grande pensiero politico che, con la tradizione del contratto sociale, ne ha fissato le coordinate essenziali. Gli Stati sono impegnati a garantire innanzitutto la sicurezza dei cittadini (come ha mostrato Thomas Hobbes), a difendere i loro diritti compresi quelli di iniziativa economica (come ha insegnato John Locke), a garantire la partecipazione democratica (di cui è stato maestro Rousseau) e ad assicurare (come ha richiesto in tutta la sua storia il pensiero socialista) degne condizioni di esistenza e di lavoro, accesso a servizi essenziali, alla cultura e all’educazione. Ma mentre la realizzazione effettiva di una democrazia costituzionale, liberale e sociale, è ancora abbastanza lontana (anzi, ci sono regressioni importanti per quanto riguarda i diritti sociali), gli Stati moderni si trovano ad affrontare sfide nuove, come quella dei flussi migratori, rispetto alle quali si trovano fondamentalmente impreparati.
Ma tutto questo non è solo problema di impreparazione tecnica. A mio modo di vedere si tratta soprattutto di una impreparazione filosofica, di pensiero. Mentre la grande teoria della modernità ci ha aiutato ad elaborare i principi dei moderni patti costituzionali, quello che manca oggi è proprio una riflessione che sia capace di mettere a tema con chiarezza concettuale quali potrebbero essere i principi a cui ispirare le coordinate del patto politico non più tra i cittadini di una comunità, ma tra i popoli dell’età globale. Su questo piano, il lavoro del pensiero è ancora rimasto molto indietro: basti pensare per esempio a quanto la Teoria della giustizia di John Rawls sia più ricca rispetto al suo abbozzo sul Diritto dei popoli, o alla differenza tra lo Jürgen Habermas di Fatti e norme e quello della riflessione sul diritto cosmopolitico.
Nel pensiero moderno, la riflessione consacrata alla dimensione sovra-statale si è concentrata soprattutto sul problema di come superare le guerre istituendo un ordine pacifico. Ma oggi sono molte altre le questioni aperte e difficili. Mi limito a ricordarne alcune: i principi di giustizia economica e distributiva che dovrebbero valere nell’ambito dello Stato nazionale sono suscettibili di una qualche estensione globale? Qui si apre il ricco dibattito che oggi va sotto il titolo di global justice; quale atteggiamento dobbiamo tenere rispetto ai popoli che si ribellano alle tirannidi che li opprimono? In che senso le ingerenze da parte di altri Paesi sono legittime? E come conciliare il sostegno alle minoranze oppresse con l’esigenza di mantenere la stabilità geopolitica?; Abbiamo diritto di opporre barriere alla libera circolazione delle persone in un mondo che è sempre più unificato? Quali giustificazioni ci sono per il fatto che l’essere nato in una parte del mondo piuttosto che in un’altra condanni alcuni a vivere in modi assolutamente più disagiati e precari?; e ancora: che diritto ha una comunità-nazione di includere forzosamente coloro che non vorrebbero farne parte, che vorrebbero costituirsi come demos autonomo corredato del suo Stato indipendente? Cosa può dire in proposito la comunità dei popoli?
Un problema di territorio
È evidente che questi temi richiedono un ragionamento che sia svolto anche in termini di fattibilità e di realismo, di quelle che Habermas ha chiamato le ragioni «pragmatiche». Ma i problemi pragmatici si pongono una volta che abbiamo chiarito i principi secondo i quali sarebbe auspicabile operare, e proprio su questo fronte, invece, mi sembra che siamo alquanto disarmati.
Le questioni delle migrazioni, della giustizia globale, della protezione delle tirannidi, richiedono di essere affrontate interrogandosi innanzitutto su quali potrebbero essere i principi di un patto globale tra i popoli. Ma per ragionare su questo si deve partire dalla consapevolezza che si tratta di una questione in parte diversa da quella che ha riguardato il patto politico tra i cittadini. Ciò è vero per diverse ragioni.
In primo luogo, la comunità politica nazionale si fonda sulla territorialità e sul confine. L’atto di fondazione di una nuova città (che originariamente è un atto sacro) è quello di tracciare un solco che non può essere arbitrariamente superato pena la morte, come dice Romolo nel mito della fondazione di Roma raccontato da Tito Livio (ce lo ricorda Sandro Mezzadra nel suo recente Terra e confini, manifestolibri). La comunità politica moderna presuppone la categoria del confine, che è centrale nello sviluppo degli Stati nazionali e delle loro guerre.
In secondo luogo, la comunità politica nazionale è stata pensata come qualcosa cui si aderisce volontariamente; cui si suppone, almeno in linea di puro principio, che i cittadini scelgano di appartenere. Nella comunità globale, invece, siamo gettati senza potercene, per ovvi motivi, tirare fuori.
La comunità dei popoli è una comunità alla quale siamo consegnati anche se non lo vogliamo; da una nazione ce ne possiamo andare (almeno se essa rispetta questo basico diritto dei suoi cittadini). Dalla comunità dei terrestri no; e neanche dalla relazione con essi perché, come diceva il vecchio Kant, la Terra è rotonda, e dunque a forza di allontanarci finiremmo per ritrovare proprio coloro con i quali non volevamo avere nulla a che fare. Ma il fatto che la comunità globale sia una comunità non di scelta, ma di necessità, cambia completamente il quadro dei diritti e doveri reciproci rispetto a quello che vale nell’ambito di una comunità nazionale di affini, oppure lo lascia immutato almeno per quanto riguarda alcuni principi fondamentali?
Le divergenze
Su questo tema la filosofia politica più aggiornata si interroga da qualche tempo, e con risultati assolutamente divergenti. Ma forse una suggestione che si potrebbe seguire, per cominciare a dipanare una problematica che è complicata dal punto di vista teorico e che rischia sempre di apparire «utopica» dal punto di vista pratico, è quella di tracciare un parallelismo (fluido e non troppo stringente) tra lo sviluppo di una possibile teoria cosmopolitica e quello del pensiero politico a livello di Stato-nazione.
Questo parte mettendo al centro la paura della morte e il tema della sicurezza (Hobbes); quindi tematizza la necessità di proteggere i diritti privati e la proprietà (Locke); mette quindi a fuoco con Rousseau la decisività dell’istanza democratica e infine, col socialismo, quella della condizioni materiali di vita e di lavoro.
La costruzione di principi cosmopolitici potrebbe seguire, forse, una via non troppo diversa. Primo: non mettere a rischio della sopravvivenza della comunità umana, costruendo le condizioni della pace e, altrettanto, quelle della non distruzione dell’ambiente, che della sopravvivenza è condizione. Quindi, capire come si possano difendere, senza cadere in imperialismi ed etnocentrismi, alcuni basici diritti (di libertà ed economici) per tutti i popoli e non solo per pochi privilegiati. E poi (e qui è la ripresa della questione «socialista») mettere a tema la insopportabilità dello sfruttamento selvaggio e delle enormi diseguaglianze economiche a livello globale. Per il pensiero politico che verrà, insomma, ci sarebbe veramente molto da fare. L’agenda è densa e piena di difficoltà, ma sicuramente è anche una sfida intellettualmente affascinante.
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INCONTRI I nodi della politica all’Università La Sapienza
Il testo qui pubblicato è tratto da una relazione che l’autore svolgerà nel convegno nazionale della Società Italiana di Filosofia politica in corso a Roma presso il dipartimento di Filosofia dell’Università «La Sapienza» (Via Carlo Fea 2, Aula VI). L’incontro, dal titolo «Macropolitica: i nodi della politica globale». Due i focus scelti: le migrazioni e la giustizia globale. Temi che fanno emergere la corrosione dello stato-nazione in quanto elemento di governo su un territorio delimitato da confini certi e sottoposto a controllo. Come scrive Stefano Petrucciani le migrazioni hanno messo in evidenza un processo in atto da tempo, cioè la cessione da parte degli Stati europei della sovranità nazionale a organismi sovranazionali o internazionali. Da qui la necessità di immaginare una cornice analitica e teorica che fronteggi il venir meno della legittimità dello stato nazionale nel definire norme che riguardino sia i migranti che gli «autoctoni».
I lavori hanno visto ieri le relazioni di Rainer Bauböck («Democratic Inclusion. A pluralistici theory of citizenship», di Enrico Biale («Un demos fluido per una democrazia iper-migratoria»), di Gianfranco Pellegrino («Migranti e rifugiati: una distinzione instabile») di Salvatore Veca («L’idea di giustizia globale»), Marina Marcenò, Daminao Palano e Volker Kaul. Oggi i lavori proseguono con gli interventi di Sebastiano Maffettone («Giustizia Globale e rapporti interculturali»), Fabrizio Sciacca («I valori sono traducibili in diritti?»), Emanuela Ceva («La dimensione internazionale e della giustizia nella transizione post-conflitto»), Elettra Stimilli («Fanatismi e guerra civile mondale: i mutamenti della politica globale tra diritto, religione e economia») e di Andrea Salvatore )«Violenza terrore politica: per una definizione del concetto di terrorismo»).
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