Rabbia o euforia, il mondo si divide su Elena Ferrante Dal “New Yorker” che accusa l’inchiesta sull’identità dell’autrice al “Times” che ragiona sull’impossibilità dell’anonimatoSTEFANIA PARMEGGIANI Repubblica 5 10 2016
«Un giornalismo invasivo che rovista nell’immondizia ». «Una scoperta positiva che riafferma attraverso l’identità della scrittrice il potere dell’appropriazione culturale». Mentre su Amazon le vendite dei libri sono aumentate, il mondo letterario è stato sconvolto dall’inchiesta del Sole 24 Ore che seguendo la vecchia tecnica del follow the money ha identificato Elena Ferrante in Anita Raja, traduttrice di 63 anni. Non solo molti lettori, sia in Italia che all’estero, hanno reagito con rabbia sui social, ma anche tanti critici e scrittori si sono schierati in difesa del diritto all’anonimato. Accusano l’autore dell’inchiesta, il giornalista Claudio Gatti, di non avere rispettato la privacy della Ferrante. Libération definisce l’inchiesta «un’effrazione rozza e malsana» e il Guardian attacca la «terribile violazione» del diritto di non sapere, perpetrata prima di tutto nei confronti dei lettori. Il giorno prima lo stesso quotidiano aveva definito il giornalista un « idiotic bin rummager », ovvero uno che rovista nell’immondizia.
Marlon James, vincitore del Booker Prize, va giù ancora più pesante, chiedendosi «a che tipo di persona possa interessare questa m...?». Secondo il Financial Times centra il punto: è stato confuso il diritto di conoscere l’identità di una scrittrice famosa con il bisogno di conoscerla. Senza contare che gli accertamenti sulle proprietà e sulle entrate economiche sono «il tipo di controllo che ci si aspetta che i giornalisti riservino ai boss mafiosi, agli oligarchi e ai politici corrotti». Il New Yorker definisce Gatti «un pedante gonfiato» e sottolinea l’affermazione «bizzarra e offensiva» di una collaborazione di Raja con il marito Domenico Starnone: «Come se la perduta anonimità l’avesse resa ora vulnerabile all’accusa di non essere in grado di scrivere i suoi libri senza appoggiarsi creativamente a un uomo». Articoli come questi da giorni rimbalzano sui profili social degli scrittori. Non solo quelli italiani ( Wu Ming, Carlotto, De Cataldo, De Giovanni, Murgia, Erri De Luca), ma anche molti stranieri, da Neil Gaiman a Joyce Carol Oates, da Amitav Ghosh a Jojo Mojes che ha notato come «le autrici non vengono osservate attraverso le loro idee, ma attraverso le loro esperienze». Sul lato opposto della barricata il
Times, secondo cui ai tempi di Internet è impossibile mantenere a lungo l’anonimato. Condividono gli scrittori Rose Tremain e Lionel Shriver. Il New York Times, intervenuto nel dibattito con un editoriale del poeta e critico letterario Adam Kirsch, giudica la rivelazione positiva sebbene ottenuta con un approccio «più adatto a un’inchiesta criminale che alla critica letteraria ». Kirsch ricorda come nelle ultime settimane il mondo letterario sia andato in conflitto sull’idea dell’appropriazione culturale, «cioè sull’idea che uno scrittore abbia il diritto di raccontare storie su persone che non siano se stesse». Raja «raccontando la storia di povere ragazze napoletane come Linda ed Elena, ha rivendicato il diritto di immaginare le vite di gente diversa da se stessa». Anche se non ha vissuto in un quartiere degradato di Napoli ha potuto scrivere libri nei quali milioni di persone si sono identificate, «libri sul femminismo e il patriarcato, la povertà e la violenza, l’educazione e l’ambizione ». Ed è questo «il paradosso della letteratura, che è anche la gloria dell’umanesimo: l’idea che nulla di umano sia alieno ad alcuno di noi, che tutti abbiamo il potere d’immaginarci alla maniera nostra nelle vite di altri».
«Trovo disgustoso il giornalismo che indaga nella privacy e tratta le scrittrici come camorriste. Adesso si finisce anche per guardare nei conti ». Sandro Ferri, editore insieme alla moglie Sandra Ozzola di e/o non smentisce l’ultima ipotesi sull’identità di Elena Ferrante. È infuriato, ma non perché qualcuno ha ipotizzato che dietro la scrittrice si nasconda Anita Raja, moglie dello scrittore Domenico Starnone. Quello è il meno: sono anni che Raja è in cima alla lista dei “sospetti”. E Ferri si guarda bene dal citarla. Su di lei nessuna parola, neanche nella nota stampa che diffonderà poi in serata per ringraziare quanti sui social network si sono indignati per l’articolo o hanno ironizzato sulla caccia all’identità segreta. Una valanga di commenti sia di lettori italiani che stranieri. È infuriato perché questa volta l’ipotesi non poggia su basi letterarie, ma su compensi professionali e visure catastali. La vecchia tecnica del follow the money, solo applicata a un’autrice che ha scelto di rimanere anonima. La pista finanziaria è stata seguita dal Sole 24 Ore e i risultati sono stati pubblicati ieri anche dalla tedesca
Elena Ferrante, il triste banchetto di una società cannibalica
Da circa tre secoli molte donne, per necessità o per scelta, hanno imboccato la strada dell’anonimato e della pseudonimia, una strada esperienziale che, a differenza dei pur edificanti dibattiti degli anni Settanta, si è misurata con la vivibilità del mondo e la libertà femminile. Perché dunque non preferire l’indagine sul ruolo dell’autore come corpo pubblico, raccontare della sua vampirizzazione, della moltiplicazione dei festival letterari e della mancata corrispondenza con le vendite dei libri anche in presenza dell’autore? Invece di fare una inchiesta seria insomma non su «chi» è Elena Ferrante ma su «cosa» Elena Ferrante ha introdotto nella discussione critica pubblica attraverso i suoi soli libri, si sceglie un’altra strada che vuole inchiodarla a un banchetto collettivo. E il banchetto di una società vorace come quella contemporanea non si nutre di libri – i dati dell’editoria purtroppo lo confermano – ma di corpi da scarnificare, che sono vivi fino a quando servono interi. Ovvio che si consumano meglio a pezzi.
Il tema è il grado di imperdonabilità che si attribuisce a Elena Ferrante. Non c’è proporzione, misura necessaria con l’oggetto indagato che in questo caso è letterario e che assume un’equivalenza con qualsiasi altro oggetto. Privo di contesto, assaltato dall’interno della propria vita e dei propri affetti.
Poco male, perché il punto è che di sapere chi sia Elena Ferrante in effetti non importa quasi a nessuno dei milioni di lettori e lettrici che ha in tutto il mondo. Sembrerà davvero strambo ma a loro interessano le sue storie, il modo in cui possono amare la grandezza letteraria di una scrittrice che ha saputo scandagliare l’animo umano e restituire mondi abitati da protagoniste imperfette e terrestri. Il banchetto è rimandato quindi a data da destinarsi.
Giovani scrittori non rivelate il vostro nomeFerdinando Camon Busiarda 6 10 2016
Un buon consiglio da dare a uno scrittore esordiente è di adottare un nome falso e nascondere quello vero per tutta la vita. Un’opera non può circolare speditamente se deve trascinarsi dietro l’autore. Solo le opere anonime arrivano in fondo alla strada, le altre vengono continuamente bloccate da parenti, conoscenti, amici e nemici. Finché si fa sera, e non ripartono più.
L’ho scritto molti anni fa, quando il caso di Elena Ferrante non era ancora nato. Lo penso ancor oggi, a maggior ragione.
Tra l’uomo reale e l’uomo che scrive libri non c’è identità. E non è vero che se non conosci l’identità non puoi capire quello che scrive. Noi leggiamo l’Iliade e l’Odissea ma non conosciamo l’identità di Omero, non sappiamo nemmeno se è esistito, se ha scritto tutt’e due i libri o uno solo o parti di uno. Non sappiamo in quale epoca è vissuto, perché le forme costituzionali dell’Odissea sono troppo diverse da quelle dell’Iliade, e ci pare difficile che questa diversità sia maturata nell’arco di una vita. Le opere di Elena Ferrante rivelano che chi le ha scritte è una donna e conosce così bene Napoli, da far supporre che ci sia nata e ci viva dentro. Sapere chi è, cosa fa, dove fa la spesa, cosa compra, cosa mangia, se ha un marito, tutto questo è sviante rispetto alla conoscenza delle sue opere. Ci sono aneddoti su Leopardi che mi disturba conoscere. Come non si lavava… Come risolveva i suoi problemi sessuali… Come puzzava così tanto, che se andava a trovar amici all’ora di pranzo quelli smettevano di mangiare. La conoscenza di questi dettagli non mi serve per capire l’Infinito o A Silvia, anzi m’intralcia. Voglio dire: se non sapessi quegli aneddoti, quei versi li capirei meglio. Ingenuo come un bambino nel maneggiar denaro era il Foscolo, ma quando leggo I Sepolcri devo sgombrar la mente da questo ricordo. Ottieri beveva i profumi di sua moglie, perché era assuefatto all’alcol e i profumi contengono alcol. Lo rivela il suo analista, Cesare Musatti. Non c’è peggior vizio che quello di consultare un analista per scoprire la vita segreta di uno scrittore. Non c’è identità tra l’uomo che scrive e l’uomo che va in analisi. Se ci fosse identità, non andrebbe in analisi. Dopo la Ciociara, la vita di Moravia diventò un martirio. Come quella di Bassani dopo i Finzi-Contini. Come quella di Pasolini dopo i Ragazzi di vita. Lo scrittore che scrive sotto pseudonimo scrive in sincerità e verità. È libero perché è sconosciuto. Gli scrittori che scrivono col proprio nome e cognome sono schiavi della famiglia, dei parenti, del quartiere, degli amici… Sono ricattabili.
Sul contratto di un esordiente l’editore dovrebbe chiedere: «Come vuoi essere chiamato?», come si fa col Papa appena eletto. Quello è il suo nome. L’altro non c’è più.
Caro Camon, la biografia degli autori contaUn’opera esiste grazie all’umanità che c’è dietro Paolo Di Paolo Busiarda 7 10 2016
Vi ricordate quando si andava alla lavagna e il professore di turno chiedeva, di un autore, «vita e opere»? Noioso forse, tuttavia sensato. Sulla Stampa di ieri lo scrittore Ferdinando Camon ha riletto il caso Ferrante - il mistero (più o meno svelato) della scrittrice anonima - in modo curioso. Arrivando alla conclusione che, tutto sommato, non vale la pena perdere tempo con la biografia di Leopardi per capire la sua poesia. Contano solo le opere, insomma: così vanno ripetendo, un po’ scandalizzati, anche i fan dell’autrice senza volto.
Ma al di là della legittima - ripeto, legittima! - scelta di Elena Ferrante o chi per lei, c’è una questione che stiamo perdendo di vista. Lo slogan strutturalista relativo alla «morte dell’autore» mi pare abbastanza invecchiato per prenderlo ancora sul serio. Ma siamo sicuri di voler mandare al macero quintali di storie letterarie? È curioso: gli stessi difensori dell’opera-senza-autore spesso si incantano leggendo i diari o le lettere di Virginia Woolf, festeggiano Pasolini alle feste comandate e spingono per riaprire il caso giudiziario, fanno la fila per l’autografo ai festival letterari. Qualcosa non torna. La biografia di un autore non è una somma di pettegolezzi, una questione di portineria.
Nessuno è tenuto ad avere notizie su vani catastali, conti in banca, abitudini igieniche di uno scrittore. Ma interrogarsi sul senso del suo stare al mondo, sul rapporto - misterioso ben più di uno pseudonimo - tra le pagine che ha scritto e la vita che ha vissuto. No, non è un mito romantico, e non c’entra niente la smagliante nuova «autorialità» condivisa di serie tv e di scritture crossmediali. Sto parlando d’altro: sto parlando di quel contatto magico tra la tela di Van Gogh che vedo esposta nel grande museo affollato di turisti e la vita di lui, piccola, disperata, irripetibile. Il contatto tra una poesia di Ungaretti e il vento della trincea. Tra una pagina di Céline e il suo imbarazzante, faticoso, supremamente libero stare al mondo.
Mi piacerebbe capire perché visitiamo vecchi atelier in Provenza, case di scrittori, piccoli musei affollati di oggetti un tempo appartenuti a quello scrittore, a quel filosofo. È solo indiscrezione? È solo un ficcare il naso dove non dovremmo? Proust e Salinger non digerivano intrusioni nel loro privato, e questo sì, è comprensibile. Ma a posteriori sarebbe così facile capire - provare a capire veramente - la Recherche e i Nove racconti? A questo punto salta subito fuori chi dice: e allora Omero? E Shakespeare? Che sappiamo di loro? Eppure li leggiamo e li amiamo. Peccato che il tentativo di saperne un po’ di più, l’illusione di sfiorarli appena, ci sta a cuore da secoli. C’è una scena, nel film di Mario Martone che racconta Leopardi, Il giovane favoloso, che mi commuove. Non c’entrano né la condizione fisica, né la vita familiare. C’è lui che legge, insieme al fratello e alla sorella, una lettera di stima che gli arriva da Pietro Giordani. Detta un po’ per le spicce, il primo grande letterato che crede in lui. Mi commuove perché mi ricorda che un’opera non esiste senza qualcuno, un banale e stupefacente essere umano (astenersi software). Qualcuno che ama, che spera, che soffre, che chiede attenzione agli altri, al mondo. Qualcuno che può anche cambiarsi di nome ma - se scrive - lo fa perché resti un poco di sé, una traccia del suo essere passato su questo pianeta.
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