Donatori, carità e guadagni privati Gli intrecci d’affari di Bill e Hillary
Le email «rubate» da Wikileaks parlano del denaro inviato da sette Paesi (tra cui Qatar e Arabia Saudita) alla Fondazione Clinton e sui conti personali: in cambio di che cosa?
di Giuseppe Sarcina corrispondente da New York Corriere
Russia, scatta la ritorsione contro il Cremlino: violate email di Surkov, il consigliere di Putin
L’iniziativa potrebbe essere un primo messaggio «morbido» al governo di Mosca
di Fabrizio Dragosei Corriere
Gli «eccitanti» sogni di un qualunquista patologico
Donald, l’ira funesta
Demagogia e verità
La annunciata catastrofe repubblicana effettivamente c’è stata, ma in termini che nessuno avrebbe potuto prevedere. Il partito di Lincoln, di Nixon e Reagan, il polo storico del conservatorismo americano, è stato oggetto di un vero e proprio hostile takeover populista. Le primarie del 2016 hanno offerto il singolare spettacolo di un ultracorpo che si è aggiudicato la nomination di un partito che ha tentato di tutto per espellerlo. Gli evangelici teocon, i neocoservatori di corrente Bush-Cheney, gli ideologi facenti capo alla National Review di William F Buckley, i libertarian di Ron e Rand Paul e l’establishment vicino a Wall Street, tutti hanno inizialmente tentato di sbarrare la strada al magnate e reality star di New York.
Ma come scrive accuratamente Spannaus: «Trump se n’è infischiato del sostegno dell’establishment (…). Si è rivolto alla base, alla classe media americana che si sente esclusa dal mondo della politica». Quella stessa base che per decenni era stata strumentalizzata da una classe politica che ha esacerbato le divisioni e la fiele per trasformarla in voti. Il livore prevalentemente dei maschi bianchi è stato fomentato in successive crociate ideologiche – le cosiddette culture wars – contro gli immigrati, l’aborto, il matrimonio gay, i radical chic e gli scrocconi del welfare – salvo poi dimenticarsi dei fedeli alla linea e tornare a curare gli interessi tradizionali dei poteri forti di Washington e Wall Street.
Trump ha fatto anche lui leva sul groviglio di rancori e risentimenti di una popolazione bianca in procinto di diventare minoranza (demografica, politica, culturale) sfruttandone la paranoia con appelli «in codice» agli impulsi nostalgici ed egemonici (la sua candidatura ha dato spazio a forze a lungo sommerse – gruppi razzisti e suprematisti hanno visto moltiplicare il traffico sui loro siti). Ma in modo più trasversale, Trump ha dato soprattutto voce alle giustificate recriminazioni di una classe blue collar e «middle class» esautorata dalla globalizzazione capitalista, penalizzata dall’economia e dal divario sociale sempre più abissale.
D’altronde l’emancipazione degli di stati sovrani dalle forze del globalismo è un tematica che serpeggia da tempo nella nuova destra, la cosiddetta Alt Right, su entrambe le sponde dell’Atlantico; Trump se n’è fatto interprete popolare. «Si può discutere dei pro e dei contro di aspetti particolari della trasformazione avvenuta, dalla nascita di nuovi mercati e tecnologie alla crescita dei servizi di alto livello – scrive giustamente Spannaus – ma non si può negare che in tutto questo la classe lavoratrice come esisteva nel periodo del dopoguerra ha infine pagato buona parte del conto» . E ancora: «Per anni gli effetti negativi del processo di de-industrializzazione della economia americana sono stati camuffati dalla grande crescita della finanza. La bolla dei mutui subprime non va vista come un evento in sé, ma appunto come parte di questo processo più lungo di finanziarizzazione».
L’ascesa di Trump è in parte legata alla colossale truffa dei derivati perpetrata dall’oligarchia finanziaria ai danni di poveri e lavoratori, abbandonati a un mondo di sottolavoro, potere d’acquisto in declino, stagnazione dei redditi e crescita della diseguaglianza. La demagogia dell’antiglobalismo «di destra» che esprime contiene, insomma, una dose di verità. (Obama è per il Ttp, la politica dell’inclusione del partito democratico è anche quella della globalizzazione e dell’interventismo militare, ecc.) E il suo successo rappresenta così anche l’incapacità della sinistra istituzionale di articolare una critica politica efficace alla dittatura finanziaria. Come la risposta nazional populista alla crisi della sovranità in Europa, il trumpismo rappresenta la reazione contro un blando riformismo «di sistema» che dal punto di vista dei ceti ex-manifatturieri incarna unicamente gli interessi delle élite urbane. E con l’uscita di scena di Bernie Sanders Trump è rimasto il solo ad articolare una critica «radicale», pur se strumentale, al sistema. Nelle parole di un ex metalmeccanico intervistato in Ohio: «Lo so che le acciaierie qui non riapriranno e che i nostri posti di lavoro sono spariti per sempre. Ma Trump almeno lo dice».
L’universo trumpista racchiude, come si è visto nella coreografia della convention, una rappresentazione manichea, facilmente digeribile del neolibersimo globale: la Cina e il Messico che rubano lavoro agli Americani; le élite politiche chiuse nei loro palazzi di vetro che si beffano del lumpen comune di cui deridono la fede e la tradizione, mentre accolgono con falso buonismo le orde scure di tutto il mondo. L’atto di enunciare questa narrazione «politicamente scorretta» ha avuto una prorompente forza catartica in una consistente fetta di elettorato.
Il risveglio dei giganti
C’è molto in questa osservazione: aiuta a spiegare come Trump abbia preso in contropiede l’establishment politico di entrambi i partiti. E la sua ascesa contiene anche l’eterno paradosso americano di un proletariato che vota regolarmente contro i propri interessi: l’assistenza sanitaria pubblica, ad esempio, o in genere «programmi di governo», nel nome di una mitologia emotiva di «libertà» ed eccezionalismo.
Misto alla misoginia e al razzismo, «l’americanismo» trumpista esprime l’ira funesta contro il sistema «tarato». E può spiegare in parte come ampi settori delle classi esautorate abbiano deciso paradossalmente di affidare la propria rivalsa contro le nuove oligarchie ad un oligarca. Un miliardario, sì, ma apparentemente disposto a stracciare il galateo dell’ordine costituito.
Allora, vincerà Trump? La realtà è che questa, incredibilmente, è oggi una possibilità concreta. Trump ha risvegliato un «gigante dormiente» e per contrastarlo Hillary ha cento giorni per ricostituire gli elementi base della Obama coalition –per portare alle urne, neri, ispanici, donne, giovani – e a questo punto Americani antifascisti – in numeri sufficienti da arginare la marea. Nelle parole di Ian Masters, la domanda che circola insistente qui in questa estate torrida è: esiste oggi in America una maggioranza di persone ragionevoli, razionali, istruite e decenti che possa tenere Trump lontano dalla Casa Bianca?. La risposta dirà molto sul futuro delle democrazie occidentali.
La trappola del «change maker»
Questa estrema semplificazione della corsa per la Casa Bianca, proposta da Doyle McManus sul Los Angeles Times, è la chiave perfetta, nella sua essenzialità, per leggere quanto sta accadendo negli Stati Uniti dopo le due convention di Cleveland e di Filadelfia e quanto, prevedibilmente, accadrà nei novantacinque giorni che ci separano dal fatidico 8 novembre delle presidenziali americane.
Perché è probabile che vada così, che tutto si riduca ai due «referendum»? Perché, a ben vedere, è andata così fin dall’inizio, dacché Donald Trump ha vinto le prime elezioni primarie repubblicane, e le ha vinte proprio ponendo al centro dello scontro il tema dello status quo e del suo cambiamento, e facendone il filo conduttore della sua sfida. Proponendo se stesso come agente di questo cambiamento. Il change maker.
Di qui la trappola, forse inevitabile, in cui sono finiti incastrati i suoi avversari repubblicani, che hanno accettato il suo campo di gioco, e hanno così ridotto le primarie a un interminabile referendum su Donald Trump. E hanno trovato un’eco, che ne ha moltiplicato gli effetti, in un sistema mediatico affamato proprio di personaggi come lui, perfetto antagonista macho di una candidata come Hillary Clinton, l’inevitabile, l’indiscutibile nominée democratica e, poi, l’inevitabile, indiscutibile Madam President. Una storia, non fosse stato per Trump, scontata in partenza, che avrebbe reso noiosa anche questa competizione presidenziale.
L’ultima poi, quella tra Obama e Romney, era stata particolarmente grigia. Questa volta no, grazie alla sorpresa di Bernie Sanders, e soprattutto, appunto, alla straordinaria prestazione di un outsider catapultato nella politica dagli affari e dall’entertainment, con la massima gioia dei media, appunto, anche di quelli che, sul miliardario indecentemente disinibito, hanno riempito pagine e pagine e ore e ore di tv colme di indignazione apparentemente incredula.
Quanto hanno guadagnato da Trump, i media? Ma quanto ha avuto lui, in cambio, quanti milioni di dollari ha risparmiato in una propaganda elettorale gratuita che ne ha ingigantito la sfida? E ora, la loro creatura, questa strabiliante media creation, potrebbe davvero diventare il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti.
Un doppio referendum, dunque, ognuno dei quali, a ben vedere, interagisce con l’altro. Ed è lungo questa traccia – anche se mai esplicitata ma evidente – che si muove il saggio di Andrew W. Spannaus (Perché vince Trump), un libro, peraltro, che è un’ottima guida per familiarizzare con la politica statunitense, di cui si pensa di sapere molto e invece si sa poco, e con molti dei meccanismi e con la dinamica delle elezioni americane, non solo di quella in corso. Spannaus aiuta a capire chi è Trump, sebbene perfino il suo libro, nell’inevitabile sforzo chiarificatore di affermare che l’autore non è dalla sua parte, solo perché lo prende sul serio, non riesce ad andare fino in fondo e senza impaccio nella descrizione di un agente del «sovversivismo delle classi dirigenti» del nostro tempo qual è Donald Trump.
Ci sono dilemmi, su questo personaggio, che non possono essere sciolti, perché in realtà non vanno sciolti. «Let Trump be Trump», «Trump faccia Trump», ripeteva il suo stratega delle primarie, il losco Corey Lewandowski, poi licenziato perché troppo «trumpista» per essere sostituito dal più moderato Paul Manafort, chiamato a impostare una campagna more conventional, più convenzionale. Qualcuno si è forse accorto di un mutamento nello stile di Trump?
Ecco perché il referendum sul cambiamento tiene banco e, se anche si può obiettare facilmente che non può essere certo un miliardario spregiudicato il change maker invocato, è addirittura illogico per molti elettori – come continuano a confermare molti sondaggi – che a riparare le cose sia un esponente dell’establishment: la «secretary of the status quo», come Hillary è stata definita da Mike Pence, il numero due del ticket presidenziale repubblicano.
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