domenica 2 ottobre 2016

Il liberalismo non riuscirà mai a venire a capo del problema della dialettica tra culture

Perché non è strutturalmente in grado di risolvere la questione del rapporto tra universale e particolare [SGA].



Culturalmente corretto 

Il problema del rapporto con riti e saperi altrui risale almeno ai Greci e ai Romani e passa attraverso la letteratura con Kipling e Salgari che raccontarono mondi diversi
Da Marc Jacobs “processato” per aver fatto sfilare bionde modelle con treccine afro alle polemiche contro la Disney “responsabile” di aver sfruttato un costume maori per il prossimo film È lecito usare le tradizioni degli altri per fini commerciali?

MAURIZIO FERRARIS 2/10/2016 Repubblica
Pochi giorni fa lo stilista Marc Jacobs, reo di aver fatto sfilare a New York modelle bionde e bianchissime con treccine rasta, è stato accusato di “appropriazione culturale”. E dall’altra parte del mondo Marama Fox, a co-leader del partito Maori della Nuova Zelanda, e membro del parlamento neozelandese, ha censurato il caso di mis-appropriazione (diciamo appropriazione inappropriata) del costume maori nel film Moana, che uscirà a fine novembre, e ha osservato che la Disney cercava di trarre profitto dalla proprietà intellettuale di un’altra cultura. Ora, Disney è il re della mis-appropriazione: Pinocchio, le fiabe di Andersen, e persino la mis-appropriazione di una margravia tedesca medioevale per farne il modello della regina cattiva di Biancaneve, come ha dimostrato lo storico della filosofia Stefano Poggi in La vera storia della regina di Biancaneve, dalla selva turingia a Hollywood (Raffaello Cortina 2007). Ma né i danesi, né i tedeschi, e nemmeno gli italiani si sono rivelati suscettibili come i Maori (o meglio, come un Maori). Come mai?
La risposta è ovvia: i Maori sono una etnia indigena di un ex Dominion inglese, Disney una multinazionale americana. Ma allora il problema non è l’appropriazione, bensì la posizione di forza da cui è condotta, che la trasforma in espropriazione. I rasta americani che si appropriano della cultura etiope non sono vissuti come mis-appropriatori, ma Kipling potrebbe essere trattato come Disney (che peraltro si è appropriato anche di lui). La mis-appropriazione, in effetti, è l’inverso della colonizzazione. Difficilmente si accuserebbe di mis-appropriazione un lituano o un lussemburghese, e, per motivi diversi, né Salgari può considerarsi un misappropriatore di malesi (il suo messaggio è anticoloniale) né Sergio Bonelli può essere considerato, con Tex Willer, un misappropriatore di americani, proprio come l’adozione universale dei fast-food non è considerata come un sistema di mis-appropriazione, bensì come una forma di soggezione culturale. È difficile accusare una minoranza, o una cultura subalterna, di appropriarsi degli usi e dei costumi di una maggioranza – il processo si chiama invece integrazione o omologazione, a seconda dei punti di vista.
Ora, è ovviamente sbagliato espropriare una cultura con criteri coloniali. Ma questo non deve nascondere il fatto che la cultura è una ininterrotta lista di appropriazioni. L’appropriazione del fuoco da parte di Prometeo. L’appropriazione dell’alfabeto fenicio da parte dei greci. L’appropriazione dei calzoni e dei saponi dei galli da parte dei romani. L’appropriazione di pomodori, patate e tabacco ai danni dei nativi americani, che si sono rifatti appropriandosi dell’equitazione e dei fucili a ripetizione. L’appropriazione delle pesche e degli scacchi, tolti ai persiani, della seta e della polvere da sparo, tolte ai cinesi, delle staffe, tolte ai longobardi, dello zero, tolto agli indiani dagli arabi e agli arabi dagli europei, e delle terme tolte ai romani dai turchi e a questi ultimi dalle spa di tutto il mondo. L’appropriazione della pizza da parte degli americani, dei cibi indiani da parte dei britannici (pare che il pollo tikka masala sia stato inventato a Glasgow), del curry per il Currywurst da parte dei tedeschi e della margarita (notoriamente un cocktail per turisti) da parte dei nativi messicani, l’appropriazione mondiale della cravatta ai danni dei croati, della polka ai danni dei polacchi, e dei vestiti alla marinara da parte dei bambini ricchi dell’Ottocento.
L’appropriazione può addirittura comportare la ri-appropriazione di cose mis-appropriate, come la colonna sonora del Re Leone ( Akuna Matata) che a Zanzibar suona all’orecchio del turista come disneyana, mentre è tradizionale, e alla espropriazione di cose inventate di sana pianta, come quella del termine “padrino” (traduzione di The Godfather, il romanzo di Puzo) da parte dei mafiosi. Si tratta di uno scambio vitale, perché le vie della appropriazione comportano passaggi dall’alto al basso e viceversa e sono potenziate dal volano costituito dalla globalizzazione. Si pensi alla appropriazione di assurdi nomi pseudo-italiani da parte delle automobili giapponesi e di assurdi nomi pseudo-giapponesi da parte di Puccini, e di un calypso di Harry Belafonte da parte del filosofo Willard Van Orman Quine, che ne usò un verso per intitolare il suo From a logical point of view. Senza dimenticare la splendida mis-appropriazione dell’inglese da parte di un polacco, Joseph Conrad, e di un russo, Vladimir Nabokov, o del francese da parte di Beckett o di Léopold Sédar Senghor. O la reciproca appropriazione di cultura greca e romana nell’antichità, o l’appropriazione della religione ebraica, della filosofia greca e della politica romana da parte della chiesa cattolica.
Una volta fatta salva la critica della espropriazione, vorrei suggerire due cose. Primo, niente è più rischioso di un ideale di identità come purezza e proprietà assoluta. Nulla di questo genere esiste, se non come idiozia (etimologicamente: idiotes, chi vive del proprio, il privato, l’incolto), ma l’inseguimento di questa chimera può produrre catastrofi di ogni sorta. Secondo: per parte sua, l’appropriazione non funziona mai appieno, ma, come suggeriva un grande filosofo, Jacques Derrida, attraverso il termine di “ex-appropriazione”, questo scacco è anche una risorsa, definisce una situazione dinamica, evolutiva, arricchente. Derrida confessava di avere solo una lingua, che però non era sua, perché il francese, la sua lingua madre (era ebreo d’Algeria e non conosceva né l’ebraico né l’arabo) era in effetti una lingua matrigna, vicina e lontana, la lingua della emancipazione culturale e insieme quella del colonizzatore. Partendo da questo “monolinguismo dell’altro” – la situazione di chi avverte la madrelingua come propria e altrui – Derrida ne ha sfruttato le risorse e invece di vagheggiare la purezza di una improbabile Heimat ha creato una potente ibridazione (appropriazione, mis-appropriazione, ex-appropriazione) tra filosofia tedesca, letteratura francese, cultura americana che costituisce uno dei prodotti filosofici più significativi del secolo scorso.
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Kureishi: “Si rischia la globalizzazione degli stereotipi” 

ENRICO FRANCESCHINI RCULT 2 10 2016
LONDRA «L’incontro fra culture è sempre avvenuto e la globalizzazione ha reso universale ogni stile» dice Hanif Kureishi. «Ma il problema dell’appropriazione culturale sono gli stereotipi e l’ineguaglianza», ammonisce lo scrittore anglo-pakistano, «descrivere un musulmano soltanto come terrorista, fare fortuna sfruttando commercialmente il blues, mentre i musicisti neri che l’hanno inventato sono in miseria». Stereotipi e diseguaglianze contro cui l’autore di Il Budda delle periferie e lo sceneggiatore di My Beautiful Laundrette ha sempre lottato: temi che tocca anche nel suo ultimo romanzo, Un furto, pubblicato in Italia, come tutti i precedenti, da Bompiani.
L’appropriazione culturale è la conseguenza negativa del “melting pot”, del pentolone di razze, del multiculturalismo?
«In realtà è una questione molto ampia e che dura da lungo tempo. La musica americana moderna viene in gran parte dalla musica nera folk, blues, jazz: un’operazione non solo di appropriazione culturale, ma di vero e proprio sfruttamento commerciale, senza pagare un centesimo di diritti, naturalmente ».
Dunque è legittimo protestare se a una sfilata di moda ci sono modelle bianche con treccine afro?
«Sì e no. La globalizzazione ha reso universale ogni stile, ogni moda, ogni cultura: non dovrebbe esserci niente di male, se una ragazza bianca vuole avere le treccine afro o una nera tingersi i capelli di biondo. È la libertà di espressione. È uno scambio, un riconoscimento reciproco, una forma di apprezzamento anziché di appropriazione culturale. Del resto nel campo dell’arte è sempre stato così: qualcuno prende nel campo del vicino, qualcuno dà, qualcuno copia, qualcuno si ispira, altrimenti resteremmo tutti chiusi ciascuno nel proprio piccolo recinto nazionale o magari locale, rionale, tribale».
Qual è il confine da non valicare, allora?
«Il limite sta nello stereotipo culturale. Il cinema, per esempio, lo fa di continuo. Dai vecchi film di Hollywood in cui i neri erano descritti con un cliché, ad esempi molto più recenti. Ho tanti amici musulmani, qui a Londra, che si lamentano di come, nei film e in tv, i musulmani siano ritratti come terroristi o come camerieri: non c’è mai un musulmano che fa l’avvocato, l’agente segreto o l’eroe della vicenda».
Il rischio opposto è diventare prigionieri del politicamente corretto?
«Il politicamente corretto è diventato un’ossessione e spesso rappresenta chiaramente un’esagerazione, talvolta perfino ridicola. Ma bisogna anche comprendere i sentimenti delle minoranze, specie nel momento in cui i neri vengono sottoposti a plateali violenze e uccisi da poliziotti bianchi. L’attenzione ai diritti di chi è diverso da noi, compresa quella sull’appropriazione culturale, non nasce dal nulla: viene da una storia di abusi e sofferenze ».
Lei cosa avrebbe fatto al posto di Marc Jacobs?
«Qualcuno potrebbe obiettare che lo stilista, se voleva far sfilare ragazze con i capelli afro, poteva scegliere modelle nere, anziché bianche. Ma la polemica sarebbe minore, o non esisterebbe affatto, se ci fosse più eguaglianza. Se neri, musulmani, minoranze, ricevessero lo stesso trattamento dei bianchi. A partire dal trattamento economico: i Rolling Stones sono diventati incredibilmente ricchi ricreando la musica blues in versione rock, mentre i musicisti neri che la inventarono erano per lo più in miseria».
Quella dell’incontro fra culture è una strada in cui il mondo va avanti o va indietro?
«I progressi ci sono. Personalmente, con il mio film My Beautiful Laundrette, penso che fui tra i primi a mostrare la comunità pakistana di Londra come persone normali, senza stereotipi. Trattiamo tutti allo stesso modo e il problema dell’appropriazione culturale scomparirà, nessuno protesterà più se i bianchi imitano i neri o viceversa».

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