mercoledì 5 ottobre 2016

I conti con la Russia

La difficile partita con la russia 
Marta Dassù Busiarda 5 10 2016
Che Paese è per noi la Russia? Oggi, quando si terrà alla Farnesina il Consiglio italo-russo per la cooperazione economica - con ministri e industriali da entrambe le parti - sarà bene avere idee chiare in proposito. Proviamo a discuterne alcune.
Primo: se guardiamo all’economia, la Russia è un partner rilevante, specie in alcuni settori (non solo l’energia ma anche, per fare un solo esempio, l’agro-alimentare). L’Italia fa bene a difendere i propri interessi con Mosca. Lo fanno tutti i grandi Paesi europei, che d’altra parte mantengono in piedi le sanzioni occidentali decise a seguito dell’annessione della Crimea e del conflitto in Ucraina. Per l’Italia (così come per la Germania), il costo delle sanzioni in termini di mancato export è particolarmente rilevante: 3,6 miliardi di euro nel 2014-2015. Nell’estate scorsa, Roma aveva cercato di riaprire il dossier, opponendosi a un rinnovo automatico delle sanzioni europee alla Russia: è una posizione che resterà nelle «minute» del Consiglio ma che non ha avuto seguito. E le cose non sono certo migliorate da allora: i famosi accordi di Minsk II (sull’Ucraina) sono rimasti sulla carta, mentre è clamorosamente fallita, con gli ultimi bombardamenti su Aleppo e il loro tragico prezzo in vite umane, anche l’illusione di una intesa con Mosca sulla Siria. 
In queste condizioni, intravedere un rapido cambiamento del clima con la Russia, e tanto più nella fase di incertezza legata alla campagna elettorale americana, è poco realistico. L’Italia valuta giustamente di non avere opzioni diverse da quelle che sta praticando: difesa del proprio interesse nazionale al dialogo con Mosca ma anche partecipazione alle decisioni comuni (Ue e Nato) che riguardano il contenimento della Russia sul fronte Est dell’Europa. Sfilarsi in modo unilaterale avrebbe infatti per l’Italia costi «sistemici» più generali, politici ed economici; superiori al costo delle sanzioni. Insieme agli spazi esistono insomma anche i vincoli della politica italiana verso Mosca. Rispetto al passato, il calcolo è più libero; ma il risultato, a me pare, non cambia di molto.
Secondo: in materia di sicurezza europea, la Russia di oggi non è un partner ma un avversario. L’occasione di creare un ordine pan-europeo fondato sulla cooperazione con Mosca è stata persa da entrambe la parti alla fine del secolo scorso. Oggi è tardi. Per Paesi come la Polonia o i Baltici, la Russia post-sovietica ma ancora imperiale resta una minaccia. Per la Russia di Putin, annettere la Crimea e intervenire in Ucraina è in ogni caso la legittima difesa di una propria e storica area di influenza. Su quest’area grigia - il cosiddetto «estero vicino», che separa e connette le due masse continentali - si consuma la frattura geopolitica fra l’Europa e la Russia. Lo scenario più probabile, a medio termine, è che il conflitto resti congelato. Non si tratta certo di una riedizione della guerra fredda; ma la realtà è che avere una relazione «avversaria» con Mosca, sul teatro europeo, impedisce di stabilire un nuovo ordine di sicurezza. Certo: la Russia resta invece un partner potenziale nella lotta ad Isis. Ma ciò implica di riuscire a «separare» i vari fronti del rapporto con Mosca e richiede un accordo vero sul futuro della Siria. La tragedia di Aleppo, come osservavo, ha moltiplicato i dubbi. 
Terzo: sul piano ideologico la Russia si propone ormai come un rivale, all’ombra di una democrazia illiberale o (per usare il vecchio termine di Vladislav Surkov) della propria democrazia «sovrana». Controllo interno e proiezione esterna, nei vuoti lasciati dal parziale ripiegamento americano. La Russia neo-patriottica e revanscista di Putin - che vede negli Stati Uniti la superpotenza in declino e nell’Ue la potenza mancata - riesce ad esercitare un qualche appeal internazionale. Perfino nel mondo occidentale, da Marine Le Pen a Donald Trump. Per dotarsi di antidoti, è sufficiente pensare che questa Russia stabile all’interno e in ascesa all’esterno maschera anche profonde fragilità. I disegni personali di Putin non coincidono necessariamente con gli interessi strategici del Paese, che avrebbe bisogno di diversificare e modernizzare la propria economia. Era il grande progetto su cui costruire - in teoria - la cooperazione fra l’Ue e Mosca. Ma di quel progetto resta poco, mentre si scaricano sulla Russia le tensioni dei mercati petroliferi, ben più che l’effetto delle sanzioni.
Tutto questo significa che la Russia di oggi è un cliente complicato e difficile. Tanto più per un’Europa divisa. Trovare un nuovo equilibrio non sarà semplice, anche perché il terreno di gioco è diventato più ampio. Non è un caso che Putin coltivi ormai - assieme alla relazione con un’altra democrazia illiberale ai nostri confini: la Turchia di Erdogan - un disegno «Euroasiatico», fondato su rapporti economici e di sicurezza con le nuove potenze d’Oriente, dall’Iran alla Cina. La reale consistenza dei progetti russi attraverso l’Eurasia andrà verificata. Ma se si aggiungono i timori degli Stati Uniti sul dopo-Brexit - il timore, in sostanza, che l’Europa continentale possa a sua volta gravitare verso l’Eurasia, distanziandosi dall’Atlantico - la partita che riguarda l’Europa è una partita globale. Che l’Italia, con i Paesi europei, ha interesse a giocare e non soltanto a subire. Porsi queste domande, e cercare risposte comuni, è un modo per cominciare.
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Gli italiani di Crimea “riabilitati” da PutinA Mosca una mostra li riscopre Lucia Sgueglia Busiarda 5 10 2016
Deportati da Stalin nei Gulag del Kazakhstan, insieme con altri «piccoli popoli» al termine della seconda guerra mondiale, con l’accusa di aver collaborato coi nazisti. E oggi premiati da Putin, nella Russia erede dell’Urss che li perseguitò, mentre l’Italia, più o meno, li ignora. È il paradosso degli italiani di Crimea, una storia che comincia nell’800 quando qualche migliaio di pugliesi, liguri, veneti e campani emigrano nella penisola ucraina, già all’epoca meta turistica dell’élite zarista, in cerca di fortuna, là dove dal Medioevo esistevano colonie della Repubblica di Genova.
Il comunismo confiscò loro case e terreni, poi nel 1942 furono rastrellati e spediti nelle steppe d’Asia Centrale come rappresaglia contro l’invasione dell’Unione Sovietica da parte dell’Armir.
Oggi sono rimasti in trecento, una piccola comunità in difficoltà dopo l’annessione alla Russia. Ma con l’orgoglio della propria storia, e il desiderio di riallacciare i legami con l’Italia, frustrato. Ora una mostra itinerante, Storia e storie degli italiani di Crimea, li celebra: proprio a Mosca, nella prestigiosa Società Geografica Russa, ove approda dopo esser stata due anni fa a Torino. Organizzata grazie alla Borsa Premio del Presidente della Federazione Russa, con cui verrà realizzato anche un libro.
La svolta un anno fa grazie, guarda caso, all’anticomunista Silvio Berlusconi, in vacanza in Crimea con Putin: una visita che fece irritare tutta l’Europa segnando un riconoscimento implicito del passaggio della penisola ucraina alla Russia. Ma servì anche a riportare l’attenzione sui krimskoe-italiantsi: una delegazione incontrò Silvio e Vladimir in un bar sul lungomare di Yalta. Il giorno stesso Putin modificò il suo Decreto (21 aprile 2014-12 settembre 2015) sulle minoranze di Crimea «Misure per la riabilitazione di armeni, bulgari, greci, tatari e tedeschi e sull’appoggio statale alla loro rinascita e sviluppo», includendovi gli italiani. «Per ristabilire la giustizia storica», vi si legge, «con un recupero politico, sociale e spirituale». Una mossa di «pr» dello zar mirata però soprattutto ai tatari, che avevano boicottato il referendum di annessione nel marzo 2014. Oltre 200 mila furono deportati nel 1944: ma a differenza di ceceni e caucasici cui nel 1956 Krusciov diede il diritto di tornare a casa, il loro rimpatrio iniziò solo a fine Anni 80, e fu formalizzato da Kiev nel 1991.
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La simpatia non è una strategia: note sul rapporto Italia-Russia
Affinità e stereotipi favorevoli hanno sempre segnato il nostro approccio con Mosca, anche durante la guerra fredda, e alimentato i commerci bilaterali. Ma di qui a stabilire una linea geopolitica il passo è lungo. Per recuperare il dialogo si potrebbe ripartire dall’Osce.
di Stefano Silvestri limes 8.10.2016
Di destra, centro o sinistra, credenti e non, capitani d’industria, operai, negozianti o albergatori, nel complesso tutti gli italiani hanno un pregiudizio favorevole nei confronti della Russia, quale che sia la situazione politica del momento. Ciò non esclude duri confronti, come negli anni della guerra fredda, né altrettanto estreme contrapposizioni ideologiche, come quella nei confronti del comunismo, ma non ha mai impedito il parallelo sviluppo di buoni rapporti commerciali e umani, e talvolta anche alcune cooperazioni politiche. Da questo punto di vista non poteva essere più sbagliato il soprannome attribuito ironicamente all’Italia da alcuni critici della sua linea di fedeltà atlantica, negli anni della guerra fredda, di «Bulgaria della Nato». La Bulgaria non ha mai sviluppato con l’Occidente i legami industriali e commerciali che l’Italia strinse in quegli stessi anni con l’Urss. Eppure questa costante linea di buoni rapporti non ha mai assunto le caratteristiche di una grande strategia. Negli anni in cui il generale de Gaulle favoleggiava di un’Europa diversa da quella divisa dalla cortina di ferro, unita «dall’Atlantico agli Urali» (ignorando pericolosamente la Siberia e l’Asia centrale sovietica), l’Italia si atteneva tranquillamente alla linea atlantica ed europea occidentale, anche se continuava a fare affari con Mosca. Forse l’unico tentativo di dare profondità strategica a questa linea è venuto da Silvio Berlusconi, nel 2002, al vertice atlantico di Pratica di Mare, cui era stata invitata anche la Russia. Ma fu un’apertura improvvisata e poco consequenziale. Lo stesso Berlusconi sembrava propendere per il rapido ingresso della Russia sia nell’Alleanza Atlantica sia nell’Unione Europea, senza però delineare con chiarezza le ragioni strategiche di una simile mossa, i suoi obiettivi di medio-lungo termine, le sue modalità eccetera. Tutto si risolse quindi in un’operazione dalla portata molto più limitata, con la costituzio ne di un Consiglio Nato-Russia per quello che riguardava l’Alleanza, e l’avvio di un rapporto difficile e presto conflittuale tra Ue e Russia. L’Italia, dopo aver lanciato il sasso, di fatto si limitò a ritirare la mano e ripiegò rapidamente nel business as usual (condito in modo vagamente folkloristico con uno stretto rapporto personale tra Berlusconi e Vladimir Putin). La tradizione è stata mantenuta anche dai governi recenti. Ricordiamo ad esempio Enrico Letta, l’unico capo di un governo occidentale presente alla cerimonia d’apertura delle Olimpiadi a So0i, malgrado la crisi ucraina (Putin ricambiò venendo nel 2015 all’Expo di Milano). Ciò non impedisce all’Italia, sia pure in situazione di grave sofferenza economica, prima ancora che politica, di applicare le sanzioni decretate dall’Europa nei confronti di Mosca, nella continua applicazione di quella linea di doppio binario, fedeltà occidentale da un lato e dall’altro apertura per quanto possibile nei confronti della Russia, che sembra essere divenuta una peculiarità permanente della politica estera italiana. 2. In questo l’Italia non è sola. Ancora più evidente e significativo è l’analogo doppio binario della politica tedesca, che però è caratterizzato da una differenza sostanziale: la capacità di impostare una strategia politica complessa nei confronti di Mosca, che assicuri a Berlino un ruolo di leadership di tutta la politica europea in questo quadrante. Si potrà credere o meno all’utilità e alla fattibilità degli accordi di Minsk, negoziati in prima persona dalla cancelliera tedesca, ma si deve riconoscere che essi sono l’unico quadro di riferimento negoziale su cui tentare di reimpostare un filo di dialogo politico, al di là delle mere convenienze commerciali. È questa chiarezza (e forse anche questo peso negoziale) che è sempre mancata all’Italia e che quindi ha relegato anni di buoni rapporti al rango più modesto di semplice politica «degli affari», tacciata facilmente di opportunismo e di insensibilità, anche se nella realtà essa corrispondeva a un più profondo sentire e a una intuizione italiana di quanto sarebbe migliore il quadro politico europeo se la Russia non apparisse sempre e solo come antagonista. Naturalmente non esistono solo le responsabilità italiane. È oggettivamente difficile trattare con la nuova Russia di Putin sul piano politico, quando da un lato si pone l’accento unicamente sulla forza militare e dall’altro si esalta una linea neo-nazionalista gravida di minacce per i paesi confinanti. Se un tempo il mondo doveva fare i conti con le elucubrazioni ideologiche del Pcus, ora assistiamo preoccupati alle crescenti sbandate ideologiche di un presidente russo che cita in lungo e in largo un profeta del fascismo russo come Ivan Ilyin e altri analoghi epigoni del totalitarismo. Putin tenta così un recupero della storia russa combinata al sistema sovietico (che ha forgiato le strutture che hanno permesso la crescita e l’affermazione della sua nuova classe dirigente) e alla Russia bianca e antibolscevica (di cui Ilyin era un fervente sostenitore). Tuttavia un simile abbraccio nazionale avviene alla luce di un sincretismo ideologico e culturale tipicamente russo che in qualche modo rischia di accrescere le distanze dall’Europa, anche se risuona favorevolmente alle orecchie della nuova destra populista europea: ma è forse questa la sintesi che dovremmo augurarci? 
3. Il rischio attuale dunque è che la tradizionale politica del doppio binario, più o meno strategicamente condotta, venga travolta da una nuova contrapposizione ideologica, analoga a quella del passato tra comunisti e anticomunisti, ma questa volta declinata in termini di neo-fascisti/populisti e antifascisti/democratici, con la Russia ancora una volta pilastro e faro di uno dei due campi, mentre l’altro cercherà i suoi campioni a Occidente (nella speranza che la generalizzata crisi politica ed economica non li renda troppo deboli per reagire con efficacia). C’è da augurarsi che questo scenario limite non si realizzi, anche perché sarebbe un déjà vu, e che prevalga anche in questo caso quel detto della saggezza popolare secondo il quale se un primo evento è una tragedia, la sua ripetizione nel tempo lo trasforma in una farsa: ma persino le farse possono essere sanguinose. Nel contempo, il modesto volano positivo della politica degli affari, sia pure perseguito con l’attuale governo, soffre, al di là delle sanzioni, del crollo vertiginoso dell’economia russa che vede il pil in caduta libera (più di tre punti in due anni), il rublo in continua rapida svalutazione e l’inflazione a due cifre. Tutto ciò non può non comprimere la domanda interna e quindi anche le importazioni. Rimane forte la nostra quota di importazione del gas russo, ma l’abbandono del progetto South Stream e lo stallo del Turkish Stream riducono notevolmente le prospettive di cooperazione, danneggiando ad esempio l’italiana Saipem che si occupa delle infrastrutture per i gasdotti e gli oleodotti. Il presidente del Consiglio Renzi ha cercato di affrontare questo tema inserendosi nel rapporto bilaterale russo-tedesco, in particolare per quel che riguarda il progettato raddoppio del gasdotto Nord Stream. L’inserimento di aziende italiane (tra cui la Saipem) in questo quadro potrebbe risolvere alcuni problemi. Sicché la politica degli affari dell’Italia tenta di sopravvivere all’ombra dell’analoga politica tedesca. Rimane però irrisolto il problema di fondo di come riannodare le fila politiche con questa nuova Russia. L’Italia è stata tra i paesi che più hanno insistito nel garantire la persistenza di un ruolo centrale per l’Osce, l’organizzazione basata a Vienna, nata dalla distensione e dagli accordi di Helsinki, di cui la Russia continua a essere membro, assieme ai paesi occidentali. Questa organizzazione è stata spesso ignorata o bistrattata dagli occidentali, ma è in realtà uno dei pochissimi pilastri rimasti in piedi del periodo della cooperazione Est-Ovest, ed è generalmente accettata da tutte le parti in causa. Ripartire da questo punto può essere forse modesto, ma necessario. 

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